2022-01-03
Alfio Krancic: «Con la scusa della pandemia cancellata anche la satira»
Alfio Krancic e due recenti vignette
Il vignettista: «Avrò fatto centinaia di episodi su Scalfaro e Napolitano. Oggi invece Draghi e Mattarella non li prende di mira nessuno: grazie al Covid sono tutti santi».Non ama essere chiamato «vignettista», preferisce «disegnatore satirico». Ma ti corregge con un sorriso bonario, e il marcato accento toscano, senza un filo di irritazione. Satira, per Alfio Krancic, non vuol dire necessariamente cattiveria. Scorrettezza, quella sì. «E di questi tempi è dura, durissima, discostarsi dal pensiero unico». Nato a Fiume nel 1948, profugo a Firenze nella prima infanzia, ha trasformato la sua passione in professione negli anni Ottanta, partendo dalla Gazzetta di Firenze, passando nel 1992 a L’Indipendente chiamato da Vittorio Feltri e poi nel 1994 al Giornale, dove tutt’ora pubblica una vignetta quotidiana. Lo raggiungiamo telefonicamente in questi giorni di festa, lo troviamo in compagnia della gatta Stellina - «che io chiamo Pippina, e mi risponde lo stesso» - e della moglie Donatella, con la quale tra due anni saranno nozze d’oro. Che cosa vuol dire fare satira per Krancic?«Occorre uno sguardo che definirei distorto sulla realtà. Cinico, se vogliamo, sì è il termine più esatto. Serve il cinismo che ti fa cogliere le contraddizioni dentro ai fatti dell’attualità, estrapolandone la parte che non si vede subito, con disincanto e non per forza con cattiveria. Anche se a volte si userebbe volentieri il kalashnikov, di questi tempi (lo dice ridendo, ndr)». Tempi di pandemia, intende?«Eh, insomma, la situazione è davvero triste. Assistiamo, impotenti, e tocca subire in silenzio, senza poter incidere più di tanto». Si può far satira su contagi, green pass e mascherine?«La farei anche, a dire il vero. Perché di cose che non quadrano ne vedo, e tante. Ma finisce che quel che mi invento su questo tema preferisco pubblicarlo sui social o sul mio blog. È vietato parlar male dei vaccini, dei virologi, di questo e quell’altro. Con la narrativa ufficiale, il pensiero unico che domina, la satira soffre. Ci sono umoristi di corte, che seguono le direttive. Ma non è da me». Krancic è scorretto, addirittura di destra, si dice. Conferma?«Oggi sono proprio un cane sciolto. Ho lavorato anche per Il Secolo d’Italia e La Padania e sono stato a manifestazioni leghiste. Poi ho chiuso, dal Papeete in poi. Perché quel governo con i grillini fu un suicidio politico. E anche oggi Salvini rischierebbe grosso, se si andasse a elezioni».E far satira sulla politica oggi si può?«La politica è il sale della satira, ma che vuoi fare con un governo di maggioranza larghissima, in cui non puoi toccare da Renzi a Salvini? Forse puoi ritrarre i 5 stelle, quelli sì, ma è come sparare sulla Croce rossa: ormai sono in ritirata totale. C’è totale unanimità dell’opinione pubblica verso Draghi e i suoi ministri». Pubblica online quindi per fare una sorta di resistenza? «Esatto. E viene apprezzata, funziona. Anche se su Facebook non posso più farlo: sono stato espulso». Censurato?«In tempi non sospetti, mica di recente. Nel 2018 ci fu la lettera aperta di Laura Boldrini a Zuckerberg, chiedeva di dare uno stop all’odio sui social network. Di lì a poco, fui cancellato. Non sospeso, ma epurato così, di punto in bianco». Che cosa aveva pubblicato?«Non ricordo, a dire il vero, ma allora pubblicavo tutti i giorni contro la sinistra, sull’immigrazione. Ma anche su Twitter i miei amici non mi vedono, sa? Credo di essere oscurato. Ho 35.000 follower e inizialmente avevo migliaia di “mi piace”, ora al massimo un centinaio. Strano, no?».Chi sono stati nella sua carriera i più permalosi tra i suoi bersagli?«A dire il vero con me si usa da sempre una strategia ben definita: ignorarmi. Così, immagino, non vogliono dar modo di parlare di me, o cose del genere. Andavo spesso in tv, prima del 2000. Da Vespa, su Rai 3, da Gad Lerner… poi a un certo punto è calato il silenzio». Ha avuto la percezione di aver dato fastidio?«Non so come definire altrimenti questo isolamento. Ogni tanto mi sento un fantasma che si agita tra le notizie. Sono sempre stato ritenuto uno da tenere a distanza, per le mie posizioni classificate “di destra”. C’è stata una breve parentesi in cui sono tornato “notiziabile”, quando il Pd ha vietato una mia mostra sulle foibe. Ma bene o male prima la visibilità la avevo, ora zero. Beh, ora sto parlando con lei, a dire il vero».Infatti. Mi dice su chi le piacerebbe fare satira oggi, come forma di resistenza?«Non su Mario Draghi, perché è un personaggio talmente sfuggente sotto certi aspetti che mi risulta davvero difficile inquadrarlo, non dà appigli, mi sembra una statua di neve, o di ghiaccio. Gli altri politici offrono tutti spunti, se si potesse». Anche Sergio Mattarella?«Su Mattarella farei decine di vignette, se non fosse circondato da quell’aura di sacralità. Son tutti santi e intoccabili oggi. Ha visto cosa è successo al collega di Treviso, Beppe Fantin, che ha fatto satira sulla vicenda della scarcerazione dei boss mafiosi? È stato minacciato pure di morte. Bei tempi quando gli inquilini del Colle erano bersagliati dalla satira. Su Scalfaro feci forse centinaia di episodi. E pure su Napolitano».Quando sono cambiate le cose? «La svolta è stata la pandemia. La vignetta, da che mondo è mondo, la puoi intendere come offesa, o come riflessione. Ma oggi ci sono gli intoccabili». I personaggi che più ha amato in carriera?«Ho iniziato ai tempi di Tangentopoli. D’Alema oggi è scomparso, ma ebbe periodi da numero uno. E poi Berlusconi, ovviamente». Anche al Giornale?«Le racconto un aneddoto che mi fa ancora sorridere: un giorno mandai in via Negri una vignetta che ritraeva Berlusconi a capo della sfilata per il 2 giugno, a mo’ di generale. Lo feci non molto alto, anche perché non lo è. Mi telefonò un redattore: potresti alzarlo un po’ di statura, per favore?».Dice che chiamarono da Arcore? «Ma no, era semplicemente un atteggiamento più realista del re, una forma preventiva di difesa».Aspetti pratici: quanto ci vuole a disegnare una vignetta?«Ora sono al mio record: spesso ci metto solo mezz’ora. In 33 anni mi sono impratichito. La cosa più complessa è farsi venire l’idea». La mattina parte con la rassegna stampa?«Esatto. Poi mi dedico alle commissioni quotidiane, intanto la mente elabora. Nel pomeriggio ricomincio a rimuginare e poi alle 19-20 sono al tavolo da disegno. Entro le 21 devo inviare».Come è arrivato a fare questo mestiere?«Partì quasi per gioco, con alcuni amici dell’università: mettemmo a punto un giornaletto ciclostilato sulle nostre scoperte, artigianale, raccontava avvenimenti buffi. Fu un successo, catalogato anche dalla Biblioteca nazionale di Firenze. Poi però sono stato impiegato per 15 anni in una azienda di moda, anche perché mi sono sposato presto, a 26 anni io e lei a 22, nel 1974. L’anno dopo aspettavamo nostro figlio. Lei si è poi laureata, io no. Dovevo lavorare. Finché l’azienda non ha chiuso e ho scoperto che mi pagavano anche abbastanza bene a fare disegni per un magazine di imprenditori qui in Toscana».Nasce a Fiume, fu profugo a Firenze. Cosa ricorda di quei primi anni della sua infanzia?«Restammo in una ex caserma con altre famiglie per ben sei anni, finché i miei non poterono permettersi una casa in affitto. Babbo divenne cuoco in un hotel. Ho ricordi vividi di quel periodo. Il freddo e il caldo esagerati, le coperte di iuta a far da separatori tra le camere». Su Twitter lei si presenta scrivendo «non so chi io sia». «Sicuramente quell’esperienza mi ha segnato. Questa è una terra rossa, e ci facevano sentire come alieni. Mica come oggi, che si fa buonismo sull’accoglienza. Alle scuole medie mentivo sulle mie origini. Dicevi Fiume, e pensavano fossimo tutti fascisti, e invece mio padre era democristiano. Poi, per reazione, a 14 anni mi sono iscritto al Movimento sociale». Con convinzione?«Non troppa, a dire il vero. Ma in opposizione ai comunisti quello c’era». Ci restò per molto?«Un anno soltanto (ride, ndr): insieme a tanti amici, tra cui il professor Franco Cardini, presto ci espulsero perché ci rifiutammo di andare a manifestare contro gli austriacanti a Bolzano. Noi eravamo già per certi aspetti dei proto-leghisti, il nazionalismo già allora non ci convinceva». Ne fu dispiaciuto?«Anzi, accolsi l’espulsione come una liberazione, finalmente uscivo dalla politica attiva. Sono sempre stato un bastian contrario».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.