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2022-12-19
Il buco nero dell’Aifa
(Ansa)
Era la fine dell’ottobre 2020, all’inizio della seconda ondata Covid. In quei drammatici giorni, un’azienda farmaceutica italiana, Eli Lilly, stava offrendo all’Italia 10.000 dosi gratuite di anticorpi monoclonali. L’incontro per ratificare l’operazione si svolse il 29 ottobre nella sede di Aifa (Agenzia italiana del farmaco) in via del Tritone a Roma. Gli anticorpi monoclonali si sarebbero rivelati un farmaco salvavita. Ma Aifa disse di no. Non c’erano soldi da investire, anche se era tutto a costo zero. Ma non ci fu verso. L’Italia fu privata di una speranza, di una possibilità.
Il 9 febbraio 2021, quattro mesi dopo quel no, l’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, autorizzò a impiegare un fondo di 400 milioni di euro per acquistare farmaci a base di anticorpi monoclonali anti Covid. Gli stessi medicinali che si poteva avere gratis quattro mesi prima. Mica male no? Che cosa era cambiato nel frattempo? Che le cose non fossero state fatte a dovere qualcuno forse lo sapeva, perché il 22 dicembre 2020 Aifa smentì l’offerta di Eli Lilly. In un comunicato ufficiale si legge che «Aifa non ha mai ricevuto alcuna proposta di cessione gratuita, uso compassionevole né fornitura per studi clinici dell’anticorpo monoclonale Bamlanivimab da parte dell’azienda Eli Lilly».
Ma poche settimane dopo tutta la verità venne a galla. Quell’offerta ci fu. Le inchieste giornalistiche misero nero su bianco i fatti accaduti. Ma questo non fu l’unico tentativo di Aifa di mettere una toppa alla voragine aperta. Nel caos di quelle ore l’agenzia fece l’ennesimo passo falso. Per giustificare quel rifiuto, nello stesso comunicato è scritto: «Il Bamlanivimab sulla base dello studio di fase 2 evidenziava benefici moderati». Anche in questo caso le smentite arrivarono velocemente. E da esimi professori e scienziati di tutto il mondo. «I dati sull’efficacia degli anticorpi monoclonali sono stati ottimi sul modello animale e i primi trial clinici hanno dato risultati promettenti, con riduzione dei ricoveri ospedalieri», disse il professor Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta. Furono pubblicati molti studi che dimostravano l’efficacia di questo medicinale.
Fu un’operazione talmente inspiegabile che la Corte dei conti aprì un’inchiesta per danno erariale. Per quale motivo abbiamo rifiutato farmaci salvavita gratuiti per poi acquistarli a caro prezzo qualche mese dopo? Nessuno dei presenti a quella riunione ha mai proferito parola. E quel silenzio grida ancora oggi vendetta. Silenzio che, invece, ci sarebbe dovuto essere in altre circostanze. In particolare il 6 gennaio 2021. In quella data l’azienda italiana Reithera organizzò una conferenza stampa per presentare i primissimi dati di fase 1 del famoso vaccino italiano. Tutto normale? Sì, fino a quando non vedemmo spuntare sul palco dei relatori di quell’incontro Nicola Magrini.
Perché mai il direttore generale di Aifa avrebbe dovuto partecipare a questa conferenza stampa dove si illustravano i primi dati, assolutamente preliminari, del vaccino? La prima cosa che Magrini sottolineò fu che la sua presenza non poneva nessun conflitto d’interesse. Tutti sapevano che il suo ruolo sarebbe stato quello di un arbitro super partes chiamato a prendere una decisione dopo aver visionato i dati definitivi di uno studio e non certo i primissimi risultati di un trial clinico. In realtà, è come se un arbitro, prima che inizi la partita, si recasse in uno degli spogliatoi per commentare la formazione. Tra l’altro, Magrini non si era mai esposto su una cura, un vaccino, un medicinale senza avere in mano dati certi o almeno una pubblicazione scientifica. Quella volta sì. E il motivo resta da capire.
Il 15 novembre 2020 l’ex dg rispose che avrebbe preso una decisione su come utilizzare i vaccini in commercio solo dopo aver visto i dati. Il 22 novembre successivo rassicurò gli italiani sul vaccino di Astrazeneca perché tutte le fasi di validazione e valutazione erano state rispettate. Il 22 dicembre la sua agenzia restò cauta sugli anticorpi monoclonali e il 9 febbraio 2021 Magrini, sempre in tema monoclonali, affermò che senza una decisione dell’Agenzia europea del farmaco i pareri di Aifa, seppur positivi, non bastavano a prendere decisioni perché i dati erano preliminari e immaturi. Ma la volta in cui presentò Reithera il direttore generale, l’uomo cauto che si basava sui dati, si espose eccome parlando addirittura di «rapporti facili e snelli personali» che favorirono la nascita del vaccino italiano.
E quali sarebbero stati questi «facili e snelli rapporti personali?». Gli obblighi di trasparenza imporrebbero di fare luce. Ma nessuno rispose ai tanti punti interrogativi, a partire da Magrini. Ma le domande restano vive, una su tutte: perché colui che avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza e l’efficacia dei vaccini si espose in questo modo durante la presentazione di un semplice studio preliminare?
Un altro mattone nel grattacielo dei disastri. Il 25 maggio 2021 Aifa ricevette la richiesta di inserire un medicinale ai sensi della legge 648. Il dossier arrivava dal San Raffaele di Milano a firma di una delle équipe più importanti nel campo dell’immunologia, che chiedeva ad Aifa di inserire fra i medicinali anti Covid Anakinra, un farmaco usato per l’artrite reumatoide conosciuto da oltre 20 anni. Nella documentazione c’era scritto che Anakinra poteva ridurre la mortalità del 55%, addirittura dell’80% nei casi più gravi. Gli studi furono pubblicati su Nature, una delle riviste scientifiche più importanti. Tra i ricercatori sicuri che Anakinra potesse essere un’arma importante nella cura del Covid c’erano Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell’Agenzia europea del farmaco, Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto Mario Negri e l’immunologa Antonella Viola.
Anche quella richiesta fu rifiutata. Se quel farmaco fosse stato approvato, si sarebbero potuti trattare da maggio alla fine del 2021 24.000 pazienti salvando la vita almeno a 2.592 di questi. Come è possibile che Aifa, pur sapendo tutte queste cose, abbia rigettato quella richiesta? È l’ennesimo mistero che aleggia su Aifa nei tre anni di pandemia. Forse tutto si spiega con il fatto che l’Agenzia ha puntato tutto sui vaccini e rallentato l’iter di farmaci che potevano curare il Covid. Ignorati plasma iperimmune, monoclonali, Anakinra, antivirali. Per tre anni Aifa, Agenzia italiana del farmaco, è stata Aiva, Agenzia italiana del vaccino. È stato un errore. Oggi lo dicono tutti i maggiori virologi italiani. Questa strategia ha fatto male a tanti pazienti, togliendo loro una possibilità in più. E lo ha fatto senza una motivazione valida. Anche per questo la riforma di Aifa era un obbligo legislativo, ma anche morale.
«Burocrazia inutile. I nuovi medicinali erano già approvati dall’Agenzia Ue»
«Se fossi in lui non mi assumerei questo onere e rimarrei nel mio attuale ruolo». Il messaggio è firmato da Maria Rita Gismondo, direttore di microbiologia chimica, virologia e bio-emergenze dell’ospedale Sacco di Milano. Il destinatario è Giorgio Palù, attuale presidente di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco e uomo che adesso, dopo la riforma varata dal Parlamento, dovrà traghettare l’organo regolatorio dei farmaci verso la nuova fase dopo la riforma approvata dal Parlamento. Ma le missive della professoressa Gismondo non finiscono qui. Ce n’è un’altra per il nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci: «La sua sfida, nel prossimo futuro, sarà salvare dal collasso la sanità pubblica».
Che ne pensa di questa riforma di Aifa?
«La riforma dell’Aifa era assolutamente necessaria. Com’era concepita in precedenza, aveva tutto il profilo di un ente esclusivamente burocratico appesantito da procedure che rallentavano il processo decisivo che si deve fondare soprattutto su criteri scientifici».
È proprio questa una delle grandi accuse mosse ad Aifa durante la pandemia. Poca attenzione al valore scientifico dei farmaci e troppa burocrazia, per non dire politica, nelle decisioni importanti. Gli anticorpi monoclonali sono l’esempio più limpido. Adesso cambieranno le cose? Si dice che con questa riforma si velocizzeranno molti iter autorizzativi.
«Meno burocrazia si tradurrà, nesiamo convinti, in maggiore velocità nelle autorizzazioni. Queste, fra l’altro, non dovrebbero avere necessità di un lungo esame poiché provengono, praticamente tutte, da un’approvazione Ema, cioè l’Agenzia europea del farmaco».
Adesso, però, servono gli uomini. Vanno scelte due nuove figure come il direttore tecnico-scientifico e il direttore amministrativo, che finora non erano stati nemmeno presi in considerazione. Saprà Palù scegliere le persone giuste per riordinare l’organigramma dell’agenzia?
«Il professor Palù è un esimio scienziato e ricercatore. Credo che nella scelta dell’organico dovrebbe far tesoro anche di consigli da parte di esperti del settore. Fare scienza non significa necessariamente saper costruire un organico di questo tipo, che non può essere costituito solo da ricercatori».
Percepisco dei dubbi, o quantomeno un velo di incertezza. Secondo lei, Palù è l’uomo giusto per traghettare l’Agenzia verso questa nuova fase?
«Sinceramente non so se Palù sia l’uomo giusto per il traghettamento di Aifa verso la nuova versione. Lo conosco da decenni e l’apprezzo come scienziato. Non conosco altre sue doti e non posso esprimermi. Se fossi in lui non mi assumerei questo onere e rimarrei nel mio attuale ruolo».
Una certezza c’è. Nicola Magrini non fa più parte dell’Agenzia italiana del farmaco. È un bene che l’ex direttore generale sia stato allontanato?
«Magrini fa parte del passato, in tutti i sensi».
Un passato segnato da tante scelte che hanno fatto discutere. La tardiva approvazione dei monoclonali, l’altrettanto tardiva autorizzazione del farmaco Anakinra, il caos sul vaccino di Astrazeneca e quello sugli antivirali sono solo alcuni casi molto controversi. Quale è stato l’errore più grave di Aifa in questi ultimi tre anni?
«Il maggior errore di Aifa che io abbia notato è la gestione della terapia anti Covid».
Dunque, il bassissimo utilizzo di farmaci anti Covid può essere imputato alla gestione di Aifa verso questo campo?
«La gestione della terapia anti Covid è rimasta all’ombra del silenzio del vecchio ministero e non ha né velocizzato l’acquisizione degli antivirali e dei monoclonali, né condotto un’adeguata informazione per il loro corretto uso».
E i risultati si sono visti purtroppo. Ancora oggi abbiamo migliaia di scatole di antivirali inutilizzate e prossime alla scadenza, senza dimenticare i tanti anticorpi monoclonali che abbiamo dovuto regalare all’estero perché qui da noi non venivano usati. Adesso, cambieranno le cose?
«Ci auguriamo che Aifa cambi e migliori nel suo compito. Osserveremo che cosa succederà, insomma staremo a vedere. L’efficienza di un qualsiasi ente è data dalle persone che nefanno parte».
L’altra grande paura è che ancora una volta, come successo nella gestione appena conclusa, la politica entri a far parte delle decisioni dell’Agenzia. Crede che si corra questo rischio?
«Ci auguriamo che la politica, come spesso avviene, non sia determinante, ancora una volta, nella scelta delle competenze».
Che giudizio ha del nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci?
«Il nuovo ministro della Salute, persona autorevole, sta dimostrando, seppure a volte timidamente, di essere la svolta nella gestione pandemica. La sua sfida, nel prossimo futuro, sarà salvare dal collasso la sanità pubblica. Ci auguriamo che possa riuscirci. Anche se è triste dirlo, nella precedente gestione Covid ci sono stati diversi elementi che, probabilmente, hanno determinato insuccessi che sarebbero stati evitabili. Fra questi la famosa tachipirina e vigile attesa e, senza dubbio, il ritardo nell’autorizzazione dell’uso di monoclonali e antivirali».
Il Parlamento cancella una commissione lumaca
La riforma Aifa è legge e Nicola Magrini non ne sarà più il direttore generale. Lui, l’uomo che senza motivo si presentò a sponsorizzare in conferenza stampa un vaccino anti Covid (quello italiano di Reithera) quando avrebbe dovuto valutarne l’efficacia. Sarebbe dovuto bastare questo per riformare immediatamente l’ente. Invece sono serviti quasi altri due anni perché accadesse.
Dopo il Senato, anche la Camera ha approvato il Ddl contenente norme che modificano profondamente l’attuale organizzazione dell’Agenzia italiana del farmaco. Il discusso organo che vigila e regola il commercio dei farmaci si prepara a cambiare pelle, a partire dalla governance. La novità più importante è proprio qui. Niente più direttore generale. Il ruolo ricoperto oggi da Magrini, colui che ha tutti i poteri di gestione dell’Agenzia e ne dirige l’attività, sarà abolito.
Il presidente, carica oggi ricoperta da Giorgio Palù, diventerà rappresentate legale dell’Agenzia e passeranno in mano sua poteri e deleghe ora in capo al direttore generale.
Finalmente. I critici della riforma gridano allo scandalo: secondo loro, il riordino rischia di impantanare l’Aifa, di renderla meno autonoma e con i poteri concentrati nelle mani del presidente. Ma è difficile pensare che si possa fare peggio degli ultimi tre anni. Ritardi, mancate o ignorate richieste di approvazioni di farmaci, rifiuti inspiegabili (vedi l’offerta gratuita di 10.000 dosi di anticorpi monoclonali declinata da Aifa il 10 ottobre 2020), indecisioni di varia natura oltre a una pessima comunicazione. L’Aifa era l’unica agenzia regolatoria europea dove il presidente non aveva praticamente alcun potere decisionale. E ce ne siamo accorti, durante la pandemia. Per questo la riforma era stata più volte auspicata, impiantata e sponsorizzata dalle Regioni. Mai, però, era arrivata al traguardo, nonostante il pressing del mondo sanitario stesso. Un grosso scoglio è stata la figura stessa di Magrini, che dalla sanità emiliana era arrivato ai vertici del farmaco italiano. È servito un cambio di governo per dare la sterzata.
L’altra grande novità di questa riforma riguarda l’articolo 3, che sopprime la Commissione consultiva tecnico-scientifica (Cts) e il Comitato prezzi e rimborsi (Cpr). Le relative funzioni vengono attribuite alla nuova Commissione scientifica ed economica del farmaco (Cse), composta da 10 membri. Anche in questo caso gli oppositori della riforma storcono il naso, ma basta un dato per zittirli. Nel 2020, in piena prima ondata del coronavirus, la Commissione tecnico-scientifica si è riunita per soli 144 giorni, invece che convocare una seduta permanente, o quasi, per valutare e decidere quali e quanti farmaci usare per curare i malati di Covid. Facciamo gli scongiuri, ma semmai dovesse scoppiare un’altra pandemia bisogna augurarsi che chi decide su quali farmaci prendere si riunisca un po’ più spesso.
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Nei tre anni di pandemia l’ente ha infilato una serie di svarioni clamorosi. Era meglio chiamarla Aiva, cioè Agenzia italiana del vaccino, anziché del farmaco. Maria Rita Gismondo: «I cambiamenti erano necessari per snellire le procedure. E per evitare i gravi errori commessi fino a ora».Varata la riforma attesa da anni: via il direttore generale, più potere al presidente, un solo centro decisionale.Lo speciale contiene tre articoli.Era la fine dell’ottobre 2020, all’inizio della seconda ondata Covid. In quei drammatici giorni, un’azienda farmaceutica italiana, Eli Lilly, stava offrendo all’Italia 10.000 dosi gratuite di anticorpi monoclonali. L’incontro per ratificare l’operazione si svolse il 29 ottobre nella sede di Aifa (Agenzia italiana del farmaco) in via del Tritone a Roma. Gli anticorpi monoclonali si sarebbero rivelati un farmaco salvavita. Ma Aifa disse di no. Non c’erano soldi da investire, anche se era tutto a costo zero. Ma non ci fu verso. L’Italia fu privata di una speranza, di una possibilità. Il 9 febbraio 2021, quattro mesi dopo quel no, l’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, autorizzò a impiegare un fondo di 400 milioni di euro per acquistare farmaci a base di anticorpi monoclonali anti Covid. Gli stessi medicinali che si poteva avere gratis quattro mesi prima. Mica male no? Che cosa era cambiato nel frattempo? Che le cose non fossero state fatte a dovere qualcuno forse lo sapeva, perché il 22 dicembre 2020 Aifa smentì l’offerta di Eli Lilly. In un comunicato ufficiale si legge che «Aifa non ha mai ricevuto alcuna proposta di cessione gratuita, uso compassionevole né fornitura per studi clinici dell’anticorpo monoclonale Bamlanivimab da parte dell’azienda Eli Lilly». Ma poche settimane dopo tutta la verità venne a galla. Quell’offerta ci fu. Le inchieste giornalistiche misero nero su bianco i fatti accaduti. Ma questo non fu l’unico tentativo di Aifa di mettere una toppa alla voragine aperta. Nel caos di quelle ore l’agenzia fece l’ennesimo passo falso. Per giustificare quel rifiuto, nello stesso comunicato è scritto: «Il Bamlanivimab sulla base dello studio di fase 2 evidenziava benefici moderati». Anche in questo caso le smentite arrivarono velocemente. E da esimi professori e scienziati di tutto il mondo. «I dati sull’efficacia degli anticorpi monoclonali sono stati ottimi sul modello animale e i primi trial clinici hanno dato risultati promettenti, con riduzione dei ricoveri ospedalieri», disse il professor Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta. Furono pubblicati molti studi che dimostravano l’efficacia di questo medicinale.Fu un’operazione talmente inspiegabile che la Corte dei conti aprì un’inchiesta per danno erariale. Per quale motivo abbiamo rifiutato farmaci salvavita gratuiti per poi acquistarli a caro prezzo qualche mese dopo? Nessuno dei presenti a quella riunione ha mai proferito parola. E quel silenzio grida ancora oggi vendetta. Silenzio che, invece, ci sarebbe dovuto essere in altre circostanze. In particolare il 6 gennaio 2021. In quella data l’azienda italiana Reithera organizzò una conferenza stampa per presentare i primissimi dati di fase 1 del famoso vaccino italiano. Tutto normale? Sì, fino a quando non vedemmo spuntare sul palco dei relatori di quell’incontro Nicola Magrini.Perché mai il direttore generale di Aifa avrebbe dovuto partecipare a questa conferenza stampa dove si illustravano i primi dati, assolutamente preliminari, del vaccino? La prima cosa che Magrini sottolineò fu che la sua presenza non poneva nessun conflitto d’interesse. Tutti sapevano che il suo ruolo sarebbe stato quello di un arbitro super partes chiamato a prendere una decisione dopo aver visionato i dati definitivi di uno studio e non certo i primissimi risultati di un trial clinico. In realtà, è come se un arbitro, prima che inizi la partita, si recasse in uno degli spogliatoi per commentare la formazione. Tra l’altro, Magrini non si era mai esposto su una cura, un vaccino, un medicinale senza avere in mano dati certi o almeno una pubblicazione scientifica. Quella volta sì. E il motivo resta da capire. Il 15 novembre 2020 l’ex dg rispose che avrebbe preso una decisione su come utilizzare i vaccini in commercio solo dopo aver visto i dati. Il 22 novembre successivo rassicurò gli italiani sul vaccino di Astrazeneca perché tutte le fasi di validazione e valutazione erano state rispettate. Il 22 dicembre la sua agenzia restò cauta sugli anticorpi monoclonali e il 9 febbraio 2021 Magrini, sempre in tema monoclonali, affermò che senza una decisione dell’Agenzia europea del farmaco i pareri di Aifa, seppur positivi, non bastavano a prendere decisioni perché i dati erano preliminari e immaturi. Ma la volta in cui presentò Reithera il direttore generale, l’uomo cauto che si basava sui dati, si espose eccome parlando addirittura di «rapporti facili e snelli personali» che favorirono la nascita del vaccino italiano. E quali sarebbero stati questi «facili e snelli rapporti personali?». Gli obblighi di trasparenza imporrebbero di fare luce. Ma nessuno rispose ai tanti punti interrogativi, a partire da Magrini. Ma le domande restano vive, una su tutte: perché colui che avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza e l’efficacia dei vaccini si espose in questo modo durante la presentazione di un semplice studio preliminare?Un altro mattone nel grattacielo dei disastri. Il 25 maggio 2021 Aifa ricevette la richiesta di inserire un medicinale ai sensi della legge 648. Il dossier arrivava dal San Raffaele di Milano a firma di una delle équipe più importanti nel campo dell’immunologia, che chiedeva ad Aifa di inserire fra i medicinali anti Covid Anakinra, un farmaco usato per l’artrite reumatoide conosciuto da oltre 20 anni. Nella documentazione c’era scritto che Anakinra poteva ridurre la mortalità del 55%, addirittura dell’80% nei casi più gravi. Gli studi furono pubblicati su Nature, una delle riviste scientifiche più importanti. Tra i ricercatori sicuri che Anakinra potesse essere un’arma importante nella cura del Covid c’erano Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell’Agenzia europea del farmaco, Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto Mario Negri e l’immunologa Antonella Viola.Anche quella richiesta fu rifiutata. Se quel farmaco fosse stato approvato, si sarebbero potuti trattare da maggio alla fine del 2021 24.000 pazienti salvando la vita almeno a 2.592 di questi. Come è possibile che Aifa, pur sapendo tutte queste cose, abbia rigettato quella richiesta? È l’ennesimo mistero che aleggia su Aifa nei tre anni di pandemia. Forse tutto si spiega con il fatto che l’Agenzia ha puntato tutto sui vaccini e rallentato l’iter di farmaci che potevano curare il Covid. Ignorati plasma iperimmune, monoclonali, Anakinra, antivirali. Per tre anni Aifa, Agenzia italiana del farmaco, è stata Aiva, Agenzia italiana del vaccino. È stato un errore. Oggi lo dicono tutti i maggiori virologi italiani. Questa strategia ha fatto male a tanti pazienti, togliendo loro una possibilità in più. E lo ha fatto senza una motivazione valida. 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Il destinatario è Giorgio Palù, attuale presidente di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco e uomo che adesso, dopo la riforma varata dal Parlamento, dovrà traghettare l’organo regolatorio dei farmaci verso la nuova fase dopo la riforma approvata dal Parlamento. Ma le missive della professoressa Gismondo non finiscono qui. Ce n’è un’altra per il nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci: «La sua sfida, nel prossimo futuro, sarà salvare dal collasso la sanità pubblica». Che ne pensa di questa riforma di Aifa? «La riforma dell’Aifa era assolutamente necessaria. Com’era concepita in precedenza, aveva tutto il profilo di un ente esclusivamente burocratico appesantito da procedure che rallentavano il processo decisivo che si deve fondare soprattutto su criteri scientifici». È proprio questa una delle grandi accuse mosse ad Aifa durante la pandemia. Poca attenzione al valore scientifico dei farmaci e troppa burocrazia, per non dire politica, nelle decisioni importanti. Gli anticorpi monoclonali sono l’esempio più limpido. Adesso cambieranno le cose? Si dice che con questa riforma si velocizzeranno molti iter autorizzativi. «Meno burocrazia si tradurrà, nesiamo convinti, in maggiore velocità nelle autorizzazioni. Queste, fra l’altro, non dovrebbero avere necessità di un lungo esame poiché provengono, praticamente tutte, da un’approvazione Ema, cioè l’Agenzia europea del farmaco». Adesso, però, servono gli uomini. Vanno scelte due nuove figure come il direttore tecnico-scientifico e il direttore amministrativo, che finora non erano stati nemmeno presi in considerazione. Saprà Palù scegliere le persone giuste per riordinare l’organigramma dell’agenzia? «Il professor Palù è un esimio scienziato e ricercatore. Credo che nella scelta dell’organico dovrebbe far tesoro anche di consigli da parte di esperti del settore. Fare scienza non significa necessariamente saper costruire un organico di questo tipo, che non può essere costituito solo da ricercatori». Percepisco dei dubbi, o quantomeno un velo di incertezza. Secondo lei, Palù è l’uomo giusto per traghettare l’Agenzia verso questa nuova fase? «Sinceramente non so se Palù sia l’uomo giusto per il traghettamento di Aifa verso la nuova versione. Lo conosco da decenni e l’apprezzo come scienziato. Non conosco altre sue doti e non posso esprimermi. Se fossi in lui non mi assumerei questo onere e rimarrei nel mio attuale ruolo». Una certezza c’è. Nicola Magrini non fa più parte dell’Agenzia italiana del farmaco. È un bene che l’ex direttore generale sia stato allontanato? «Magrini fa parte del passato, in tutti i sensi». Un passato segnato da tante scelte che hanno fatto discutere. La tardiva approvazione dei monoclonali, l’altrettanto tardiva autorizzazione del farmaco Anakinra, il caos sul vaccino di Astrazeneca e quello sugli antivirali sono solo alcuni casi molto controversi. Quale è stato l’errore più grave di Aifa in questi ultimi tre anni? «Il maggior errore di Aifa che io abbia notato è la gestione della terapia anti Covid». Dunque, il bassissimo utilizzo di farmaci anti Covid può essere imputato alla gestione di Aifa verso questo campo? «La gestione della terapia anti Covid è rimasta all’ombra del silenzio del vecchio ministero e non ha né velocizzato l’acquisizione degli antivirali e dei monoclonali, né condotto un’adeguata informazione per il loro corretto uso». E i risultati si sono visti purtroppo. Ancora oggi abbiamo migliaia di scatole di antivirali inutilizzate e prossime alla scadenza, senza dimenticare i tanti anticorpi monoclonali che abbiamo dovuto regalare all’estero perché qui da noi non venivano usati. Adesso, cambieranno le cose? «Ci auguriamo che Aifa cambi e migliori nel suo compito. Osserveremo che cosa succederà, insomma staremo a vedere. L’efficienza di un qualsiasi ente è data dalle persone che nefanno parte». L’altra grande paura è che ancora una volta, come successo nella gestione appena conclusa, la politica entri a far parte delle decisioni dell’Agenzia. Crede che si corra questo rischio? «Ci auguriamo che la politica, come spesso avviene, non sia determinante, ancora una volta, nella scelta delle competenze». Che giudizio ha del nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci? «Il nuovo ministro della Salute, persona autorevole, sta dimostrando, seppure a volte timidamente, di essere la svolta nella gestione pandemica. La sua sfida, nel prossimo futuro, sarà salvare dal collasso la sanità pubblica. Ci auguriamo che possa riuscirci. Anche se è triste dirlo, nella precedente gestione Covid ci sono stati diversi elementi che, probabilmente, hanno determinato insuccessi che sarebbero stati evitabili. Fra questi la famosa tachipirina e vigile attesa e, senza dubbio, il ritardo nell’autorizzazione dell’uso di monoclonali e antivirali». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aifa-errori-riforma-2658980638.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-parlamento-cancella-una-commissione-lumaca" data-post-id="2658980638" data-published-at="1671400854" data-use-pagination="False"> Il Parlamento cancella una commissione lumaca La riforma Aifa è legge e Nicola Magrini non ne sarà più il direttore generale. Lui, l’uomo che senza motivo si presentò a sponsorizzare in conferenza stampa un vaccino anti Covid (quello italiano di Reithera) quando avrebbe dovuto valutarne l’efficacia. Sarebbe dovuto bastare questo per riformare immediatamente l’ente. Invece sono serviti quasi altri due anni perché accadesse. Dopo il Senato, anche la Camera ha approvato il Ddl contenente norme che modificano profondamente l’attuale organizzazione dell’Agenzia italiana del farmaco. Il discusso organo che vigila e regola il commercio dei farmaci si prepara a cambiare pelle, a partire dalla governance. La novità più importante è proprio qui. Niente più direttore generale. Il ruolo ricoperto oggi da Magrini, colui che ha tutti i poteri di gestione dell’Agenzia e ne dirige l’attività, sarà abolito. Il presidente, carica oggi ricoperta da Giorgio Palù, diventerà rappresentate legale dell’Agenzia e passeranno in mano sua poteri e deleghe ora in capo al direttore generale. Finalmente. I critici della riforma gridano allo scandalo: secondo loro, il riordino rischia di impantanare l’Aifa, di renderla meno autonoma e con i poteri concentrati nelle mani del presidente. Ma è difficile pensare che si possa fare peggio degli ultimi tre anni. Ritardi, mancate o ignorate richieste di approvazioni di farmaci, rifiuti inspiegabili (vedi l’offerta gratuita di 10.000 dosi di anticorpi monoclonali declinata da Aifa il 10 ottobre 2020), indecisioni di varia natura oltre a una pessima comunicazione. L’Aifa era l’unica agenzia regolatoria europea dove il presidente non aveva praticamente alcun potere decisionale. E ce ne siamo accorti, durante la pandemia. Per questo la riforma era stata più volte auspicata, impiantata e sponsorizzata dalle Regioni. Mai, però, era arrivata al traguardo, nonostante il pressing del mondo sanitario stesso. Un grosso scoglio è stata la figura stessa di Magrini, che dalla sanità emiliana era arrivato ai vertici del farmaco italiano. È servito un cambio di governo per dare la sterzata. L’altra grande novità di questa riforma riguarda l’articolo 3, che sopprime la Commissione consultiva tecnico-scientifica (Cts) e il Comitato prezzi e rimborsi (Cpr). Le relative funzioni vengono attribuite alla nuova Commissione scientifica ed economica del farmaco (Cse), composta da 10 membri. Anche in questo caso gli oppositori della riforma storcono il naso, ma basta un dato per zittirli. Nel 2020, in piena prima ondata del coronavirus, la Commissione tecnico-scientifica si è riunita per soli 144 giorni, invece che convocare una seduta permanente, o quasi, per valutare e decidere quali e quanti farmaci usare per curare i malati di Covid. Facciamo gli scongiuri, ma semmai dovesse scoppiare un’altra pandemia bisogna augurarsi che chi decide su quali farmaci prendere si riunisca un po’ più spesso.
(IStock)
Senza il pandoro, così come senza il panettone, non sarebbe Natale. È però un fatto che il pandoro è considerato un di più, un elemento dolce ancillare del panettone. Se il pandoro può mancare sulla tavola natalizia, non lo può il panettone. In realtà questa subordinazione del pandoro al panettone è abbastanza ingiusta. Il pandoro non è un dolce meno saporito del panettone, da un punto di vista tecnico non è meno complesso e dal punto di vista gustativo come il panettone soddisfa il bisogno di abbondanza, così il pandoro soddisfa quello di leggerezza, offrendo al gusto un sapore univoco non complicato da sospensioni come sono le uvette e i canditi nel panettone tradizionale e tutte quelle che passano per la mente del creatore nel panettone di ricerca. E leggera è anche la consistenza, che ricorda più una torta, un pan di Spagna o una torta paradiso, più che un pane addolcito e (assai) lievitato come invece fa il panettone. Questa nettezza di gusto lo rende aperto ad abbinamenti estemporanei: tipico di bambini e golosi è il sandwich di pandoro che si realizza con due fette di pandoro e un ripieno dolce che può andare dalla tavoletta di cioccolato al torrone.
La storia anzi la probabile storia del pandoro ci porta indietro fino agli antichi Romani. Plinio il Vecchio, infatti, raccontando le abitudini culinarie dell’antica Roma parla di un panis preparato abitualmente con fior di farina, burro e olio da Virgilius Stephanus Senex. Marco Gavio Apicio parla di un pane da liberare della crosta e poi imbibire di latte, friggere e cospargere di miele, perciò dorato. Da questi esempi di panis dorato antico-romano secondo molti deriva il levà veronese, anch’esso un pane dolce, di occasione festiva, ma più dolce del suo avo, con tanto di copertura di glassa con mandorle. Pare che nella corte veneziana il levà, come altri dolci locali, fosse ricoperto di sottilissime foglie d’oro zecchino e perciò fosse chiamato pane de oro. Dal levà deriverebbe il nadalin, nome veneto del dolce natalino ossia di Natale che si chiamerebbe così proprio perché sarebbe nato a Natale del XIII secolo per festeggiare l’investitura dei Della Scala a Signori di Verona. Il nadalin presenta un impasto morbido, una cupola decorativa di crosticina e frutta secca e una forma a stella di otto punte. Dal 2012 è anche un prodotto De.Co. del Comune di Verona, con tanto di ricette ufficiali per le due versioni, quella con lievito di birra oppure quella con lievito madre.
Questi i presunti prototipi - finora - del pandoro. Zoomiamo, quindi, sul pandoro. Del pandoro come lo conosciamo oggi abbiamo una data ufficiale di nascita. È il 14 ottobre 1894, il giorno in cui il pasticcere Domenico Melegatti brevetta la ricetta e il nome del suo dolce, Pandoro, ottenendo poi l’attestato di privativa industriale del ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia qualche tempo dopo: il 20 marzo 1895 il ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, infatti, rilascia l’«attestato di privativa industriale della durata di anni tre per un brevetto designato col titolo Pandoro (dolce speciale)». La nascita del Pandoro con tanto di data presenta anche una… annunciazione! E già, in perfetto calco del paradigma religioso natalizio di nascita precedentemente annunciata. Sul quotidiano veronese L’Arena del 21 e 22 marzo 1894 (sei mesi prima del brevetto) compare l’avviso pubblicitario di annuncio del prodotto: «Il Pasticcere Melegatti… avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo Pan d’oro». Nel depositare il brevetto il nome perde la sua composizione triplice e diventa un tutt’uno, quel «Pandoro» che, come succede alle grande invenzioni, per antonomasia, da nome proprio poi diventerà nome generico. Oggi pandoro è un marchionimo (così si chiamano i nomi originati da marchi) ovvero un tipo di dolce che tutti i pasticceri artigianali e industriali realizzano, non solo Melegatti e non solo i pasticceri di professione, essendo tanti i cucinieri casalinghi che si dilettano a impastare e cucinare pandori e panettoni in casa per le feste natalizie. Il Pandoro di Melegatti è un dolce ispirato alla morbidezza del levà, grazie ad un impasto diverso e allo stampo di cottura, ideato sempre da Domenico Melegatti, spiega il sito Internet dell’azienda, con forma di stella troncoconica a otto punte, brevettato anch’esso. La forma a stella del pandoro ricorda certamente quella del nadalin, rispetto al quale però è assai più alto e privo di qualsiasi topping. Secondo lo studioso Andrea Brugnoli il pandoro potrebbe però trovare altre fonti, ovvero il pane di Natale del monastero di San Giuseppe a Fidenzio: nei registri dell’economato del ministero il 21 dicembre 1790 si acquistano 500 uova, tantissimo burro e tantissimo altro zucchero. Altra fonte di ispirazione per Brugnoli sarebbe il Pan d’Oro che nel 1871 Cesare Capri di Verona porta ad un’esposizione pasticcera regionale presentandolo come «panettone di pasta dolce». Non si sa e in fondo non è nemmeno così interessante saperlo, essendo il pandoro talmente perfetto da interessarci dalla sua nascita ufficiale in poi. Tornando alla questione linguistica, perché il nome pandoro passi da proprio a generico bisogna attendere il 1927. In quell’anno, entra nella quinta edizione dell’importantissimo - per la costruzione della lingua italiana - Dizionario moderno di Alfredo Panzini. La voce «pandoro» nel dizionario recita: «Dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».
Voi siete team pandoro, team panettone o team entrambi? In tutti i casi vi, anzi ci, sarà utile una breve disamina nutrizionale del pandoro, per capire cosa mangeremo quando lo mangeremo alla tavola natalizia. Non si può certamente sostenere che il pandoro sia dietetico. Si tratta al contrario di un dolce generoso di zuccheri e grassi saturi, che sono i macronutrienti tipici delle festività, ma anche quelli che dobbiamo tenere a bada. Generoso, conseguentemente, di calorie: 100 g ne hanno tra 390 e 435. Considerato che da un pandoro di 1 kg traiamo 8 fette (sono le 8 punte) si capisce come ogni fetta pesi 125 grammi. Se ragioniamo sui 100 g, abbiamo tra i 49 e i 53 g di carboidrati di cui tra 22 e 26,5 di zuccheri. Considerato che il pandoro si mangia alla fine di un pasto in cui i primi piatti sono sontuosi e abbondanti anch’essi e che questo pasto festivo e festoso si ripete (il cenone della Vigilia, il Pranzo del Natale, il Pranzo di Santo Stefano, minimo) si capisce come introiettare ulteriori 400 calorie circa composte per lo più di carboidrati e tra questi di zuccheri sia un elemento da tenere attenzionato, cercando dunque di non mangiare troppo nel resto delle giornate festive. I carboidrati sono solo l’inizio. Abbiamo tra 20 e 21 grammi di grassi, di cui tra 10 e 13 sono saturi e sono dovuti all’abbondanza di tuorlo d’uovo e burro. Infine abbiamo tra 7 e 8 grammi di proteine che sì, abbassano lievemente l’indice glicemico del dolce e si affiancano anche all’indice lipidico, tuttavia - com’è ovvio - non li annulla. In definitiva, chi è a dieta e chi deve limitare fortemente i grassi saturi, magari perché ipercolesterolemico, ipertrigliceridico o afflitto da altra patologia del metabolismo dei grassi e in generale del metabolismo dovrebbe mangiare giusto un pezzetto, forse evitare il pandoro. Non ne deve abusare nemmeno chi ha una forma e una salute perfette, perché - ricordiamoci - un eccesso di grassi saturi fa ingrassare e aumenta il rischio cardiovascolare, oltre a sovraffaticare l’apparato digestivo. Nel caso si voglia o si desideri un consumo più virtuoso, il consiglio è quello di optare o per il panettone o per il pandoro e non mangiare entrambi alla fine dello stesso pasto, per il dispiacere del team che definiremo «entrambi e pure uno insieme all’altro». Altri consigli: mangiare mezza fetta di pandoro anziché una fetta intera, stare molto leggeri per quanto riguarda grassi e zuccheri al pasto successivo o precedente, fare una bella passeggiata dopo il pranzo della festa. Il consiglio più strong di tutti è quello di non mangiare proprio il pandoro, ma come si fa? Quello semi strong è di non mangiarlo a fine pasto, ma a merenda (con un tè o un caffè rigorosamente senza zucchero) o a colazione. Tuttavia noi preferiamo pensare che mangiare il pandoro a fine pasto vuol dire anche seguire una tradizione e quindi vi riproponiamo il «trucchetto» di mangiarne, magari, mezza fetta.
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La decisione del tribunale di La Spezia che consente a una minorenne di assumere un nome maschile è contestabile. E quando si parla di transizioni chirurgiche bisogna sapere che le difficoltà sono tantissime.
Il tributo alle vittime della strage di Bondi beach a Sydney (Ansa)
Era evidente che l’antisemitismo da un momento all’altro sarebbe esploso con morti ammazzati. Nessuno si faccia illusioni: è solo l’inizio. Sono colpevoli i giornali che hanno riportato slogan genocidi, i politici e i cardinali che ripetono le menzogne di Hamas, i media che, grazie anche al fiume di denaro che da decenni arriva dal mondo islamico, hanno demonizzato lo Stato di Israele, i governanti che hanno permesso che la bandiera delle belve di Hamas sventolasse addirittura su palazzi di sedi istituzionali, tutti coloro che l’hanno appesa o messa sui social. Chiunque gridi slogan come «globalizzare l’intifada», sta invocando più morti ammazzati.
Ancora più sconvolgente dell’attentato antisemita in Australia sono i commenti sui social ai post che danno la notizia.
L’antisemitismo si è rifugiato nelle fogne nel 1945, il nazismo gli aveva tolto ogni dignità, e nelle fogne è rimasto fino al 1975. Fino a quella data sapevamo che Israele era dalla parte della ragione, che la sua nascita non solo era legittima, ma era un raggio di giustizia nella storia. Se guardiamo una carta geografica, dal Marocco all’Indonesia è tutto islam. Ovunque sono state annientate le civiltà precedenti, al punto tale che non ce ne ricordiamo, per cui non lo riconosciamo nemmeno per quello che è: dannato colonialismo genocidiario.
Nel 1453 cade Costantinopoli, quella che noi chiamiamo Turchia era il cristiano Impero romano d’Oriente. L’Afghanistan era una culla del buddismo. Siria e Nord Africa erano culle del cristianesimo, civilissime e verdi. L’islam distrugge tutte le civiltà precedenti. Il Bangladesh, una delle culle dell’induismo, è stato reso privo di induisti nel 1971, grazie a violenze spaventose seguite dalla più grande pulizia etnica di tutta la storia dell’umanità, 10 milioni di profughi induisti hanno lasciato la terra dei loro padri. Gli induisti sono stati convinti ad andarsene con sistemi energici e creativi: donne stuprate, bambini col cranio fracassato, uomini, ragazzi e bambini costretti a calarsi le brache e, nel caso non fossero circoncisi, castrati.
Poi il popolo di Israele ritorna alla terra di suoi padri. Si tratta di un fazzoletto di terra, senza una goccia di petrolio, ma è considerato un’onta imperdonabile. Quello di Israele è l’unico popolo tra quelli occupati dall’islam che sia riuscito a riconquistare la terra dei suoi padri interamente occupata. In mano all’islam era una terra di sassi e scorpioni, quando diventa Israele diventa un giardino. Nel 1975 la narrazione cambia. Israele ha incredibilmente vinto la guerra del ’48 e quella dei 6 giorni. Riesce a vincere dopo alcune sconfitte iniziali la guerra del Kippur. L’islam perde la speranza di una vittoria militare seguita dalla distruzione di Israele, e la strategia diventa mediatica.
Attraverso la corruzione di burocrati europei e dell’Onu, testate giornalistiche, campus statunitensi, università europee e poi ogni tipo di scuola, con la complicità del Partito comunista sovietico e di tutti i suoi fratellini nel mondo occidentale, grazie a fiumi di petrodollari, Israele è stato sempre più demonizzato mentre il vittimismo palestinese è diventato una nuova religione. Questo ha portato inevitabilmente alla beatificazione anche del terrorismo contro i cristiani, contro di noi. Sacerdoti e vescovi apprezzano gli imam più violenti, ignorano i martiri cristiani della Nigeria, decine e decine di migliaia di morti, rapimenti, stupri, mutilati e feriti, chiese distrutte, scuole vandalizzate, ma ignorano anche le violenze dei palestinesi contro i cristiani. A Betlemme i cristiani erano l’80% della popolazione prima di finire sotto l’amministrazione palestinese. Ora sono il 20%. La diminuzione è ottenuta mediante una serie di angherie che finiscono per suggerire l’idea di un trasferimento altrove, in termini tecnici si chiama pulizia etnica, e mediante il rapimento di ragazzine preadolescenti, prelevate all’uscita dalla scuola, e costrette a sposare un islamico, in termine tecnico si chiama stupro etnico. L’unico Stato in Medio Oriente dove il numero di cristiani aumenta costantemente è Israele, in tutti gli altri sta drammaticamente diminuendo.
Il vittimismo palestinese è elemento fondamentale, insieme alla denatalità, per la islamizzazione dell’Europa. L’antisemitismo, manifesto dal 1975, è esploso il 7 ottobre del 2023. Le cause dell’antisemitismo sono molteplici. La più apparentemente banale è la coscienza della superiorità culturale ebraica. I numeri sono impietosi. Gli ebrei sono lo 0,2% della popolazione mondiale. Il 20% dei premi Nobel sono stati attribuiti ad ebrei. Se guardiamo solo i premi Nobel per la fisica, la statistica sale al 35%. Il 50% dei campioni di scacchi è costituito da ebrei. Tra le motivazioni di questo successo c’è una potente identità etnica, il popolo eletto, coloro che parlavano con Dio e ne hanno avuto 10 comandamenti.
Fondamentale è il maggior quantitativo di studi, tenendo presente che ogni cosa che studiamo aumenta le sinapsi che abbiamo nel cervello. La stragrande maggioranza degli ebrei conosce almeno due lingue, l’ebraico, linguisticamente complesso che si scrive da destra a sinistra, e poi la lingua gentile del popolo ospitante o comunque l’inglese. Questa ricchezza linguistica si raggiunge attraverso lo studio e quindi aumenta le sinapsi. La religione ebraica è studio. La innegabile superiorità culturale ebraica genera due sentimenti negativi, l’invidia, una delle emozioni più potentemente distruttive, e il terrore del complotto, e qui arriviamo a un’altra causa di antisemitismo.
Sono più in gamba di noi in molti campi dello scibile umano, conoscono una lingua strana con cui possono comunicare tra di loro, ergo fanno continuamente complotti a nostro danno. In questa teoria gli ebrei sono descritti come assolutamente geniali da un lato e contemporaneamente i più idioti del reame: con tutta la loro incredibile potenza, tutto quello che ottengono è di essere costantemente odiati, di subire persecuzioni come nessun altro, non poter girare per la strada con una kippà o una stella di Davide, avere uno Staterello di 19.000 chilometri quadrati senza una goccia di petrolio che tutti vogliono distruggere.
C’è un antisemitismo cristiano che ha nutrito secoli di pogrom. Molti cristiani ritengono che Gesù Cristo sia stato ucciso dagli ebrei, che sia morto per volontà del Sinedrio. Gesù Cristo è andato alla morte per prendere su di sé i nostri peccati per volontà di Dio. Il popolo eletto ha avuto il compito di custodire la sua nascita e quello di custodire la sua morte. Quello che molti rimproverano agli ebrei è il loro non convertirsi al cristianesimo. In un certo senso questo loro rifiuto è «un continuo uccidere Cristo». Noi cristiani abbiamo avuto il compito da Cristo e da San Paolo di amare gli ebrei e convertirli. Con lunghi atroci secoli di persecuzioni e di odio abbiamo reso impossibile una conversione che in realtà è ovvia.
Ora il vaso di Pandora è scoperchiato. Giustificando, anzi amando, il terrorismo palestinese abbiamo sdoganato quello contro di noi. Anche gli assassinati del Bataclan avevano «rubato la terra ai palestinesi»? Per evitarci la tentazione dell’islamofobia ci è stato celato che a molte vittime del Bataclan sono stati cavati gli occhi e tagliati i genitali, come non ci hanno raccontato le sevizie durate ore con cui sono stati massacrati i nove italiani della strage di Dacca, luglio 2016. C’era anche una donna incinta. Ci hanno nascosto che cosa le hanno fatto perché altrimenti ci viene l’islamofobia.
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Le tecnologie nucleari rappresentano un pilastro fondamentale per affiancare le fonti rinnovabili, garantendo energia continua anche quando sole e vento non sono disponibili. Oltre a fornire elettricità affidabile, il nucleare contribuisce alla sicurezza del sistema elettrico e all’indipendenza energetica nazionale, elementi essenziali per sostenere la transizione energetica.
Negli ultimi anni, i reattori modulari di nuova generazione (SMR/AMR) hanno ridefinito l’equilibrio tra costi e benefici della produzione nucleare. Pur richiedendo investimenti iniziali significativi, questi impianti offrono vantaggi strutturali che li rendono sempre più sostenibili e competitivi nel lungo periodo. I capitali richiesti sono infatti sensibilmente inferiori rispetto ai grandi impianti tradizionali: si stimano 2-3 miliardi di euro per un reattore da 300 MWe contro i 12 e i 15 miliardi di euro per produrre 1.000 megawatt di potenza (1 GWe).
La standardizzazio dei moduli e l’assemblaggio in fabbrica garantiscono efficienza industriale, riducendo tempi, costi e complessità progettuale. Inoltre, con una vita operativa prevista di oltre 60 anni e un costo globale di produzione prevedibile, il nucleare modulare assicura energia affidabile a costi stabili, riducendo l’esposizione alla volatilità dei mercati energetici.
Il nucleare è già una realtà consolidata: nell’Unione europea sono operativi circa 100 reattori, con oltre 12 Paesi che stanno rilanciando questa tecnologia. Anche in Italia, l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030) al 2024 prevede uno scenario con una potenza nucleare installata tra gli 8 e i 16 GW al 2050, pari a circa l’11-22% del fabbisogno nazionale.
A supporto dello sviluppo della filiera nazionale, è nata Nuclitalia società costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo che si occuperà dello studio di tecnologie avanzate e dell’analisi delle opportunità di mercato nel settore del nuovo nucleare. Il suo obiettivo è valutare le tecnologie più promettenti, costruire una filiera innovativa e sostenibile e sviluppare partnership industriali e di co-design, valorizzando le competenze delle industrie italiane. Inoltre, Nuclitalia monitora e partecipa attivamente ai programmi internazionali di R&D sulle tecnologie di IV generazione, per garantire un approccio integrato e avanzato al nucleare del futuro.
In sintesi, il nucleare modulare offre all’Italia la possibilità di affiancare le rinnovabili con energia stabile e programmabile, favorendo sicurezza energetica e sviluppo industriale. Con SMR e AMR, il Paese può costruire una filiera nazionale competitiva e sicura, contribuendo in modo concreto alla transizione energetica e all’indipendenza energetica.
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