- Nei tre anni di pandemia l’ente ha infilato una serie di svarioni clamorosi. Era meglio chiamarla Aiva, cioè Agenzia italiana del vaccino, anziché del farmaco.
- Maria Rita Gismondo: «I cambiamenti erano necessari per snellire le procedure. E per evitare i gravi errori commessi fino a ora».
- Varata la riforma attesa da anni: via il direttore generale, più potere al presidente, un solo centro decisionale.
Lo speciale contiene tre articoli.
Era la fine dell’ottobre 2020, all’inizio della seconda ondata Covid. In quei drammatici giorni, un’azienda farmaceutica italiana, Eli Lilly, stava offrendo all’Italia 10.000 dosi gratuite di anticorpi monoclonali. L’incontro per ratificare l’operazione si svolse il 29 ottobre nella sede di Aifa (Agenzia italiana del farmaco) in via del Tritone a Roma. Gli anticorpi monoclonali si sarebbero rivelati un farmaco salvavita. Ma Aifa disse di no. Non c’erano soldi da investire, anche se era tutto a costo zero. Ma non ci fu verso. L’Italia fu privata di una speranza, di una possibilità.
Il 9 febbraio 2021, quattro mesi dopo quel no, l’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, autorizzò a impiegare un fondo di 400 milioni di euro per acquistare farmaci a base di anticorpi monoclonali anti Covid. Gli stessi medicinali che si poteva avere gratis quattro mesi prima. Mica male no? Che cosa era cambiato nel frattempo? Che le cose non fossero state fatte a dovere qualcuno forse lo sapeva, perché il 22 dicembre 2020 Aifa smentì l’offerta di Eli Lilly. In un comunicato ufficiale si legge che «Aifa non ha mai ricevuto alcuna proposta di cessione gratuita, uso compassionevole né fornitura per studi clinici dell’anticorpo monoclonale Bamlanivimab da parte dell’azienda Eli Lilly».
Ma poche settimane dopo tutta la verità venne a galla. Quell’offerta ci fu. Le inchieste giornalistiche misero nero su bianco i fatti accaduti. Ma questo non fu l’unico tentativo di Aifa di mettere una toppa alla voragine aperta. Nel caos di quelle ore l’agenzia fece l’ennesimo passo falso. Per giustificare quel rifiuto, nello stesso comunicato è scritto: «Il Bamlanivimab sulla base dello studio di fase 2 evidenziava benefici moderati». Anche in questo caso le smentite arrivarono velocemente. E da esimi professori e scienziati di tutto il mondo. «I dati sull’efficacia degli anticorpi monoclonali sono stati ottimi sul modello animale e i primi trial clinici hanno dato risultati promettenti, con riduzione dei ricoveri ospedalieri», disse il professor Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta. Furono pubblicati molti studi che dimostravano l’efficacia di questo medicinale.
Fu un’operazione talmente inspiegabile che la Corte dei conti aprì un’inchiesta per danno erariale. Per quale motivo abbiamo rifiutato farmaci salvavita gratuiti per poi acquistarli a caro prezzo qualche mese dopo? Nessuno dei presenti a quella riunione ha mai proferito parola. E quel silenzio grida ancora oggi vendetta. Silenzio che, invece, ci sarebbe dovuto essere in altre circostanze. In particolare il 6 gennaio 2021. In quella data l’azienda italiana Reithera organizzò una conferenza stampa per presentare i primissimi dati di fase 1 del famoso vaccino italiano. Tutto normale? Sì, fino a quando non vedemmo spuntare sul palco dei relatori di quell’incontro Nicola Magrini.
Perché mai il direttore generale di Aifa avrebbe dovuto partecipare a questa conferenza stampa dove si illustravano i primi dati, assolutamente preliminari, del vaccino? La prima cosa che Magrini sottolineò fu che la sua presenza non poneva nessun conflitto d’interesse. Tutti sapevano che il suo ruolo sarebbe stato quello di un arbitro super partes chiamato a prendere una decisione dopo aver visionato i dati definitivi di uno studio e non certo i primissimi risultati di un trial clinico. In realtà, è come se un arbitro, prima che inizi la partita, si recasse in uno degli spogliatoi per commentare la formazione. Tra l’altro, Magrini non si era mai esposto su una cura, un vaccino, un medicinale senza avere in mano dati certi o almeno una pubblicazione scientifica. Quella volta sì. E il motivo resta da capire.
Il 15 novembre 2020 l’ex dg rispose che avrebbe preso una decisione su come utilizzare i vaccini in commercio solo dopo aver visto i dati. Il 22 novembre successivo rassicurò gli italiani sul vaccino di Astrazeneca perché tutte le fasi di validazione e valutazione erano state rispettate. Il 22 dicembre la sua agenzia restò cauta sugli anticorpi monoclonali e il 9 febbraio 2021 Magrini, sempre in tema monoclonali, affermò che senza una decisione dell’Agenzia europea del farmaco i pareri di Aifa, seppur positivi, non bastavano a prendere decisioni perché i dati erano preliminari e immaturi. Ma la volta in cui presentò Reithera il direttore generale, l’uomo cauto che si basava sui dati, si espose eccome parlando addirittura di «rapporti facili e snelli personali» che favorirono la nascita del vaccino italiano.
E quali sarebbero stati questi «facili e snelli rapporti personali?». Gli obblighi di trasparenza imporrebbero di fare luce. Ma nessuno rispose ai tanti punti interrogativi, a partire da Magrini. Ma le domande restano vive, una su tutte: perché colui che avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza e l’efficacia dei vaccini si espose in questo modo durante la presentazione di un semplice studio preliminare?
Un altro mattone nel grattacielo dei disastri. Il 25 maggio 2021 Aifa ricevette la richiesta di inserire un medicinale ai sensi della legge 648. Il dossier arrivava dal San Raffaele di Milano a firma di una delle équipe più importanti nel campo dell’immunologia, che chiedeva ad Aifa di inserire fra i medicinali anti Covid Anakinra, un farmaco usato per l’artrite reumatoide conosciuto da oltre 20 anni. Nella documentazione c’era scritto che Anakinra poteva ridurre la mortalità del 55%, addirittura dell’80% nei casi più gravi. Gli studi furono pubblicati su Nature, una delle riviste scientifiche più importanti. Tra i ricercatori sicuri che Anakinra potesse essere un’arma importante nella cura del Covid c’erano Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell’Agenzia europea del farmaco, Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto Mario Negri e l’immunologa Antonella Viola.
Anche quella richiesta fu rifiutata. Se quel farmaco fosse stato approvato, si sarebbero potuti trattare da maggio alla fine del 2021 24.000 pazienti salvando la vita almeno a 2.592 di questi. Come è possibile che Aifa, pur sapendo tutte queste cose, abbia rigettato quella richiesta? È l’ennesimo mistero che aleggia su Aifa nei tre anni di pandemia. Forse tutto si spiega con il fatto che l’Agenzia ha puntato tutto sui vaccini e rallentato l’iter di farmaci che potevano curare il Covid. Ignorati plasma iperimmune, monoclonali, Anakinra, antivirali. Per tre anni Aifa, Agenzia italiana del farmaco, è stata Aiva, Agenzia italiana del vaccino. È stato un errore. Oggi lo dicono tutti i maggiori virologi italiani. Questa strategia ha fatto male a tanti pazienti, togliendo loro una possibilità in più. E lo ha fatto senza una motivazione valida. Anche per questo la riforma di Aifa era un obbligo legislativo, ma anche morale.
«Burocrazia inutile. I nuovi medicinali erano già approvati dall’Agenzia Ue»
«Se fossi in lui non mi assumerei questo onere e rimarrei nel mio attuale ruolo». Il messaggio è firmato da Maria Rita Gismondo, direttore di microbiologia chimica, virologia e bio-emergenze dell’ospedale Sacco di Milano. Il destinatario è Giorgio Palù, attuale presidente di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco e uomo che adesso, dopo la riforma varata dal Parlamento, dovrà traghettare l’organo regolatorio dei farmaci verso la nuova fase dopo la riforma approvata dal Parlamento. Ma le missive della professoressa Gismondo non finiscono qui. Ce n’è un’altra per il nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci: «La sua sfida, nel prossimo futuro, sarà salvare dal collasso la sanità pubblica».
Che ne pensa di questa riforma di Aifa?
«La riforma dell’Aifa era assolutamente necessaria. Com’era concepita in precedenza, aveva tutto il profilo di un ente esclusivamente burocratico appesantito da procedure che rallentavano il processo decisivo che si deve fondare soprattutto su criteri scientifici».
È proprio questa una delle grandi accuse mosse ad Aifa durante la pandemia. Poca attenzione al valore scientifico dei farmaci e troppa burocrazia, per non dire politica, nelle decisioni importanti. Gli anticorpi monoclonali sono l’esempio più limpido. Adesso cambieranno le cose? Si dice che con questa riforma si velocizzeranno molti iter autorizzativi.
«Meno burocrazia si tradurrà, nesiamo convinti, in maggiore velocità nelle autorizzazioni. Queste, fra l’altro, non dovrebbero avere necessità di un lungo esame poiché provengono, praticamente tutte, da un’approvazione Ema, cioè l’Agenzia europea del farmaco».
Adesso, però, servono gli uomini. Vanno scelte due nuove figure come il direttore tecnico-scientifico e il direttore amministrativo, che finora non erano stati nemmeno presi in considerazione. Saprà Palù scegliere le persone giuste per riordinare l’organigramma dell’agenzia?
«Il professor Palù è un esimio scienziato e ricercatore. Credo che nella scelta dell’organico dovrebbe far tesoro anche di consigli da parte di esperti del settore. Fare scienza non significa necessariamente saper costruire un organico di questo tipo, che non può essere costituito solo da ricercatori».
Percepisco dei dubbi, o quantomeno un velo di incertezza. Secondo lei, Palù è l’uomo giusto per traghettare l’Agenzia verso questa nuova fase?
«Sinceramente non so se Palù sia l’uomo giusto per il traghettamento di Aifa verso la nuova versione. Lo conosco da decenni e l’apprezzo come scienziato. Non conosco altre sue doti e non posso esprimermi. Se fossi in lui non mi assumerei questo onere e rimarrei nel mio attuale ruolo».
Una certezza c’è. Nicola Magrini non fa più parte dell’Agenzia italiana del farmaco. È un bene che l’ex direttore generale sia stato allontanato?
«Magrini fa parte del passato, in tutti i sensi».
Un passato segnato da tante scelte che hanno fatto discutere. La tardiva approvazione dei monoclonali, l’altrettanto tardiva autorizzazione del farmaco Anakinra, il caos sul vaccino di Astrazeneca e quello sugli antivirali sono solo alcuni casi molto controversi. Quale è stato l’errore più grave di Aifa in questi ultimi tre anni?
«Il maggior errore di Aifa che io abbia notato è la gestione della terapia anti Covid».
Dunque, il bassissimo utilizzo di farmaci anti Covid può essere imputato alla gestione di Aifa verso questo campo?
«La gestione della terapia anti Covid è rimasta all’ombra del silenzio del vecchio ministero e non ha né velocizzato l’acquisizione degli antivirali e dei monoclonali, né condotto un’adeguata informazione per il loro corretto uso».
E i risultati si sono visti purtroppo. Ancora oggi abbiamo migliaia di scatole di antivirali inutilizzate e prossime alla scadenza, senza dimenticare i tanti anticorpi monoclonali che abbiamo dovuto regalare all’estero perché qui da noi non venivano usati. Adesso, cambieranno le cose?
«Ci auguriamo che Aifa cambi e migliori nel suo compito. Osserveremo che cosa succederà, insomma staremo a vedere. L’efficienza di un qualsiasi ente è data dalle persone che nefanno parte».
L’altra grande paura è che ancora una volta, come successo nella gestione appena conclusa, la politica entri a far parte delle decisioni dell’Agenzia. Crede che si corra questo rischio?
«Ci auguriamo che la politica, come spesso avviene, non sia determinante, ancora una volta, nella scelta delle competenze».
Che giudizio ha del nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci?
«Il nuovo ministro della Salute, persona autorevole, sta dimostrando, seppure a volte timidamente, di essere la svolta nella gestione pandemica. La sua sfida, nel prossimo futuro, sarà salvare dal collasso la sanità pubblica. Ci auguriamo che possa riuscirci. Anche se è triste dirlo, nella precedente gestione Covid ci sono stati diversi elementi che, probabilmente, hanno determinato insuccessi che sarebbero stati evitabili. Fra questi la famosa tachipirina e vigile attesa e, senza dubbio, il ritardo nell’autorizzazione dell’uso di monoclonali e antivirali».
Il Parlamento cancella una commissione lumaca
La riforma Aifa è legge e Nicola Magrini non ne sarà più il direttore generale. Lui, l’uomo che senza motivo si presentò a sponsorizzare in conferenza stampa un vaccino anti Covid (quello italiano di Reithera) quando avrebbe dovuto valutarne l’efficacia. Sarebbe dovuto bastare questo per riformare immediatamente l’ente. Invece sono serviti quasi altri due anni perché accadesse.
Dopo il Senato, anche la Camera ha approvato il Ddl contenente norme che modificano profondamente l’attuale organizzazione dell’Agenzia italiana del farmaco. Il discusso organo che vigila e regola il commercio dei farmaci si prepara a cambiare pelle, a partire dalla governance. La novità più importante è proprio qui. Niente più direttore generale. Il ruolo ricoperto oggi da Magrini, colui che ha tutti i poteri di gestione dell’Agenzia e ne dirige l’attività, sarà abolito.
Il presidente, carica oggi ricoperta da Giorgio Palù, diventerà rappresentate legale dell’Agenzia e passeranno in mano sua poteri e deleghe ora in capo al direttore generale.
Finalmente. I critici della riforma gridano allo scandalo: secondo loro, il riordino rischia di impantanare l’Aifa, di renderla meno autonoma e con i poteri concentrati nelle mani del presidente. Ma è difficile pensare che si possa fare peggio degli ultimi tre anni. Ritardi, mancate o ignorate richieste di approvazioni di farmaci, rifiuti inspiegabili (vedi l’offerta gratuita di 10.000 dosi di anticorpi monoclonali declinata da Aifa il 10 ottobre 2020), indecisioni di varia natura oltre a una pessima comunicazione. L’Aifa era l’unica agenzia regolatoria europea dove il presidente non aveva praticamente alcun potere decisionale. E ce ne siamo accorti, durante la pandemia. Per questo la riforma era stata più volte auspicata, impiantata e sponsorizzata dalle Regioni. Mai, però, era arrivata al traguardo, nonostante il pressing del mondo sanitario stesso. Un grosso scoglio è stata la figura stessa di Magrini, che dalla sanità emiliana era arrivato ai vertici del farmaco italiano. È servito un cambio di governo per dare la sterzata.
L’altra grande novità di questa riforma riguarda l’articolo 3, che sopprime la Commissione consultiva tecnico-scientifica (Cts) e il Comitato prezzi e rimborsi (Cpr). Le relative funzioni vengono attribuite alla nuova Commissione scientifica ed economica del farmaco (Cse), composta da 10 membri. Anche in questo caso gli oppositori della riforma storcono il naso, ma basta un dato per zittirli. Nel 2020, in piena prima ondata del coronavirus, la Commissione tecnico-scientifica si è riunita per soli 144 giorni, invece che convocare una seduta permanente, o quasi, per valutare e decidere quali e quanti farmaci usare per curare i malati di Covid. Facciamo gli scongiuri, ma semmai dovesse scoppiare un’altra pandemia bisogna augurarsi che chi decide su quali farmaci prendere si riunisca un po’ più spesso.
«Dire che l’uomo possa incidere sul clima al 98% è assolutamente fantasioso». Lo sostiene senza mezzi termini Franco Prodi, fisico e studioso di fisica dell’atmosfera. Eppure oggi il mondo sembra dover cambiare sulla base di questo assunto. «Questo pensiero unico ha prodotto su di me vere e proprie persecuzioni». La transizione energetica entro il 2030? «Una strada molto pericolosa». Quando chiedo il permesso di pubblicare le sue parole, il professor Prodi sorride: «Beh, le cose riportate sono sempre a rischio».
A Sharm El-Sheikh si è appena concluso uno dei più grandi appuntamenti climatici del mondo.
«Sono sempre stato molto critico nei confronti della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e anche quella di quest’anno mi sembra in linea con le precedenti. Si chiama Cop27 ma questa serie di numeri non è che abbia portato miglioramenti o suggerimenti che siano stati, poi, fedelmente seguiti».
Che cosa intende?
«Io critico questo forum di contatto fra le Nazioni Unite e alcuni scienziati perché nel tempo è diventato un pensiero unico come se i documenti, i rapporti finali che escono da queste conferenze fossero il verbo della scienza del clima. Non è così».
Cosa sono, allora?
«Sono forum di contatto, appunto, fra le Nazioni Unite e alcuni scienziati. Ma la scienza procede per altre strade, per altri sentieri che possono essere più tortuosi e più lunghi ma più sicuri».
Che vuole dirci?
«Bisogna procedere con i lavori scientifici sulle riviste internazionali riconosciute che hanno il famoso peer review, lo strumento che permette di sottoporre queste pubblicazioni ad attente e approfondite revisioni prima di essere diffuse. Poi bisogna procedere seguendo le conferenze ufficiali ma, soprattutto, le associazioni scientifiche formali come, ad esempio, la International Union of geodesy and geophysics (Associazione internazionale di geodesia e geofisica, ndr) che è associata alla International Association of meteorology and atmospheric physics».
A proposito di conferenze e documenti, lei con altri grandi scienziati ha firmato un documento, una sorta di petizione, per discutere dei problemi climatici.
«Sì, abbiamo promosso questa petizione dal titolo eloquente: “Non c’è emergenza climatica”. Ci siamo trovati d’accordo partendo dalle diverse specializzazioni scientifiche che ognuno possiede. Nel mio caso ho posto l’attenzione sulle nubi».
Perché?
«Le nubi, che studio da decenni, sono il centro del sistema climatico perché incrociano ciò che arriva dalla Terra e ciò che proviene dal Sole nel bilancio di radiazione. Se prevalgono i fotoni solari la Terra si riscalda. Se prevalgono quelli terresti, essa si raffredda».
Quali altri aspetti sono stati illustrati?
«Il collega professor Scafetta si è concentrato nell’osservazione inerente l’attività solare: dalla serie storica dei dati traspaiono cicli di 60 o 120 anni nei climi del passato. I colleghi geologi hanno portato reperti storici che hanno permesso l’analisi dei traccianti dei climi del passato».
La summa quale è stata?
«Convergendo tutti questi dati abbiamo convenuto che fosse da arginare questo pensiero unico, formatosi nel frattempo, di un’emergenza climatica. La storia della Terra fa trasparire questi cicli. Negli ultimi 2.000 anni abbiamo visto molti segni, come il periodo caldo romano, quello medievale, la piccola glaciazione del 1600-1700, il processo di ritirata dei ghiacciai. Così abbiamo formulato questa petizione alle autorità».
Il vostro messaggio principale?
«Vogliamo che le autorità considerino che colpevolizzare al 100% l’uomo per l’aumento della CO2 non è scientificamente accertato».
E come sta andando?
«La petizione ha avuto subito un’eco internazionale: la Clintel, una delle associazioni più importanti sul clima con più di 1.500 scienziati, ha condiviso e diffuso la nostra cautela».
Gran parte della comunità scientifica vi accusa di essere solo dei negazionisti.
«Io non nego che un cambiamento antropico ci possa essere, ovvero che in qualche misura l’uomo possa incidere sul clima, ma quantificare la responsabilità umana al 98% è assolutamente fantasioso e non basato su risultati scientifici».
Che tipo di riscontro state avendo dalla politica?
«I politici in questi decenni di dialogo sono arrivati a fidarsi solo dei modelli. È vero, i modelli sono importanti quando sono in grado di formulare previsioni, come ad esempio nella meteorologia. Nessuno si sogna di fare il weekend senza consultare il meteo, ma perché sappiamo che quei modelli sono affidabili. Non è questa la condizione per il clima».
Perché?
«Nell’analisi del clima convergono tante sottodiscipline. Per studiare i cambiamenti climatici bisogna tener presente molti fattori, come l’immissione della CO2, l’attività dei vulcani o il calore che proviene dall’interno della Terra. Tutti questi aspetti nei modelli correnti non vengono analizzati correttamente, tanto che si producono scenari molto diversi tra loro: le previsioni di riscaldamento della Terra in questo secolo vanno da un grado e mezzo fino a 6/7 gradi. I modelli servono al progresso della scienza, ma non sono da utilizzare in questo contesto».
Allora perché regna questo continuo allarmismo e questa colpevolizzazione dell’uomo?
«È appena uscito un libro curato dal professor Alberto Prestininzi nel quale si affronta anche questo tema analizzando i retroscena mondiali. Ci sono interessi della finanza internazionale e di gruppi di pressione che vogliono cambiare la produzione industriale, per esempio le auto elettriche. Ma non voglio entrare nell’argomento, cerco il confronto scientifico attraverso la petizione di cui abbiamo parlato».
C’è stato questo confronto?
«Per ora ci è stato negato. Ci sono stati negati incontri con il presidente Draghi e con il presidente Mattarella».
Verrebbe da demoralizzarsi.
«La nostra convinzione è che questa strada di aderenza al progresso della scienza del clima e il tener fede allo spirito perenne dell’università, inteso come ricerca, dev’essere indipendente dalle sollecitazioni e dai pensieri già acquisiti come pensieri unici, che vanno messi sempre in discussione. Questa è la motivazione che ci ha spinto a fare tutto questo con un atteggiamento molto sereno».
In verità, l’aria che si respira su tutto ciò non sembra tanto serena.
«Devo dire che questo pensiero unico ha prodotto su di me - uso la parola che va usata - vere e proprie persecuzioni».
In che senso, professore?
«Ho creato l’area di ricerca del Cnr di Bologna dal 1985 al 1993, ho diretto il maggior istituto di fisica dell’atmosfera del Paese per 20 anni. Ma oggi non posso più entrare nell’area di ricerca che ho creato, ho dovuto abbandonare i laboratori sperimentali che ho messo in piedi nel corso di una vita e che tra l’altro sono in condizione penosa».
Queste parole suonano come un monito.
«Bisogna stare attenti perché anche la ricerca può essere influenzata, la cessione dei fondi può essere legata al portare risultati che convalidino questo pensiero unico. Tutto ciò può essere pericoloso per il modo stesso in cui la scienza deve procedere, ovvero in un modo assolutamente indipendente e soprattutto non a maggioranza».
Il dibattito del mondo scientifico si articola su messaggi più rassicuranti, come ad esempio che il clima si può governare. È possibile?
«No. Dire che la temperatura globale si alzerà di 1,5 gradi entro il 2050 non ha senso: sarebbe possibile solo se si fosse compreso veramente il sistema climatico nella sua interezza con le sue basi fisiche. Io mi aspetto molto, non solo dal perfezionamento dei modelli, ma anche da missioni spaziali orientate alla risposta sul clima».
Che fare nel frattempo?
«Suggerisco di stare attenti alla riduzione dell’inquinamento e alla tutela dell’ambiente planetario».
Così, però, sembra dar ragione al pensiero comune.
«So bene che è una cosa difficile da far capire al grande pubblico. Intendo questo: non è detto che gli sforzi propagandati per ridurre il riscaldamento possono portare a una riduzione dell’inquinamento planetario».
Ovvero?
«Gli sforzi devono essere fatti verso questa tutela, perché l’inquinamento è misurabile mentre sul riscaldamento si discute se abbia motivi naturali o sia colpa dell’uomo. Sull’inquinamento non ci può essere alcuna controversia perché si tratta di misure rilevate da satelliti o stazioni. Le Nazioni Unite dovrebbero preoccuparsi di questo, della tutela dell’ambiente e di un uso dell’energia compatibile con le risorse fossili esistenti».
A proposito di questo. È vero che le fonti energetiche sono in esaurimento e serve un cambio di rotta?
«Il dato su quante risorse ci siano veramente nel pianeta fra gas naturale, petrolio e minerali uraniferi è nelle menti di pochissime persone. Questa, però, dovrebbe essere la base per ripartire con un accordo internazionale che abbia non più la pretesa di tenere a bada il riscaldamento globale, ma di tutelare un pianeta in cui la popolazione ha superato gli 8 miliardi di individui».
Crede sia possibile la transizione energetica che l’Europa vuole attuare entro il 2030?
«Spero di no. Non sono d’accordo sulla transizione energetica perché le fonti di energia rinnovabile, escluso l’idroelettrico, hanno fortissime limitazioni. Spero davvero che l’Europa si accorga presto di aver preso una strada molto pericolosa per il lavoro e per l’economia. Bisogna stare attenti a non proporsi obiettivi irraggiungibili ma anche dannosi per l’economia».
Può un social network diventare fonte di giustizia? Può una chat privata essere usata dalle autorità per entrare nella sfera più intima di una persona? Può tutto questo diventare uno strumento di indagine e, quindi, di eventuale colpa per ogni individuo? A quanto pare, sì. Tutto accade poche settimane fa. Nebraska (Stati Uniti), primi giorni di agosto. Una ragazza di 17 anni si confida su Facebook, in una chat privata con la madre, sulla possibilità di abortire. Pochi giorni dopo la ragazza decide di interrompere la gravidanza superata la ventesima settimana di gestazione. A quel punto Meta, la società di Mark Zuckerberg che gestisce Facebook, è stata costretta a consegnare al governo dello stato Usa i contenuti di quelle chat intercorse fra madre e figlia, la quale è stata incriminata per aver abortito oltre la ventesima settimana di gravidanza, pratica vietata dopo che la Corte suprema ha annullato la storica sentenza Roe vs. Wade.
In Nebraska, infatti, la legge dice che l’aborto è consentito entro le 20 settimane di gestazione. Lo Stato prevede deroghe a questa regola solo se la donna incinta è a rischio di morte o se corre un «serio rischio di compromissione fisica sostanziale e irreversibile di una delle principali funzioni corporee». La ragazza, così, si trova adesso accusata di cinque crimini ed è sotto processo in quanto nel frattempo è diventata maggiorenne. Questi fatti impongono diversi interrogativi sul delicatissimo confine tra privacy, sicurezza e trasferimento dei dati personali. La vicenda in esame porta a galla gli squilibri che ci sono nel rispetto dei nostri dati personali, dato che in quest’ultimo caso vi è una eccessiva ingerenza nella privacy dei cittadini, tanto da utilizzare il contenuto delle chat private fra madre e figlia per incriminare quest’ultima.
Un vero e proprio allarme, se riflettiamo su quanti dei nostri dati personali siano effettivamente in possesso delle Big tech. E non sono pochi i dubbi che nascono se pensiamo a quanto siamo effettivamente vulnerabili. Meta (Facebook) e Google, fra servizi come Gmail, Maps e Analytics, possono ricostruire tutta la nostra esistenza: dove andiamo, chi frequentiamo, che cosa ci scriviamo. Il caso di questa ragazza americana è l’emblema di come e quanto questo mondo del Web possa controllare le nostre vite.
A ridosso dell’annullamento della sentenza Roe vs. Wade, persino la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris aveva dichiarato pubblicamente di temere che qualche organo inquirente potesse sentirsi in diritto di ricorrere agli strumenti legislativi nati per la difesa nazionale per obbligare le aziende che gestiscono le app di controllo del ciclo mestruale a fornire loro i dati delle utenti, di modo da perseguirle ove avessero abortito. Il timore era, ovviamente, più che fondato. Peraltro, l’intimazione del governo del Nebraska è stata anche coperta dal segreto istruttorio e, pertanto, la trasmissione dei contenuti delle conversazioni online della ragazza è avvenuta a sua completa insaputa. In altre parole, per uno Stato americano sarebbe possibile ricostruire il nostro tenore di vita e, quindi, sottoporci a controlli approfonditi nel momento in cui intendiamo, ad esempio, recarci negli Usa, pure per un viaggio di piacere.
Nello specifico Meta (Facebook) ha potuto fornire al governo del Nebraska solo le chat intercorse tramite Facebook Messenger, servizio di messaggistica che non sfrutta la crittografia end-to-end di chat singole, cioè quel tipo di crittografia per la quale il messaggio in uscita viene crittografato sul dispositivo del mittente e decrittografato su quello del destinatario, di modo che nessuno - Meta compresa - possa visualizzare o intercettare il contenuto delle chat. Dunque, le chat singole (a differenza di quelle di gruppo) di Messenger hanno una protezione minima per l’utente, che però si volatilizza del tutto su richiesta delle istituzioni, senza che gli utenti possano fare niente per impedirlo. E così i nostri dispositivi diventano cassaforte dei nostri pensieri più intimi le cui chiavi sono in mano a chi ci governa. Seppure oscurati, i contenuti rimangono infatti sui server di Meta e l’azienda non si è potuta esimere dal consegnarli al governo.
È vero che non si può impedire agli inquirenti o alle autorità di sicurezza nazionale di accedere, per fondati motivi, ai dati personali di qualcuno sospettato di violare le leggi. Allo stesso tempo però diventa sempre più sottile il già delicato confine fra giusto e sbagliato, lecito e illecito, intimo e pubblico. Nessuno vorrebbe mai che le Big tech, o chi per loro, fossero in possesso di un passepartout universale per entrare come e quando vogliono nelle nostre case, nei nostri uffici o addirittura nei nostri letti. Se abbiamo comprato spazzolini di una certa marca piuttosto che di un’altra. Se nascondiamo un segreto in una chat con un fratello, padre o amico. O se custodiamo un dolore personale dentro una nota di un telefono.





