2022-08-22
Negli Usa incriminata una ragazza per una chat Facebook con la madre
Il colosso di Zuckerberg rivela alla giustizia i messaggi privati e criptati di una giovane che voleva abortire: è finita a processo appena diventata maggiorenne. Il Web che sa tutto di noi cede al potere degli inquirenti. Può un social network diventare fonte di giustizia? Può una chat privata essere usata dalle autorità per entrare nella sfera più intima di una persona? Può tutto questo diventare uno strumento di indagine e, quindi, di eventuale colpa per ogni individuo? A quanto pare, sì. Tutto accade poche settimane fa. Nebraska (Stati Uniti), primi giorni di agosto. Una ragazza di 17 anni si confida su Facebook, in una chat privata con la madre, sulla possibilità di abortire. Pochi giorni dopo la ragazza decide di interrompere la gravidanza superata la ventesima settimana di gestazione. A quel punto Meta, la società di Mark Zuckerberg che gestisce Facebook, è stata costretta a consegnare al governo dello stato Usa i contenuti di quelle chat intercorse fra madre e figlia, la quale è stata incriminata per aver abortito oltre la ventesima settimana di gravidanza, pratica vietata dopo che la Corte suprema ha annullato la storica sentenza Roe vs. Wade. In Nebraska, infatti, la legge dice che l’aborto è consentito entro le 20 settimane di gestazione. Lo Stato prevede deroghe a questa regola solo se la donna incinta è a rischio di morte o se corre un «serio rischio di compromissione fisica sostanziale e irreversibile di una delle principali funzioni corporee». La ragazza, così, si trova adesso accusata di cinque crimini ed è sotto processo in quanto nel frattempo è diventata maggiorenne. Questi fatti impongono diversi interrogativi sul delicatissimo confine tra privacy, sicurezza e trasferimento dei dati personali. La vicenda in esame porta a galla gli squilibri che ci sono nel rispetto dei nostri dati personali, dato che in quest’ultimo caso vi è una eccessiva ingerenza nella privacy dei cittadini, tanto da utilizzare il contenuto delle chat private fra madre e figlia per incriminare quest’ultima. Un vero e proprio allarme, se riflettiamo su quanti dei nostri dati personali siano effettivamente in possesso delle Big tech. E non sono pochi i dubbi che nascono se pensiamo a quanto siamo effettivamente vulnerabili. Meta (Facebook) e Google, fra servizi come Gmail, Maps e Analytics, possono ricostruire tutta la nostra esistenza: dove andiamo, chi frequentiamo, che cosa ci scriviamo. Il caso di questa ragazza americana è l’emblema di come e quanto questo mondo del Web possa controllare le nostre vite. A ridosso dell’annullamento della sentenza Roe vs. Wade, persino la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris aveva dichiarato pubblicamente di temere che qualche organo inquirente potesse sentirsi in diritto di ricorrere agli strumenti legislativi nati per la difesa nazionale per obbligare le aziende che gestiscono le app di controllo del ciclo mestruale a fornire loro i dati delle utenti, di modo da perseguirle ove avessero abortito. Il timore era, ovviamente, più che fondato. Peraltro, l’intimazione del governo del Nebraska è stata anche coperta dal segreto istruttorio e, pertanto, la trasmissione dei contenuti delle conversazioni online della ragazza è avvenuta a sua completa insaputa. In altre parole, per uno Stato americano sarebbe possibile ricostruire il nostro tenore di vita e, quindi, sottoporci a controlli approfonditi nel momento in cui intendiamo, ad esempio, recarci negli Usa, pure per un viaggio di piacere. Nello specifico Meta (Facebook) ha potuto fornire al governo del Nebraska solo le chat intercorse tramite Facebook Messenger, servizio di messaggistica che non sfrutta la crittografia end-to-end di chat singole, cioè quel tipo di crittografia per la quale il messaggio in uscita viene crittografato sul dispositivo del mittente e decrittografato su quello del destinatario, di modo che nessuno - Meta compresa - possa visualizzare o intercettare il contenuto delle chat. Dunque, le chat singole (a differenza di quelle di gruppo) di Messenger hanno una protezione minima per l’utente, che però si volatilizza del tutto su richiesta delle istituzioni, senza che gli utenti possano fare niente per impedirlo. E così i nostri dispositivi diventano cassaforte dei nostri pensieri più intimi le cui chiavi sono in mano a chi ci governa. Seppure oscurati, i contenuti rimangono infatti sui server di Meta e l’azienda non si è potuta esimere dal consegnarli al governo. È vero che non si può impedire agli inquirenti o alle autorità di sicurezza nazionale di accedere, per fondati motivi, ai dati personali di qualcuno sospettato di violare le leggi. Allo stesso tempo però diventa sempre più sottile il già delicato confine fra giusto e sbagliato, lecito e illecito, intimo e pubblico. Nessuno vorrebbe mai che le Big tech, o chi per loro, fossero in possesso di un passepartout universale per entrare come e quando vogliono nelle nostre case, nei nostri uffici o addirittura nei nostri letti. Se abbiamo comprato spazzolini di una certa marca piuttosto che di un’altra. Se nascondiamo un segreto in una chat con un fratello, padre o amico. O se custodiamo un dolore personale dentro una nota di un telefono.