Trump, al primo giro, è stato ambiguo sull’Africa. A dispetto delle parole ora può competere con il Dragone su Etiopia, Angola e Zambia. Punti focali della strategia italiana. La ferrovia di Lobito è il caso emblematico.
Trump, al primo giro, è stato ambiguo sull’Africa. A dispetto delle parole ora può competere con il Dragone su Etiopia, Angola e Zambia. Punti focali della strategia italiana. La ferrovia di Lobito è il caso emblematico.Una domanda che in molti si fanno riguardo Donald Trump è: che rapporto avrà con l’Africa nei prossimi quattro anni? Insomma, cambierà strategia? Manterrà il disimpegno di Joe Biden a sua volta ereditato dalla linea Obama? Avrà, come durante il primo mandato, un atteggiamento ambivalente e schizofrenico? Le domande non sono peregrine per noi. Tanto meno un esercizio di retorica geopolitica. Ma un elemento di partenza per ritarare il Piano Mattei, targato Giorgia Meloni. Oppure, cosa che sarebbe l’opzione ideale, per rafforzarlo e rabboccarlo con molti più fondi. Nel 2017 e nel 2018, durante il primo mandato, Trump uscì con due sfondoni sull’Africa. Il primo fu l’ignoranza sul Paese Namibia che chiamò Nambia e il secondo fu la celebre frase: «We’re having all these people from shithole countries come here». Tradotto: «Tutta questa gente che arriva da Paesi di merda». Ovviamente non è il miglior approccio al Continente. Tanto più che nel suo ragionamento i Paesi di merda erano tutti quelli del Sud globale. Sia Africa che Centroamerica. Il vecchio approccio e la minaccia di dazi (rischio 10% su tutti i prodotti provenienti dal Continente nero) farebbero pensare a un inasprimento delle relazioni con conseguente disimpegno militare. Va però detto che mentre insultava durante il primo mandato metteva a terra anche un piano (Prosper Africa) per facilitare gli investimenti delle azienda Usa soprattutto negli Stati subsahariani. Al contrario Biden, che ha inviato nel quadriennio oltre 22 miliardi di aiuti diretti, non ha creato partnership concrete. Così come sul fronte del contrasto al terrorismo. Da un lato parole azzeccate e politically correct ma pochi fatti e dall’altro invio di armi. Dove? Ad esempio in Nigeria. Ricordiamo tutti i cartelloni di Michelle Obama per chiedere di riportare a casa le studentesse rapite da Boko Haram. In pochi ricordano invece i tagli di rifornimenti militari ad Abuja da parte del marito Barack. Trump invece ha giustamente riaperto i cordoni. E la Nigeria ringrazia. Così con il 2025 si aprono due partite parallele e basilari per i rapporti tra Usa, Ue e l’Italia dentro il Continente africano. Il primo riguarda l’Agoa (African growth and opportunity act). Si tratta di un mandato del Congresso avviato ai tempi di Clinton che consente dazi bassi o zero purché nel Paese si rispettino i diritti umani. Ovviamente è una dicitura aleatoria. Vincolo che viene usato quando fa comodo. Ad esempio contro l’Etiopia, che è stata estromessa per la guerra nel Tigrai tanto da avvicinarsi sempre più alla Cina. A parole Trump ha sempre berciato contro aiuti e il taglio dei dazi, ma - ad esempio - sa bene quanto sarebbe importante far rientrare Addis Abeba nella sfera occidentale. Il reintegro è chiesto con forza da Tibor Peter Nagy Junior, ex ambasciatore e assistant secretary of State for African affairs del primo gabinetto Trump. Per le aziende italiane sarebbe una svolta. Potrebbero riaffacciarsi in un Paese cristiano che sembra essere stato abbandonato anche dal Vaticano. Ma la partita più grande si gioca nell’Africa subsahariana e nei fatti si gioca attorno alle infrastrutture. Una in particolare sarà la cartina al tornasole di come e quanto il nostro Piano Mattei si incastri nei piani Usa. Si tratta del Corridoio Lobito. Prende il nome dal porto che copre il Sud dell’Angola, dove opera anche Msc, ed è pronto a sviluppare una rete ferroviaria che porta dritta al centro dello Zambia attraversando metà della cintura africana delle materie prime sensibili. Il progetto prende soldi americani incastrati nel progetto Dfc (Development finance corporation), denaro in quota minore dall’Ue. Mentre 320 milioni sono finanziati dal Piano Mattei all’interno di un accordo consolidato lo scorso giugno in occasione del G7 di Borgo Egnazia. Intorno a maggio del prossimo anno il Dfc dovrà essere rifinanziato. E qui si potrà capire come e quanto nei fatti il Congresso a maggioranza repubblicana e la Casa Bianca giocheranno la partita contro la Cina facilitando a cascata la nostra presenza. Con il Corridoio di Lobito Usa ed Ue avrebbero un accesso alle materie prime sensibili in modo prioritario e a costi più bassi (l’Italia ne godrebbe affiancando a Msc altre grandi aziende). Nel complesso si creerebbe una vera infrastruttura di contrasto a quella cinese. Perché mentre da noi gli investimenti in Africa non sono sulle prime pagine dei giornali, Pechino invece sbandiera le proprie mosse. Solo quattro giorni fa la Cina ha celebrato il rinnovo degli accordi con Kenya e Tanzania per il rilancio di Tazara railways, una tratta da circa 1.800 chilometri che parte dal porto di Dar Es Salaam e arriva nel centro dello Zambia. Dritta a scontrarsi con il Corridoio di Lobito. Tazara ha una storia lunga e nasce ai tempi di Julius Nyerere, presidente terzomondista per definizione. Accettò i soldi dalla Cina per costruire la grande rete ferroviaria e in cambiò aprì le miniere. Ora, con i cicli storici che ritornano siamo di nuovo al punto di partenza. Scontro tra Occidente e Cina nel cuore delle miniere. Una volta era per l’industria ora per la tecnologia. Quindi badiamo poco alle parole che usciranno dalla bocca di Trump, di più ai soldi che stanzierà per progetti che prendono nomi di città sconosciute ma sono i dettagli che fanno la differenza nella guerra Est-Ovest, cui l’Italia non può sottrarsi.
Volodymyr Zelensky e il suo braccio destro, Andriy Yermak (Ansa)
Perquisiti dall’Anticorruzione uffici e abitazione del «Cardinale verde»: parte dei fondi neri sarebbe servita a procurargli una casa di lusso. Lui e l’indagato Rustem Umerov dovevano strappare agli Usa una pace meno dura.
Alì Babà. Nelle mille ore (e mille e una notte) di registrazioni, che hanno permesso alle autorità ucraine di ascoltare i «ladroni» della Tangentopoli di Kiev, era quello il nome in codice di Andriy Yermak, braccio destro di Volodymyr Zelensky. Ieri, dopo un blitz degli agenti, è stato costretto a lasciare il suo incarico di capo dello staff del presidente. La Procura anticorruzione (Sapo) e l’Ufficio anticorruzione (Nabu) hanno condotto perquisizioni nel suo appartamento e nei suoi uffici. Non risulta indagato, ma la svolta pare imminente: la testata Dzerkalo Tyzhnia sostiene che a breve saranno trasmessi i capi d’imputazione.
Sergio Mattarella (Getty Images)
Rotondi: «Il presidente ha detto che non permetterà di cambiare le regole a ridosso del voto». Ma nel 2017 fu proprio Re Sergio a firmare il Rosatellum a 4 mesi dalle urne. Ora si rischia un Parlamento bloccato per impedire di eleggere un successore di destra.
Augusto Minzolini riferisce una voce raccolta da Gianfranco Rotondi. Durante un incontro tenuto con l’associazione che raggruppa gli ex parlamentari, Sergio Mattarella si sarebbe lasciato andare a un giudizio tranchant: «Non permetterò che si faccia una legge elettorale a ridosso del voto. Abbiamo avuto l’esperienza del Mattarellum, che fu approvato poco prima delle elezioni, e diversi partiti arrivarono alle urne impreparati. Bisogna dare il tempo alle forze politiche di organizzarsi e prepararsi alle nuove elezioni». Lasciamo perdere il tono usato dal capo dello Stato («non permetterò…» sembra una frase più adatta a un monarca che al presidente di una Repubblica parlamentare, ma forse l’inquilino del Quirinale si sente proprio un sovrano) e andiamo al sodo.
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Il consigliere anti Meloni applica il detto siciliano: «Piegati giunco che passa la piena».
La piena è passata e il giunco Francesco Saverio Garofani può tirare un sospiro di sollievo. Da giorni tutto tace e il consigliere di fiducia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sorveglia rinfrancato gli umori dei palazzi e i tam-tam dei media. Calma piatta, le ostilità si sono placate.
Secondo il procuratore generale di Napoli, Aldo Policastro, il ministro Nordio «realizza il Piano diabolico di Gelli del 1981». Ma paragonare il lavoro di governo e Parlamento a un’organizzazione eversiva è follia.
Facciamo il punto novembrino del confronto referendario: intanto, chi è il frontman della campagna del No?A rigor di logica e per obbligo di mandato correntizio dovrebbe essere il vertice Anm (il presidente Cesare Parodi, ndr), non foss’altro perché rappresenta quel sistema che dal sorteggio risulterebbe più che sconfitto; secondo altri, dovrebbe essere il procuratore di Napoli (Nicola Gratteri, ndr), per la migliore conoscenza dei salotti televisivi; secondo altri ancora dovrebbe essere il presidente del Comitato del No (Enrico Grosso, ndr), un accademico insigne e molto ottimista («Una volta emerso quel sistema opaco con Luca Palamara, è stata fatta pulizia. Lo stesso Csm ha dimostrato che le degenerazioni appartengono al passato», ha dichiarato sulla Repubblica del primo novembre).





