2019-04-19
Accusa al leghista Siri: «Prese 30.000 euro per aiutare le aziende vicine al boss Denaro»
Il sottosegretario indagato per corruzione: tangenti in cambio di modifiche alle norme sull'eolico? La difesa: «È una follia».L'ex ad dell'azienda rifiuti attacca il sindaco Virginia Raggi: «Licenziato perché non truccai i bilanci». Il Carroccio: «Ormai è inadeguata». E blocca la norma che salva il debito della capitale.Il capo grillino chiede il passo indietro immediato al senatore ligure: «Conviene all'immagine del suo partito». E subito Danilo Toninelli gli toglie le deleghe. Anche Giuseppe Conte severo: «Parlerò con lui, fatto grave». Il segretario lumbard fa scudo: «Va via solo se condannato».Lo speciale contiene tre articoliIn una chiacchierata tra un lobbista dell'eolico e suo figlio spunta il nome del sottosegretario leghista alle Infrastrutture Armando Siri. Si parla di una mazzetta da 30.000 euro che al momento non si sa se è stata solo promessa o consegnata. Ma potrebbe anche trattarsi semplicemente di una intenzione del protagonista di questa storia, il docente universitario Paolo Arata, genovese come Siri, 68 anni, ex deputato di Forza Italia e, nel 1994, presidente del Comitato interparlamentare per lo sviluppo sostenibile, amministratore della Etnea Srl, della Alqantarea Srl, dominus della Solcara Srl (amministrata dal figlio Francesco) e della Solgesta Srl (amministrata dalla moglie Alessandra Rollino). Il professore, stando a quanto emerge dall'inchiesta delle Procure di Roma e Palermo, ha parlato della mazzetta per Siri con suo figlio in auto e l'audio della chiacchierata è molto disturbato. Il sottosegretario è stato anche intercettato indirettamente, ma l'uso delle conversazioni che lo riguardano, essendo senatore, dovrà essere autorizzato da Palazzo Madama, sempre che i pm lo richiedano.Una cosa è certa: gli ipotizzati aiuti per modificare una norma da inserire in un documento programmatico che avrebbe favorito l'erogazione di contributi per le imprese del mini eolico non sono andati a buon fine. Addirittura non sono mai stati neanche presentati ufficialmente. Da provare, invece, c'è l'accusa di corruzione, avanzata dalla Procura di Roma in base agli atti arrivati a Piazzale Clodio da Palermo. Le carte sono partite dalla Sicilia subito dopo gli accertamenti, svolti dalla Direzione investigativa antimafia di Trapani per conto dei magistrati palermitani, su un imprenditore che da un anno è agli arresti domiciliari, Vito Nicastri. Secondo gli investigatori sarebbe uno dei finanziatori della latitanza del super boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Un nome che, appena è stato battuto dalle agenzie di stampa accanto a quello di Siri, ha scatenato gli istinti forcaioli pentastellati.Il sottosegretario famoso per la flat tax, diventato di colpo sulla stampa il protagonista dell'inchiesta, ha provato a difendersi: «Non so se ridere o piangere. Io non mi sono mai occupato di eolico in tutta la mia vita. Sono senza parole, siamo alla follia». E stando solo al capo d'imputazione, contenuto nel decreto di perquisizione che gli hanno notificato i magistrati, è difficile comprendere in modo pieno cosa sia successo. Stando agli atti, il professore Arata, che nel luglio 2017 intervenne a un convegno della Lega a Piacenza (il video è sul canale Youtube di Salvini) e che la scorsa estate si è fermato a un passo dalla presidenza dell'Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente, avrebbe «stimolato» Siri (del quale, si sostiene, sia uno sponsor politico) «a promuovere l'inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare (decreto interministeriale in materia di incentivazione dell'energia elettrica da fonte rinnovabile) e di iniziativa governativa di rango legislativo (legge Milleproroghe, legge di Stabilità, legge di Semplificazione) una modifica degli incentivi connessi al mini eolico». Gli investigatori hanno in mano gli incontri tra gli indagati, seguiti e fotografati, e le tracce dell'attività istituzionale di Siri che, stando all'accusa, avrebbe lavorato per l'approvazione delle norme, così come emerge, però, solo da ulteriori conversazioni che Arata ha intrattenuto con i suoi familiari e con altre persone coinvolte.Nicastri, magnate trapanese dell'eolico, che secondo gli investigatori era in contatto con Arata, si è visto aggravare la misura cautelare che lo aveva già ristretto ai domiciliari con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e fittizia intestazione di beni. Il «Signore del vento», come lo definì il Financial times, è stato riportato in carcere, perché nonostante una confisca da un miliardo di euro, da casa, tramite un parente, riusciva ancora a macinare soldi. Al centro dell'inchiesta ci sono una serie di permessi gestiti dalla Regione Sicilia per un giro d'affari stimato in 10 miliardi di euro. È in Sicilia che il professore genovese e Nicastri avrebbero fatto affari. «È emerso che Arata ha trovato interlocutori all'interno dell'assessorato all'Energia, tra tutti l'assessore Alberto Pierobon, grazie all'intervento di Gianfranco Micciché (presidente dell'Ars, ndr), a sua volta contattato da Alberto Dell'Utri (fratello di Marcello ndr)». E, così, Arata avrebbe dimostrato di essere uno che conta nelle istituzioni siciliane. Gli indagati di questo filone, che è una tranche dell'inchiesta sull'imprenditore Francesco Isca, socio di Nicastri e considerato dai magistrati siciliani in odore di mafia, sono nove. Tra gli indagati c'è anche il figlio di Arata, che si era trasferito in Sicilia per curare i rapporti con la famiglia Nicastri, in particolare con il figlio del manager arrestato, Manlio, indagato pure lui per intestazione fittizia di beni. È a questo punto che nella ricostruzione dei magistrati fa capolino il leghista Siri, nella sua «duplice veste di senatore della Repubblica e sottosegretario alle Infrastrutture» avrebbe asservito «le sue funzioni e i suoi poteri a interessi privati». Il progetto dei lobbisti era questo: bisognava trovare tramite Siri una strada legislativa per far retroagire al momento della costituzione di una delle società di Arata e Nicastri (senza che il segretario fosse peraltro a conoscenza del rapporto tra i due) la data utile per accedere ai contributi economici. Un'operazione che non gli è riuscita.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accusa-al-leghista-siri-prese-30-000-euro-per-aiutare-le-aziende-vicine-al-boss-denaro-2634999340.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-la-lega-si-vendica-sulla-raggi" data-post-id="2634999340" data-published-at="1757772369" data-use-pagination="False"> E la Lega si vendica sulla Raggi I pentastellati non hanno fatto in tempo a chiedere la testa del sottosegretario leghista Armando Siri che dalle colonne dell'Espresso sono saltate fuori nuove accuse, con tanto di registrazioni, per il sindaco Virginia Raggi sul caso Ama, l'azienda romana dei rifiuti partecipata dal Campidoglio. E il ministro degli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, lo ha fatto pesare non poco: «Se il contenuto delle intercettazioni del sindaco corrispondesse al vero, sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento ci aspettiamo le sue immediate dimissioni». E tutto questo proprio nel giorno dell'inchiesta su Siri, con Matteo Salvini che in mattinata aveva pure ricordato di non aver chiesto le dimissioni del primo cittadino neanche durante la bufera sull'affare dello stadio della Roma. Insomma, i pentastellati erano pronti a fare la voce grossa con l'alleato, ma si sono trovati con un nuovo problemone in casa. È l'ex presidente e amministratore delegato della municipalizzata dei rifiuti, Lorenzo Bagnacani, ad accusare la Raggi di aver fatto pressioni indebite su di lui e sull'intero consiglio d'amministrazione dell'azienda, «finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell'Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali». Crediti che, secondo l'ex manager, erano certi, liquidi ed esigibili. L'unico obiettivo, secondo Bagnacani, era quello di portare i conti di Ama in rosso e, così facendo, aprire la strada per la privatizzazione. Sono queste le ragioni alla base dell'esposto alla magistratura. E, addirittura, spuntano delle registrazioni e delle chat nelle quali il sindaco chiede a Bagnacani di taroccare il bilancio, mettendosi contro il collegio sindacale. Il manager, però, si rifiuta: «Virginia, non possiamo fare quello che non è possibile fare». In una successiva conversazione, il sindaco rincara la dose: «I romani oggi si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così. Quando ai romani gli dico sì la città è sporca però vi aumento la Tari... ma io scateno, cioè mettono la città a ferro e fuoco altro che gilet gialli». E ancora: «Cambia il bilancio anche se ti dicono che la luna è piatta». Stando alle nuove rivelazioni il primo cittadino usa toni poco concilianti con il manager: «Non devi valutare, se il socio ti chiede di fare una modifica lo devi fare». E in un altro passaggio della telefonata: «Tu mi devi dare una mano Lorenzo, così non mi stai aiutando io ho la città che è praticamente fuori controllo i sindacati che fanno quel cazzo che vogliono io non riesco ad arrivare». L'audio di questa conversazione risale al 30 ottobre scorso e risulta allegato all'esposto presentato da Bagnacani in Procura. L'inchiesta è quella sulla mancata chiusura del bilancio 2017 della partecipata dei rifiuti del Campidoglio. La storia si è chiusa nel peggiore dei modi: Bagnacani è stato licenziato in tronco dalla Raggi nei primi giorni di febbraio 2018. Il sospetto è che sia stato silurato per ritorsione, proprio per aver detto no alla sindaca. «Nessuna pressione», replicano dal Campidoglio, sottolineando che «il bilancio proposto da Bagnacani prevedeva premi per lui e per i dirigenti». Sarà la Procura di Roma a stabilire se sono stati commessi dei reati. Il Carroccio, però, affonda ancora il colpo. L'Ansa, non smentita, in serata rilancia la richiesta da parte leghista di stralciare dal decreto Crescita le norme sul debito della capitale, 12 miliardi, che in teoria dovrebbe passare in gran parte sul bilancio dello Stato.Fabio Amendolara <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accusa-al-leghista-siri-prese-30-000-euro-per-aiutare-le-aziende-vicine-al-boss-denaro-2634999340.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="di-maio-e-salvini-alla-guerra-delle-dimissioni" data-post-id="2634999340" data-published-at="1757772369" data-use-pagination="False"> Di Maio e Salvini alla guerra delle dimissioni Serve qualcuno da mettere in croce. Sarà la narrazione evangelica di queste ore, sarà la marcia di avvicinamento alle europee, ma Luigi Di Maio non intende fare sconti e prepara i chiodi per Armando Siri, sottosegretario ai Trasporti della Lega indagato per corruzione. «Sarebbe opportuno che si dimettesse. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l'immagine della Lega», dichiara dopo i primissimi lanci di agenzia. Il vicepremier dei 5 stelle, in passato più volte spiazzato dalle impennate giustizialiste della base, in questo caso cavalca l'indignazione anche per non farsi zittire dal tintinnio di manette di colleghi politicamente con le mani più libere delle sue. Questo anche se l'accusa è nebulosa, se i 30.000 euro di cui si parla in un'intercettazione di terzi sarebbero un'ipotesi e se l'emendamento alla base della presunta mazzetta non è neppure stato inserito in un dispositivo di legge. Siri si difende respingendo le accuse, prima con sarcasmo («Siamo alla follia, non so di cosa si tratti»), poi argomentando: «Non ho fatto niente di male, sicuramente non c'entro niente con vicende che possano avere risvolti penali. Ho letto nomi che non so, respingo categoricamente le accuse. Mi sono sempre comportato nel rispetto delle leggi, non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette. Chiederò di essere ascoltato dai magistrati e se qualcuno mi ha accusato di condotte ignobili non esiterò a denunciarlo. Non ho ragioni per dimettermi». Ma la preda è troppo ghiotta, la faccenda è perfetta per essere cavalcata nei talk show televisivi dal Movimento 5 stelle a caccia di consenso elettorale per recuperare punti sul debordante Matteo Salvini. E, quasi fosse una gara a chi prende di più le distanze, ecco il ministro Danilo Toninelli togliere immediatamente le deleghe (tra le quali spicca il caldissimo dossier Alitalia) a Siri, «in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza. Un'inchiesta per corruzione impone massima attenzione e cautela». Sul caso esce allo scoperto anche il premier Giuseppe Conte: «Il contratto di governo contiene un codice etico in base al quale non possono essere ministri e sottosegretari imputati per fatti gravi, e la corruzione lo è. È vero che siamo nel pieno delle investigazioni, ma è anche vero che questo governo ha l'obiettivo di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, quindi ha un alto tasso di eticità. Parlerò con il diretto interessato, a cui voglio chiedere alcune cose. Poi esprimerò una valutazione». Il premier sta in equilibrio, gli altri no. A costo di uno show down politico, le parole di Siri non scalfiscono l'alleato governativo della Lega. È lapidario Di Maio nel suo processo alle intenzioni. «Gli auguro di risultare innocente e siamo pronti a riaccoglierlo nel governo quando la sua posizione sarà chiarita. Non so se Matteo Salvini sarà d'accordo con questa mia linea intransigente, ma è mio dovere tutelare l'esecutivo e l'integrità delle istituzioni. Un sottosegretario indagato per vicende legate alla mafia è un fatto grave. Non è più una questione tecnica e giuridica, ma morale e politica». Per la verità il capo di imputazione non ha nessun aggancio con la criminalità organizzata, ma nel minestrone pentastellato tutto fa brodo. La posizione sul Piave è tenuta da tutti e i distinguo sono vietati. Roberta Lombardi, capogruppo 5 stelle alla Regione Lazio: «Sarebbe opportuno un passo indietro, bisogna che i politici non solo siano innocenti ma appaiano anche innocenti. Vale per noi e per le altre forze politiche. Su Salvini (per la vicenda Diciotti, ndr) non abbiamo insistito per le dimissioni? Io sì, ma gli iscritti hanno deciso in altra maniera e noi, essendo portavoce, ne rispettiamo la volontà». La fibrillazione è forte, anche perché la Lega non sta a guardare e individua subito il punto debole dove contrattaccare: il caso Virginia Raggi. Quelle intercettazioni imbarazzanti, quelle richieste di correggere il bilancio (così dice l'ex ad Lorenzo Bagnacani), sembrano perfette per far intravede altri chiodi pre pasquali nel campo avverso. Anzi, nell'altro angolo del campo alleato, neanche fosse un ring. «Piena fiducia a Siri», esordisce Salvini che si augura «indagini veloci per non lasciare nessuna ombra. Lo conosco, lo stimo, non ho dubbi: peraltro stiamo parlando di qualcosa che non è finito neanche nel Def. C'è solo un'iscrizione nel registro degli indagati e solo se sarà condannato dovrà mettersi da parte. Non si deve dimettere. Non ho mai chiesto di far dimettere Virginia Raggi per due anni sotto inchiesta o parlamentari 5 stelle indagati». Non l'ha mai chiesto prima, ma un ministro della Lega, Erika Stefani (Affari regionali) lo ha ufficialmente chiesto ieri qualche ora dopo l'irrigidimento dei pentastellati su Siri e l'uscita delle rivelazioni dell'Espresso sul sindaco di Roma. «Se il contenuto delle intercettazioni del sindaco Raggi corrispondesse al vero sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento 5 stelle ci aspettiamo le sue immediate dimissioni». Anche Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica amministrazione, va giù decisa: «Stupisce il giustizialismo a intermittenza con il quale vengono valutate dai 5 stelle le diverse vicende giudiziarie a seconda dell'appartenenza politica del soggetto indagato». Muove bianco, muove nero. La partita a scacchi continua, anche se le regole sembrano più quelle del poker. Giorgio Gandola
La Global Sumud Flotilla. Nel riquadro, la giornalista Francesca Del Vecchio (Ansa)
Vladimir Putin e Donald Trump (Ansa)