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2019-04-19
Accusa al leghista Siri: «Prese 30.000 euro per aiutare le aziende vicine al boss Denaro»
Ansa
In una chiacchierata tra un lobbista dell'eolico e suo figlio spunta il nome del sottosegretario leghista alle Infrastrutture Armando Siri. Si parla di una mazzetta da 30.000 euro che al momento non si sa se è stata solo promessa o consegnata. Ma potrebbe anche trattarsi semplicemente di una intenzione del protagonista di questa storia, il docente universitario Paolo Arata, genovese come Siri, 68 anni, ex deputato di Forza Italia e, nel 1994, presidente del Comitato interparlamentare per lo sviluppo sostenibile, amministratore della Etnea Srl, della Alqantarea Srl, dominus della Solcara Srl (amministrata dal figlio Francesco) e della Solgesta Srl (amministrata dalla moglie Alessandra Rollino). Il professore, stando a quanto emerge dall'inchiesta delle Procure di Roma e Palermo, ha parlato della mazzetta per Siri con suo figlio in auto e l'audio della chiacchierata è molto disturbato. Il sottosegretario è stato anche intercettato indirettamente, ma l'uso delle conversazioni che lo riguardano, essendo senatore, dovrà essere autorizzato da Palazzo Madama, sempre che i pm lo richiedano.
Una cosa è certa: gli ipotizzati aiuti per modificare una norma da inserire in un documento programmatico che avrebbe favorito l'erogazione di contributi per le imprese del mini eolico non sono andati a buon fine. Addirittura non sono mai stati neanche presentati ufficialmente. Da provare, invece, c'è l'accusa di corruzione, avanzata dalla Procura di Roma in base agli atti arrivati a Piazzale Clodio da Palermo.
Le carte sono partite dalla Sicilia subito dopo gli accertamenti, svolti dalla Direzione investigativa antimafia di Trapani per conto dei magistrati palermitani, su un imprenditore che da un anno è agli arresti domiciliari, Vito Nicastri. Secondo gli investigatori sarebbe uno dei finanziatori della latitanza del super boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Un nome che, appena è stato battuto dalle agenzie di stampa accanto a quello di Siri, ha scatenato gli istinti forcaioli pentastellati.
Il sottosegretario famoso per la flat tax, diventato di colpo sulla stampa il protagonista dell'inchiesta, ha provato a difendersi: «Non so se ridere o piangere. Io non mi sono mai occupato di eolico in tutta la mia vita. Sono senza parole, siamo alla follia». E stando solo al capo d'imputazione, contenuto nel decreto di perquisizione che gli hanno notificato i magistrati, è difficile comprendere in modo pieno cosa sia successo. Stando agli atti, il professore Arata, che nel luglio 2017 intervenne a un convegno della Lega a Piacenza (il video è sul canale Youtube di Salvini) e che la scorsa estate si è fermato a un passo dalla presidenza dell'Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente, avrebbe «stimolato» Siri (del quale, si sostiene, sia uno sponsor politico) «a promuovere l'inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare (decreto interministeriale in materia di incentivazione dell'energia elettrica da fonte rinnovabile) e di iniziativa governativa di rango legislativo (legge Milleproroghe, legge di Stabilità, legge di Semplificazione) una modifica degli incentivi connessi al mini eolico».
Gli investigatori hanno in mano gli incontri tra gli indagati, seguiti e fotografati, e le tracce dell'attività istituzionale di Siri che, stando all'accusa, avrebbe lavorato per l'approvazione delle norme, così come emerge, però, solo da ulteriori conversazioni che Arata ha intrattenuto con i suoi familiari e con altre persone coinvolte.
Nicastri, magnate trapanese dell'eolico, che secondo gli investigatori era in contatto con Arata, si è visto aggravare la misura cautelare che lo aveva già ristretto ai domiciliari con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e fittizia intestazione di beni. Il «Signore del vento», come lo definì il Financial times, è stato riportato in carcere, perché nonostante una confisca da un miliardo di euro, da casa, tramite un parente, riusciva ancora a macinare soldi. Al centro dell'inchiesta ci sono una serie di permessi gestiti dalla Regione Sicilia per un giro d'affari stimato in 10 miliardi di euro.
È in Sicilia che il professore genovese e Nicastri avrebbero fatto affari. «È emerso che Arata ha trovato interlocutori all'interno dell'assessorato all'Energia, tra tutti l'assessore Alberto Pierobon, grazie all'intervento di Gianfranco Micciché (presidente dell'Ars, ndr), a sua volta contattato da Alberto Dell'Utri (fratello di Marcello ndr)». E, così, Arata avrebbe dimostrato di essere uno che conta nelle istituzioni siciliane. Gli indagati di questo filone, che è una tranche dell'inchiesta sull'imprenditore Francesco Isca, socio di Nicastri e considerato dai magistrati siciliani in odore di mafia, sono nove. Tra gli indagati c'è anche il figlio di Arata, che si era trasferito in Sicilia per curare i rapporti con la famiglia Nicastri, in particolare con il figlio del manager arrestato, Manlio, indagato pure lui per intestazione fittizia di beni. È a questo punto che nella ricostruzione dei magistrati fa capolino il leghista Siri, nella sua «duplice veste di senatore della Repubblica e sottosegretario alle Infrastrutture» avrebbe asservito «le sue funzioni e i suoi poteri a interessi privati». Il progetto dei lobbisti era questo: bisognava trovare tramite Siri una strada legislativa per far retroagire al momento della costituzione di una delle società di Arata e Nicastri (senza che il segretario fosse peraltro a conoscenza del rapporto tra i due) la data utile per accedere ai contributi economici. Un'operazione che non gli è riuscita.
E la Lega si vendica sulla Raggi
I pentastellati non hanno fatto in tempo a chiedere la testa del sottosegretario leghista Armando Siri che dalle colonne dell'Espresso sono saltate fuori nuove accuse, con tanto di registrazioni, per il sindaco Virginia Raggi sul caso Ama, l'azienda romana dei rifiuti partecipata dal Campidoglio.
E il ministro degli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, lo ha fatto pesare non poco: «Se il contenuto delle intercettazioni del sindaco corrispondesse al vero, sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento ci aspettiamo le sue immediate dimissioni».
E tutto questo proprio nel giorno dell'inchiesta su Siri, con Matteo Salvini che in mattinata aveva pure ricordato di non aver chiesto le dimissioni del primo cittadino neanche durante la bufera sull'affare dello stadio della Roma. Insomma, i pentastellati erano pronti a fare la voce grossa con l'alleato, ma si sono trovati con un nuovo problemone in casa.
È l'ex presidente e amministratore delegato della municipalizzata dei rifiuti, Lorenzo Bagnacani, ad accusare la Raggi di aver fatto pressioni indebite su di lui e sull'intero consiglio d'amministrazione dell'azienda, «finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell'Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali».
Crediti che, secondo l'ex manager, erano certi, liquidi ed esigibili. L'unico obiettivo, secondo Bagnacani, era quello di portare i conti di Ama in rosso e, così facendo, aprire la strada per la privatizzazione.
Sono queste le ragioni alla base dell'esposto alla magistratura. E, addirittura, spuntano delle registrazioni e delle chat nelle quali il sindaco chiede a Bagnacani di taroccare il bilancio, mettendosi contro il collegio sindacale. Il manager, però, si rifiuta: «Virginia, non possiamo fare quello che non è possibile fare». In una successiva conversazione, il sindaco rincara la dose: «I romani oggi si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così. Quando ai romani gli dico sì la città è sporca però vi aumento la Tari... ma io scateno, cioè mettono la città a ferro e fuoco altro che gilet gialli». E ancora: «Cambia il bilancio anche se ti dicono che la luna è piatta». Stando alle nuove rivelazioni il primo cittadino usa toni poco concilianti con il manager: «Non devi valutare, se il socio ti chiede di fare una modifica lo devi fare». E in un altro passaggio della telefonata: «Tu mi devi dare una mano Lorenzo, così non mi stai aiutando io ho la città che è praticamente fuori controllo i sindacati che fanno quel cazzo che vogliono io non riesco ad arrivare». L'audio di questa conversazione risale al 30 ottobre scorso e risulta allegato all'esposto presentato da Bagnacani in Procura. L'inchiesta è quella sulla mancata chiusura del bilancio 2017 della partecipata dei rifiuti del Campidoglio. La storia si è chiusa nel peggiore dei modi: Bagnacani è stato licenziato in tronco dalla Raggi nei primi giorni di febbraio 2018. Il sospetto è che sia stato silurato per ritorsione, proprio per aver detto no alla sindaca. «Nessuna pressione», replicano dal Campidoglio, sottolineando che «il bilancio proposto da Bagnacani prevedeva premi per lui e per i dirigenti». Sarà la Procura di Roma a stabilire se sono stati commessi dei reati.
Il Carroccio, però, affonda ancora il colpo. L'Ansa, non smentita, in serata rilancia la richiesta da parte leghista di stralciare dal decreto Crescita le norme sul debito della capitale, 12 miliardi, che in teoria dovrebbe passare in gran parte sul bilancio dello Stato.
Fabio Amendolara
Di Maio e Salvini alla guerra delle dimissioni
Serve qualcuno da mettere in croce. Sarà la narrazione evangelica di queste ore, sarà la marcia di avvicinamento alle europee, ma Luigi Di Maio non intende fare sconti e prepara i chiodi per Armando Siri, sottosegretario ai Trasporti della Lega indagato per corruzione. «Sarebbe opportuno che si dimettesse. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l'immagine della Lega», dichiara dopo i primissimi lanci di agenzia. Il vicepremier dei 5 stelle, in passato più volte spiazzato dalle impennate giustizialiste della base, in questo caso cavalca l'indignazione anche per non farsi zittire dal tintinnio di manette di colleghi politicamente con le mani più libere delle sue. Questo anche se l'accusa è nebulosa, se i 30.000 euro di cui si parla in un'intercettazione di terzi sarebbero un'ipotesi e se l'emendamento alla base della presunta mazzetta non è neppure stato inserito in un dispositivo di legge.
Siri si difende respingendo le accuse, prima con sarcasmo («Siamo alla follia, non so di cosa si tratti»), poi argomentando: «Non ho fatto niente di male, sicuramente non c'entro niente con vicende che possano avere risvolti penali. Ho letto nomi che non so, respingo categoricamente le accuse. Mi sono sempre comportato nel rispetto delle leggi, non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette. Chiederò di essere ascoltato dai magistrati e se qualcuno mi ha accusato di condotte ignobili non esiterò a denunciarlo. Non ho ragioni per dimettermi». Ma la preda è troppo ghiotta, la faccenda è perfetta per essere cavalcata nei talk show televisivi dal Movimento 5 stelle a caccia di consenso elettorale per recuperare punti sul debordante Matteo Salvini. E, quasi fosse una gara a chi prende di più le distanze, ecco il ministro Danilo Toninelli togliere immediatamente le deleghe (tra le quali spicca il caldissimo dossier Alitalia) a Siri, «in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza. Un'inchiesta per corruzione impone massima attenzione e cautela».
Sul caso esce allo scoperto anche il premier Giuseppe Conte: «Il contratto di governo contiene un codice etico in base al quale non possono essere ministri e sottosegretari imputati per fatti gravi, e la corruzione lo è. È vero che siamo nel pieno delle investigazioni, ma è anche vero che questo governo ha l'obiettivo di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, quindi ha un alto tasso di eticità. Parlerò con il diretto interessato, a cui voglio chiedere alcune cose. Poi esprimerò una valutazione».
Il premier sta in equilibrio, gli altri no. A costo di uno show down politico, le parole di Siri non scalfiscono l'alleato governativo della Lega. È lapidario Di Maio nel suo processo alle intenzioni. «Gli auguro di risultare innocente e siamo pronti a riaccoglierlo nel governo quando la sua posizione sarà chiarita. Non so se Matteo Salvini sarà d'accordo con questa mia linea intransigente, ma è mio dovere tutelare l'esecutivo e l'integrità delle istituzioni. Un sottosegretario indagato per vicende legate alla mafia è un fatto grave. Non è più una questione tecnica e giuridica, ma morale e politica». Per la verità il capo di imputazione non ha nessun aggancio con la criminalità organizzata, ma nel minestrone pentastellato tutto fa brodo. La posizione sul Piave è tenuta da tutti e i distinguo sono vietati. Roberta Lombardi, capogruppo 5 stelle alla Regione Lazio: «Sarebbe opportuno un passo indietro, bisogna che i politici non solo siano innocenti ma appaiano anche innocenti. Vale per noi e per le altre forze politiche. Su Salvini (per la vicenda Diciotti, ndr) non abbiamo insistito per le dimissioni? Io sì, ma gli iscritti hanno deciso in altra maniera e noi, essendo portavoce, ne rispettiamo la volontà».
La fibrillazione è forte, anche perché la Lega non sta a guardare e individua subito il punto debole dove contrattaccare: il caso Virginia Raggi. Quelle intercettazioni imbarazzanti, quelle richieste di correggere il bilancio (così dice l'ex ad Lorenzo Bagnacani), sembrano perfette per far intravede altri chiodi pre pasquali nel campo avverso. Anzi, nell'altro angolo del campo alleato, neanche fosse un ring. «Piena fiducia a Siri», esordisce Salvini che si augura «indagini veloci per non lasciare nessuna ombra. Lo conosco, lo stimo, non ho dubbi: peraltro stiamo parlando di qualcosa che non è finito neanche nel Def. C'è solo un'iscrizione nel registro degli indagati e solo se sarà condannato dovrà mettersi da parte. Non si deve dimettere. Non ho mai chiesto di far dimettere Virginia Raggi per due anni sotto inchiesta o parlamentari 5 stelle indagati».
Non l'ha mai chiesto prima, ma un ministro della Lega, Erika Stefani (Affari regionali) lo ha ufficialmente chiesto ieri qualche ora dopo l'irrigidimento dei pentastellati su Siri e l'uscita delle rivelazioni dell'Espresso sul sindaco di Roma. «Se il contenuto delle intercettazioni del sindaco Raggi corrispondesse al vero sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento 5 stelle ci aspettiamo le sue immediate dimissioni». Anche Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica amministrazione, va giù decisa: «Stupisce il giustizialismo a intermittenza con il quale vengono valutate dai 5 stelle le diverse vicende giudiziarie a seconda dell'appartenenza politica del soggetto indagato». Muove bianco, muove nero. La partita a scacchi continua, anche se le regole sembrano più quelle del poker.
Giorgio Gandola
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Riduci
Il sottosegretario indagato per corruzione: tangenti in cambio di modifiche alle norme sull'eolico? La difesa: «È una follia».L'ex ad dell'azienda rifiuti attacca il sindaco Virginia Raggi: «Licenziato perché non truccai i bilanci». Il Carroccio: «Ormai è inadeguata». E blocca la norma che salva il debito della capitale.Il capo grillino chiede il passo indietro immediato al senatore ligure: «Conviene all'immagine del suo partito». E subito Danilo Toninelli gli toglie le deleghe. Anche Giuseppe Conte severo: «Parlerò con lui, fatto grave». Il segretario lumbard fa scudo: «Va via solo se condannato».Lo speciale contiene tre articoliIn una chiacchierata tra un lobbista dell'eolico e suo figlio spunta il nome del sottosegretario leghista alle Infrastrutture Armando Siri. Si parla di una mazzetta da 30.000 euro che al momento non si sa se è stata solo promessa o consegnata. Ma potrebbe anche trattarsi semplicemente di una intenzione del protagonista di questa storia, il docente universitario Paolo Arata, genovese come Siri, 68 anni, ex deputato di Forza Italia e, nel 1994, presidente del Comitato interparlamentare per lo sviluppo sostenibile, amministratore della Etnea Srl, della Alqantarea Srl, dominus della Solcara Srl (amministrata dal figlio Francesco) e della Solgesta Srl (amministrata dalla moglie Alessandra Rollino). Il professore, stando a quanto emerge dall'inchiesta delle Procure di Roma e Palermo, ha parlato della mazzetta per Siri con suo figlio in auto e l'audio della chiacchierata è molto disturbato. Il sottosegretario è stato anche intercettato indirettamente, ma l'uso delle conversazioni che lo riguardano, essendo senatore, dovrà essere autorizzato da Palazzo Madama, sempre che i pm lo richiedano.Una cosa è certa: gli ipotizzati aiuti per modificare una norma da inserire in un documento programmatico che avrebbe favorito l'erogazione di contributi per le imprese del mini eolico non sono andati a buon fine. Addirittura non sono mai stati neanche presentati ufficialmente. Da provare, invece, c'è l'accusa di corruzione, avanzata dalla Procura di Roma in base agli atti arrivati a Piazzale Clodio da Palermo. Le carte sono partite dalla Sicilia subito dopo gli accertamenti, svolti dalla Direzione investigativa antimafia di Trapani per conto dei magistrati palermitani, su un imprenditore che da un anno è agli arresti domiciliari, Vito Nicastri. Secondo gli investigatori sarebbe uno dei finanziatori della latitanza del super boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Un nome che, appena è stato battuto dalle agenzie di stampa accanto a quello di Siri, ha scatenato gli istinti forcaioli pentastellati.Il sottosegretario famoso per la flat tax, diventato di colpo sulla stampa il protagonista dell'inchiesta, ha provato a difendersi: «Non so se ridere o piangere. Io non mi sono mai occupato di eolico in tutta la mia vita. Sono senza parole, siamo alla follia». E stando solo al capo d'imputazione, contenuto nel decreto di perquisizione che gli hanno notificato i magistrati, è difficile comprendere in modo pieno cosa sia successo. Stando agli atti, il professore Arata, che nel luglio 2017 intervenne a un convegno della Lega a Piacenza (il video è sul canale Youtube di Salvini) e che la scorsa estate si è fermato a un passo dalla presidenza dell'Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente, avrebbe «stimolato» Siri (del quale, si sostiene, sia uno sponsor politico) «a promuovere l'inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare (decreto interministeriale in materia di incentivazione dell'energia elettrica da fonte rinnovabile) e di iniziativa governativa di rango legislativo (legge Milleproroghe, legge di Stabilità, legge di Semplificazione) una modifica degli incentivi connessi al mini eolico». Gli investigatori hanno in mano gli incontri tra gli indagati, seguiti e fotografati, e le tracce dell'attività istituzionale di Siri che, stando all'accusa, avrebbe lavorato per l'approvazione delle norme, così come emerge, però, solo da ulteriori conversazioni che Arata ha intrattenuto con i suoi familiari e con altre persone coinvolte.Nicastri, magnate trapanese dell'eolico, che secondo gli investigatori era in contatto con Arata, si è visto aggravare la misura cautelare che lo aveva già ristretto ai domiciliari con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e fittizia intestazione di beni. Il «Signore del vento», come lo definì il Financial times, è stato riportato in carcere, perché nonostante una confisca da un miliardo di euro, da casa, tramite un parente, riusciva ancora a macinare soldi. Al centro dell'inchiesta ci sono una serie di permessi gestiti dalla Regione Sicilia per un giro d'affari stimato in 10 miliardi di euro. È in Sicilia che il professore genovese e Nicastri avrebbero fatto affari. «È emerso che Arata ha trovato interlocutori all'interno dell'assessorato all'Energia, tra tutti l'assessore Alberto Pierobon, grazie all'intervento di Gianfranco Micciché (presidente dell'Ars, ndr), a sua volta contattato da Alberto Dell'Utri (fratello di Marcello ndr)». E, così, Arata avrebbe dimostrato di essere uno che conta nelle istituzioni siciliane. Gli indagati di questo filone, che è una tranche dell'inchiesta sull'imprenditore Francesco Isca, socio di Nicastri e considerato dai magistrati siciliani in odore di mafia, sono nove. Tra gli indagati c'è anche il figlio di Arata, che si era trasferito in Sicilia per curare i rapporti con la famiglia Nicastri, in particolare con il figlio del manager arrestato, Manlio, indagato pure lui per intestazione fittizia di beni. È a questo punto che nella ricostruzione dei magistrati fa capolino il leghista Siri, nella sua «duplice veste di senatore della Repubblica e sottosegretario alle Infrastrutture» avrebbe asservito «le sue funzioni e i suoi poteri a interessi privati». Il progetto dei lobbisti era questo: bisognava trovare tramite Siri una strada legislativa per far retroagire al momento della costituzione di una delle società di Arata e Nicastri (senza che il segretario fosse peraltro a conoscenza del rapporto tra i due) la data utile per accedere ai contributi economici. 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E il ministro degli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, lo ha fatto pesare non poco: «Se il contenuto delle intercettazioni del sindaco corrispondesse al vero, sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento ci aspettiamo le sue immediate dimissioni». E tutto questo proprio nel giorno dell'inchiesta su Siri, con Matteo Salvini che in mattinata aveva pure ricordato di non aver chiesto le dimissioni del primo cittadino neanche durante la bufera sull'affare dello stadio della Roma. Insomma, i pentastellati erano pronti a fare la voce grossa con l'alleato, ma si sono trovati con un nuovo problemone in casa. È l'ex presidente e amministratore delegato della municipalizzata dei rifiuti, Lorenzo Bagnacani, ad accusare la Raggi di aver fatto pressioni indebite su di lui e sull'intero consiglio d'amministrazione dell'azienda, «finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell'Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali». Crediti che, secondo l'ex manager, erano certi, liquidi ed esigibili. L'unico obiettivo, secondo Bagnacani, era quello di portare i conti di Ama in rosso e, così facendo, aprire la strada per la privatizzazione. Sono queste le ragioni alla base dell'esposto alla magistratura. E, addirittura, spuntano delle registrazioni e delle chat nelle quali il sindaco chiede a Bagnacani di taroccare il bilancio, mettendosi contro il collegio sindacale. Il manager, però, si rifiuta: «Virginia, non possiamo fare quello che non è possibile fare». In una successiva conversazione, il sindaco rincara la dose: «I romani oggi si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così. Quando ai romani gli dico sì la città è sporca però vi aumento la Tari... ma io scateno, cioè mettono la città a ferro e fuoco altro che gilet gialli». E ancora: «Cambia il bilancio anche se ti dicono che la luna è piatta». Stando alle nuove rivelazioni il primo cittadino usa toni poco concilianti con il manager: «Non devi valutare, se il socio ti chiede di fare una modifica lo devi fare». E in un altro passaggio della telefonata: «Tu mi devi dare una mano Lorenzo, così non mi stai aiutando io ho la città che è praticamente fuori controllo i sindacati che fanno quel cazzo che vogliono io non riesco ad arrivare». L'audio di questa conversazione risale al 30 ottobre scorso e risulta allegato all'esposto presentato da Bagnacani in Procura. L'inchiesta è quella sulla mancata chiusura del bilancio 2017 della partecipata dei rifiuti del Campidoglio. La storia si è chiusa nel peggiore dei modi: Bagnacani è stato licenziato in tronco dalla Raggi nei primi giorni di febbraio 2018. Il sospetto è che sia stato silurato per ritorsione, proprio per aver detto no alla sindaca. «Nessuna pressione», replicano dal Campidoglio, sottolineando che «il bilancio proposto da Bagnacani prevedeva premi per lui e per i dirigenti». Sarà la Procura di Roma a stabilire se sono stati commessi dei reati. Il Carroccio, però, affonda ancora il colpo. L'Ansa, non smentita, in serata rilancia la richiesta da parte leghista di stralciare dal decreto Crescita le norme sul debito della capitale, 12 miliardi, che in teoria dovrebbe passare in gran parte sul bilancio dello Stato.Fabio Amendolara <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accusa-al-leghista-siri-prese-30-000-euro-per-aiutare-le-aziende-vicine-al-boss-denaro-2634999340.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="di-maio-e-salvini-alla-guerra-delle-dimissioni" data-post-id="2634999340" data-published-at="1765481779" data-use-pagination="False"> Di Maio e Salvini alla guerra delle dimissioni Serve qualcuno da mettere in croce. Sarà la narrazione evangelica di queste ore, sarà la marcia di avvicinamento alle europee, ma Luigi Di Maio non intende fare sconti e prepara i chiodi per Armando Siri, sottosegretario ai Trasporti della Lega indagato per corruzione. «Sarebbe opportuno che si dimettesse. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l'immagine della Lega», dichiara dopo i primissimi lanci di agenzia. Il vicepremier dei 5 stelle, in passato più volte spiazzato dalle impennate giustizialiste della base, in questo caso cavalca l'indignazione anche per non farsi zittire dal tintinnio di manette di colleghi politicamente con le mani più libere delle sue. Questo anche se l'accusa è nebulosa, se i 30.000 euro di cui si parla in un'intercettazione di terzi sarebbero un'ipotesi e se l'emendamento alla base della presunta mazzetta non è neppure stato inserito in un dispositivo di legge. Siri si difende respingendo le accuse, prima con sarcasmo («Siamo alla follia, non so di cosa si tratti»), poi argomentando: «Non ho fatto niente di male, sicuramente non c'entro niente con vicende che possano avere risvolti penali. Ho letto nomi che non so, respingo categoricamente le accuse. Mi sono sempre comportato nel rispetto delle leggi, non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette. Chiederò di essere ascoltato dai magistrati e se qualcuno mi ha accusato di condotte ignobili non esiterò a denunciarlo. Non ho ragioni per dimettermi». Ma la preda è troppo ghiotta, la faccenda è perfetta per essere cavalcata nei talk show televisivi dal Movimento 5 stelle a caccia di consenso elettorale per recuperare punti sul debordante Matteo Salvini. E, quasi fosse una gara a chi prende di più le distanze, ecco il ministro Danilo Toninelli togliere immediatamente le deleghe (tra le quali spicca il caldissimo dossier Alitalia) a Siri, «in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza. Un'inchiesta per corruzione impone massima attenzione e cautela». Sul caso esce allo scoperto anche il premier Giuseppe Conte: «Il contratto di governo contiene un codice etico in base al quale non possono essere ministri e sottosegretari imputati per fatti gravi, e la corruzione lo è. È vero che siamo nel pieno delle investigazioni, ma è anche vero che questo governo ha l'obiettivo di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, quindi ha un alto tasso di eticità. Parlerò con il diretto interessato, a cui voglio chiedere alcune cose. Poi esprimerò una valutazione». Il premier sta in equilibrio, gli altri no. A costo di uno show down politico, le parole di Siri non scalfiscono l'alleato governativo della Lega. È lapidario Di Maio nel suo processo alle intenzioni. «Gli auguro di risultare innocente e siamo pronti a riaccoglierlo nel governo quando la sua posizione sarà chiarita. Non so se Matteo Salvini sarà d'accordo con questa mia linea intransigente, ma è mio dovere tutelare l'esecutivo e l'integrità delle istituzioni. Un sottosegretario indagato per vicende legate alla mafia è un fatto grave. Non è più una questione tecnica e giuridica, ma morale e politica». Per la verità il capo di imputazione non ha nessun aggancio con la criminalità organizzata, ma nel minestrone pentastellato tutto fa brodo. La posizione sul Piave è tenuta da tutti e i distinguo sono vietati. Roberta Lombardi, capogruppo 5 stelle alla Regione Lazio: «Sarebbe opportuno un passo indietro, bisogna che i politici non solo siano innocenti ma appaiano anche innocenti. Vale per noi e per le altre forze politiche. Su Salvini (per la vicenda Diciotti, ndr) non abbiamo insistito per le dimissioni? Io sì, ma gli iscritti hanno deciso in altra maniera e noi, essendo portavoce, ne rispettiamo la volontà». La fibrillazione è forte, anche perché la Lega non sta a guardare e individua subito il punto debole dove contrattaccare: il caso Virginia Raggi. Quelle intercettazioni imbarazzanti, quelle richieste di correggere il bilancio (così dice l'ex ad Lorenzo Bagnacani), sembrano perfette per far intravede altri chiodi pre pasquali nel campo avverso. Anzi, nell'altro angolo del campo alleato, neanche fosse un ring. «Piena fiducia a Siri», esordisce Salvini che si augura «indagini veloci per non lasciare nessuna ombra. Lo conosco, lo stimo, non ho dubbi: peraltro stiamo parlando di qualcosa che non è finito neanche nel Def. C'è solo un'iscrizione nel registro degli indagati e solo se sarà condannato dovrà mettersi da parte. Non si deve dimettere. Non ho mai chiesto di far dimettere Virginia Raggi per due anni sotto inchiesta o parlamentari 5 stelle indagati». Non l'ha mai chiesto prima, ma un ministro della Lega, Erika Stefani (Affari regionali) lo ha ufficialmente chiesto ieri qualche ora dopo l'irrigidimento dei pentastellati su Siri e l'uscita delle rivelazioni dell'Espresso sul sindaco di Roma. «Se il contenuto delle intercettazioni del sindaco Raggi corrispondesse al vero sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento 5 stelle ci aspettiamo le sue immediate dimissioni». Anche Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica amministrazione, va giù decisa: «Stupisce il giustizialismo a intermittenza con il quale vengono valutate dai 5 stelle le diverse vicende giudiziarie a seconda dell'appartenenza politica del soggetto indagato». Muove bianco, muove nero. La partita a scacchi continua, anche se le regole sembrano più quelle del poker. Giorgio Gandola
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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