2019-05-27
Zucconi, il narratore di giornalismo
È morto a 74 anni nella sua casa di Washington. Ruggente e fazioso, raccontava storie prima che lo storytelling diventasse di moda. Sapeva però anche essere umile cronista.«Siamo solo l'ultimo articolo che abbiamo scritto». Ripeteva la frase come un rito di fine cena, un limoncello di parole, anche perché sapeva perfettamente che non lo riguardava. Negli anni d'oro dei giornali di carta non c'era collega o aspirante tale che non ritagliasse e attaccasse alla parete dietro la scrivania un motto o un intero papiro a ingiallire, con la sua firma sotto. Vittorio Zucconi. Ma il senso di quella frase è anche il nocciolo duro di una professione che tutte le mattine ricomincia dal foglio o dallo schermo bianco, con cento metri da percorrere e una notizia in più da dare allo sparo dello starter.Uno degli ultimi venerabili maestri se n'è andato a 74 anni nella sua casa di Washington, dove si era stabilito definitivamente, portato via da una lunga malattia durante la quale non ha mai smesso di rifornire Twitter con i suoi giudizi fulminanti sui due temi che più gli stavano a cuore: i pasticci del Movimento 5 stelle e le peripezie del suo Milan. Grande affabulatore, prestigiatore della metafora, era l'esatto contrario di ciò che insegnava Dino Buzzati quando teorizzava: «Racconta, non fare il furbo». Perché a Zucconi non bastava raccontare, lui amava interpretare. E facendolo, arrivava con ineguagliabile maestria sulla soglia della sceneggiatura cinematografica degli avvenimenti. Qualche volta andava oltre, come nel 1989 quando descrisse Boris Eltsin in visita negli Stati Uniti come un alcolizzato in cerca di whisky nei supermarket (titolo di La Repubblica «La glasnost al bourbon»). Il problema fu che la Pravda riprese l'articolo, l'eco della vicenda diventò mondiale ed Eugenio Scalfari dovette scusarsi con l'ambasciatore.Zucconi nasce a Bastiglia (Modena) nel 1944 ed è un predestinato. Non solo perché suo padre Guglielmo è direttore di giornali (La Domenica del Corriere, Amica, Il Giorno), ma perché quando si trasferisce a Milano con la famiglia firma la storica Zanzara, rivista del liceo Parini, e convince Walter Tobagi a scriverci sopra. L'imprinting è decisivo, in 40 anni lavora per La Notte, Il Corriere della Sera, La Stampa e soprattutto La Repubblica. Ex direttore del sito e di Radio Capital, è noto per le corrispondenze da Mosca, Parigi, Tokyo, New York, Washington. In America trova la sua seconda patria, una miniera professionale, un mondo da raccontare con gli occhiali del progressista dem, ferocemente contrario a ogni repubblicano che passasse nei paraggi (da Ronald Reagan alla dinastia Bush per non parlare di Donald Trump) ma neppure indulgente con il pensiero debole da cocktail della banda Clinton e di Barack Obama. Zucconi era uno storyteller prima che lo storytelling diventasse di moda. Era un juke box di storie e bastava osservare la sua scrivania americana per sapere da dove le attingeva: non solo dalle fonti privilegiate, ma anche dai giornali locali del Midwest, dalle risposte ai lettori delle riviste di gossip, da una battuta buttata lì durante un vernissage. Grazie alla sua scrittura, ogni banalità diventava oro. Elezioni americane, reportage in fondo a sinistra, avvenimenti sportivi: non si è mai risparmiato e avrebbe scritto anche quattro pezzi al giorno. Non era mai un problema. Alle olimpiadi di Sydney nel 2000 diede una lezione a tutti. Quando Pierpaolo Ferrazzi (detto Patata per via del naso non propriamente affilato) prese il bronzo nel kayak, a telefonare in sala stampa le sue prime parole fu lui, unico giornalista italiano a sobbarcarsi il viaggio oltre le terre dei Cherokee per vedere la gara. Il numero uno sapeva essere umile cronista. Non si è mai risparmiato, ma detestava le interviste. E spiegava così la sua diffidenza per il genere: «Fai solo fare bella figura a gente mediocre che il giorno prima non si fa trovare e il giorno dopo non ti ringrazia neppure». Ruggente e fazioso da non aver bisogno di nascondersi dietro gli equilibrismi infantili della categoria, seguendo l'onda repubblichina era antiberlusconiano viscerale. A tal punto da dire: «Ha pure la colpa di non avermi fatto godere fino in fondo i trionfi del Milan». Ha scritto tanti libri, due dei quali imperdibili: Le Città del Sogno, guida alternativa alle metropoli americane per i mondiali di calcio del 1994 e Gli Spiriti non dimenticano, biografia di Crazy Horse, sinfonia dell'epopea Sioux più romantica di Balla coi lupi.Se ne va un grande. È accompagnato dal suo monito preferito, una frase da scettico blu che oggi tanti galli da web o da talk show dovrebbero imparare a memoria. «Quando qualcuno deluso da una mancata promozione, da un pezzo malriuscito, da un turno sfinente in redazione ti dice che ha dato la vita al giornalismo non crederci. Stronzate. È il giornalismo ad avergli, e ad averci, dato una vita».