2024-05-03
Zero aggravanti ai genitori di Saman. «Per loro cultura, logico ucciderla»
La ragazza fu assassinata dai suoi poiché voleva andarsene di casa e ciò avrebbe disonorato la famiglia. Nelle motivazioni della sentenza i giudici scrivono: «Va tenuto conto del contesto sociale del reo». C’è un passaggio nelle 612 pagine della sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Reggio Emilia argomentano la scelta di condannare all’ergastolo padre e madre di Saman Abbas, la diciottenne assassinata la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 a Novellara, a 16 anni lo zio (che poi ha collaborato indicando il luogo dove aveva nascosto il cadavere) e di assolvere i due cugini, che appare come una breccia in quello che i giuristi chiamano lo «sbarramento invalicabile». Si tratta di un principio giuridico che sbarra la strada all’introduzione di consuetudini, prassi e costumi che possano mettere in pericolo o danneggiare i diritti inviolabili della persona. I giudici di Reggio Emilia (presidente Cristina Beretti, estensore Michela Caputo), in sostanza, hanno escluso le aggravanti dei motivi abietti o futili specificando che «bisogna tener conto anche della cultura del reo e del suo contesto sociale di riferimento, del momento in cui si sono verificati i fatti, dei possibili fattori ambientali che possono aver determinato la condotta». La Corte spiega che «occorre ancorarsi agli elementi concreti tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale e del particolare momento in cui il fatto si è verificato, nonché dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa». Per i giudici di Reggio Emilia, insomma, gli imputati vanno condannati alla massima pena per aver commesso il delitto ma senza le aggravanti invocate dalla Procura. Saman, secondo le toghe, non sarebbe stata uccisa per essersi opposta, come sostenevano i pm, a un matrimonio forzato (per la Corte si tratta «di un elemento che nulla toglie e aggiunge alla gravità del fatto»), ma perché voleva lasciare la famiglia per vivere con il fidanzato. «Ciò che contava» per la famiglia della ragazza, è l’argomentazione delle toghe, «era dissuaderla dall’andare nuovamente via di casa, non chi si sposasse». Sarebbe la fuga la chiave del movente, comportamento ritenuto «grave per la loro cultura». «Individuato il motivo che ha mosso gli imputati a commettere l’omicidio», spiegano i giudici, «occorre ora chiarire perché lo stesso, secondo la Corte d’Assise, non possa reputarsi abietto o futile, nell’accezione tecnico-giuridica». E la spiegazione è questa: «È indiscusso che non sussista in Pakistan una norma giuridica che autorizzi o vincoli a condotte siffatte, che peraltro da pochi anni (solo dal 2016) sono anche lì espressamente sanzionate. Tuttavia resta un drammatico dato di fatto, quello secondo cui la pratica dei delitti d’onore rappresenta un fenomeno endemico nel Paese, che conta il numero pro capite più elevato al mondo dì delitti d’onore documentati». Il «così fan tutti» alla pakistana, quindi, escluderebbe, secondo i giudici di Reggio Emilia, le due aggravanti. Secondo la Corte, «il ritratto» del nucleo familiare di Saman sarebbe «certamente chiuso in se stesso, legato a retaggi e tradizioni propri del Paese d’origine, e del tutto impermeabile alla realtà esterna». Inoltre, «il livello di integrazione degli imputati nel contesto sociale e culturale italiano deve reputarsi prossimo allo zero». Il percorso fatto dai giudici sembra questo: siccome in Pakistan è prassi assassinare una ragazza che va via di casa con il fidanzato e gli Abbas non erano integrati le aggravanti diventano carta straccia. I giudici ritengono i tre familiari, la mamma di Saman, il marito Shabbar Abbas e suo fratello Danish Hasnain «pienamente parimenti coinvolti» nell’omicidio e «compartecipi della sua realizzazione», ma ridimensionano la ricostruzione della Procura e bacchettano i media «che avrebbero enfatizzato e distorto la vicenda). Demoliti anche personaggi significativi per gli inquirenti, come il fratellino della vittima che aveva accusato i familiari (bollato come «inattendibile» per i suoi 120 non ricordo) e anche il fidanzato (il cui «legame sentimentale nei confronti della vittima» non sarebbe «di qualità e intensità tale» da permettere di considerarlo «un congiunto»). Forse lo zio scavò la buca poco prima e i genitori accompagnarono la ragazza a morire. Non è chiaro chi fece cosa: «Non ci sono elementi per dire che lo zio da solo abbia eseguito l’azione». Nazia potrebbe averla tenuta ferma, oppure potrebbe essere stata lei direttamente a strangolare Saman. Spiegano i giudici: «La circostanza che Nazia scompaia dalla vista delle telecamere per un minuto, con Saman ancora in vita, non consente di escludere con certezza che anche lei abbia fattivamente partecipato all’azione omicidiaria [...] o che sia stata direttamente, anche da sola, a servare la condotta materiale con cui si è determinata l’asfissia meccanica che ha condotto alla morte di Saman». L’unica certezza è che furono tutti e tre coinvolti «nella concatenazione di eventi che ha condotto all’uccisione». Giustificato perfino il viaggio dei genitori di Saman verso il Pakistan all’indomani della scomparsa, bollato come «un evento del tutto diverso da quello propugnato dall’accusa». E, secondo i giudici, sicuramente «non un viaggio programmano al fine di sfuggire alle conseguenze dell’omicidio già premeditato». E perfino il video del 29 aprile, quello che riprendeva zio e cugini con pale e badili, non dimostrerebbe nulla. la vita di Saman, scrive la Corte «non è stata solo spezzata ingiustamente e troppo presto, ma vissuta attorniata da affetti falsi e manipolatori, in una solitudine che lascia attoniti». Come le motivazioni della sentenza.
Edoardo Raspelli (Getty Images)
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
L'ex procuratore di Pavia Mario Venditti (Ansa)