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2023-11-19
Zelensky teme il golpe, l’Europa il salasso
Doveva essere il nuovo Churchill, ma ormai si sente più un Napoleone a Sant’Elena. Venerdì - ci informa Repubblica - Volodymyr Zelensky ha convocato la stampa e ha svelato i piani per l’ultima grande congiura del Cremlino: organizzare una «Maidan 3», con l’obiettivo di destituirlo. E di capovolgere il cambio di regime prodotto dalle manifestazioni che si svolsero a Kiev dal 21 novembre 2013 al 23 febbraio 2014, culminate con la cacciata del presidente vicino ai russi, Viktor Janukovyc. «Per loro Maidan è un colpo di Stato», ha commentato l’ex comico, «quindi l’operazione è comprensibile». Il leader della resistenza teme - stando a uno dei fondatori del battaglione Azov - che i suoi giorni al potere siano «praticamente finiti». Non a caso, terrà chiuse le urne elettorale. E il suo senso di accerchiamento può tradursi in un’ulteriore involuzione autoritaria.
Zelensky ha già liquidato vari funzionari e vertici militari, è ai ferri corti con il capo delle forze armate, Valery Zaluzhny, il quale ha ammesso le difficoltà al fronte, e percepisce che il consenso tra i coscritti e la popolazione si sta erodendo. Intanto, l’entusiasmo di Washington si raffredda. Le munizioni promesse dall’Europa non arrivano. E le consegne di armamenti sono ulteriormente rallentate, da quando è scoppiata la guerra in Medio Oriente. I nervi dell’eroe che rifiutò la fuga davanti ai tank nemici, ora, si stanno spezzando. L’ha raccontato all’Economist il suo entourage: il presidente ha una fede messianica nella vittoria finale e si rifiuta di sentire dai consiglieri che gli ucraini, sul terreno, stanno perdendo.
Le conseguenze della débâcle minacciano di ripercuotersi sul Vecchio continente. Ironia della sorte, giusto l’altro ieri, un portavoce di Charles Michel ha riferito che il numero uno del Consiglio Ue, la settimana prossima, visiterà il Paese aggredito, per commemorare gli eventi di Euromaidan. Basta che arrivi prima degli agenti di Vladimir Putin…
La scelta di Michel va letta in parallelo con un’affermazione di Josep Borrell, l’Alto rappresentante di Bruxelles: «Noi europei», ha detto sabato scorso, «dobbiamo essere pronti politicamente e materialmente ad aiutare l’Ucraina e persino a sostituirci agli Stati Uniti se, come forse è probabile, il loro sostegno dovesse diminuire».
Invero, sul piano dell’assistenza finanziaria, l’Unione fa già la parte del leone. Il rischio concreto è che ci dovremo sobbarcare altresì il peso delle forniture belliche, sulle quali il nostro contributo, rispetto a quello della Casa Bianca, è stato marginale. Checché ne pensi Borrell, i mezzi non li abbiamo. Non li ha nemmeno l’America. Ogni mese, gli Usa fabbricano 28.000 munizioni in calibro 155, quelle di cui gli ucraini hanno disperatamente bisogno per alimentare l’artiglieria. È poco più del numero di proiettili sparati dai cannoni di Putin ogni 24 ore, nel primo anno del conflitto. Anche gli arsenali dello zar si sono ridotti, ma l’industria russa è tutta concentrata sulla produzione militare. E adesso conta sulla collaborazione della Corea del Nord, autocrazia a esclusiva vocazione marziale.
Il bandolo della matassa l’ha indicato un editoriale del Wall Street Journal. Lucidamente, il quotidiano conservatore invita ad «abbandonare il pensiero magico» sul sicuro trionfo ucraino. Né la controffensiva, né una presunta crisi economica in Russia, né le sanzioni, neppure il tentato golpe della Wagner si sono rivelati decisivi. Come deve comportarsi l’Occidente? Su X, Andrew S. Weiss, uno degli analisti che hanno vergato l’articolo, ha spiegato che bisognerà dare una mano a Kiev a «navigare verso il posto che le spetta di diritto in Europa», impegnandosi a soddisfare i suoi «bisogni di sicurezza e uno sforzo di ricostruzione che costituirà un’impresa lunga generazioni».
Ecco. La direzione di Washington rimarrebbe. Però il fardello si sposterebbe sull’Ue. Il conto per allargare il club dei 27 agli ucraini ammonta a 186 miliardi in sette anni. Dopodiché, appunto, ci sarà un’intera nazione da rimettere in piedi. È complicato l’ingresso di Kiev nella Nato, i cui esponenti hanno suggerito che un tentativo ragionevole sarebbe cedere a Mosca le zone occupate, in cambio dell’entrata del resto dell’Ucraina nell’Alleanza. L’alternativa più plausibile è che siano proprio gli Stati del Vecchio continente a garantire un ombrello difensivo; è lo stesso Trattato di Lisbona a imporre ai partner Ue la mutua assistenza in caso di attacco.
Dopo 634 giorni di combattimenti e centinaia di migliaia di morti, l’Europa s’è fatta un bell’autogol. Si ritroverà un conto salatissimo e un arcinemico da tenere sotto tiro.
I parenti dei rapiti a Gerusalemme: «Pronti a marciare fino a Gaza»
La marcia per chiedere a gran voce al governo israeliano di fare di più per ottenere la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas si è conclusa ieri nel tardo pomeriggio a Gerusalemme. Partiti martedì scorso da Tel Aviv, dopo 63 chilometri percorsi a piedi, i familiari uniti a migliaia di persone, tra cui il leader dell’opposizione Yair Lapid, si sono radunati fuori dal gabinetto di guerra dell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, a cui è stato chiesto di compiere ogni sforzo per far tornare a casa i propri cari. A qualunque condizione. Secondo quanto scritto dalla stampa israeliana, una delegazione è riuscita a ottenere un colloquio con l’ex capo dell’esercito Benny Gantz e l’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot, nominati membri del governo di emergenza nazionale dopo i fatti del 7 ottobre. Quest’ultimo ha rassicurato i familiari dicendo loro che «la liberazione degli ostaggi è prioritaria rispetto alla distruzione di Hamas». La richiesta di incontrare Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant e quello degli Affari strategici Ron Dermer, invece, sarebbe stata rifiutata. Il premier israeliano ha fatto poi sapere che nei prossimi giorni riceverà i rappresentanti delle persone sequestrate da Hamas. Familiari per nulla soddisfatti della gestione della crisi, al punto da «essere disposti ad arrivare fino a Gaza se dovesse servire», ha urlato la madre di un ostaggio sotto l’ufficio di Netanyahu. Il premier in serata si è palesato in conferenza stampa affermando di «essere determinato a combattere fino alla vittoria, fino a quando Israele avrà distrutto il nemico e recuperato gli ostaggi» e smentendo qualsiasi accordo coi terroristi. Dalla Germania, poco prima di far rientro in Turchia, è tornato sulla questione Recep Tayyip Erdogan. Secondo il leader di Ankara, che ha detto di aver ricevuto una lettera con cui le famiglie dei rapiti chiedono al suo governo di mediare nella trattativa con i terroristi, «Hamas è disposta a liberare gli ostaggi israeliani».
E non è mancata nemmeno questa volta una stilettata allo Stato ebraico: «Noi non vogliamo che ci siano ostaggi, ma dobbiamo guardare da entrambe le parti e Israele ha tantissimi palestinesi in carcere, tra cui bambini di cinque anni» - ha tuonato il presidente turco - «gli ostaggi israeliani sarebbero stati già liberati se il loro esercito non avesse bombardato indiscriminatamente». A questo va aggiunta la volontà della Turchia di denunciare eventuali crimini di guerra commessi da Israele: «Ricostruiremo Gaza e dopo agiremo in tutte le sedi opportune. Tutti parlano dei civili israeliani uccisi ma purtroppo sono stati uccisi 13.000 civili innocenti palestinesi».
Quello degli ostaggi continua a essere un tema chiave nell’ambito del conflitto, giunto al 44° giorno. Ieri, l’inviato per il Medio Oriente del governo americano, Brett McGurk, ha affermato durante una conferenza sulla sicurezza che si è svolta a Manama in Bahrain, che «qualora Hamas rilasciasse gli ostaggi, questo porterebbe a una pausa significativa nei combattimenti e a un aumento nella quantità degli aiuti umanitari consegnati alla popolazione della Striscia». Sulla questione è intervenuto direttamente anche Joe Biden. Il presidente americano, stando a quanto si legge su un post pubblicato sul social X dalla Casa Bianca, ha telefonato all’emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad Al-Thani, per «discutere dell’urgente necessità che tutti gli ostaggi detenuti da Hamas vengano rilasciati senza ulteriori indugi». A Doha ieri è sbarcato, con l’obiettivo di contribuire alla mediazione per il rilascio degli ostaggi, tra cui se ne contano 8 francesi, il ministro delle Forze armate transalpino Sebastien Lecornu.
Nel frattempo, però, a Gaza si continua a combattere e non mancano gli episodi controversi e relativi rimpalli di responsabilità. L’Idf ha avviato un’indagine per chiarire quanto accaduto alla scuola di al Fakhoura, luogo usato come rifugio dagli sfollati, dove ci sono state oltre 50 vittime. A Nablus, in Cisgiordania, in un raid aereo sul campo profughi di Balata, sono morti 5 palestinesi, tra cui l’esponente di spicco della brigata dei Martiri di al Aqsa, Muhammad Zahed. E mentre l’esercito israeliano ha deciso di allargare le operazioni militari nel Nord della Striscia, in particolare nelle aree di Zaitun e Jabalya, dove si ritiene ci sia il comando e il centro di controllo della brigata Nord di Gaza, oltre a quattro battaglioni operativi di Hamas, a Gaza City si intensifica la pressione attorno a tre ospedali.
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Nervi tesi per il presidente ucraino, alle prese con le sconfitte sul campo e convinto che la Russia presto proverà a destituirlo. Insuccessi che rischia di pagare l’Ue, la quale sogna di sostituirsi agli Usa negli aiuti militari accollandosi spese insostenibili.A Gaza raid dell’Idf su una scuola a Jabalya. Benjamin Netanyahu: «Nessun accordo sugli ostaggi».Lo speciale contiene due articoli.Doveva essere il nuovo Churchill, ma ormai si sente più un Napoleone a Sant’Elena. Venerdì - ci informa Repubblica - Volodymyr Zelensky ha convocato la stampa e ha svelato i piani per l’ultima grande congiura del Cremlino: organizzare una «Maidan 3», con l’obiettivo di destituirlo. E di capovolgere il cambio di regime prodotto dalle manifestazioni che si svolsero a Kiev dal 21 novembre 2013 al 23 febbraio 2014, culminate con la cacciata del presidente vicino ai russi, Viktor Janukovyc. «Per loro Maidan è un colpo di Stato», ha commentato l’ex comico, «quindi l’operazione è comprensibile». Il leader della resistenza teme - stando a uno dei fondatori del battaglione Azov - che i suoi giorni al potere siano «praticamente finiti». Non a caso, terrà chiuse le urne elettorale. E il suo senso di accerchiamento può tradursi in un’ulteriore involuzione autoritaria.Zelensky ha già liquidato vari funzionari e vertici militari, è ai ferri corti con il capo delle forze armate, Valery Zaluzhny, il quale ha ammesso le difficoltà al fronte, e percepisce che il consenso tra i coscritti e la popolazione si sta erodendo. Intanto, l’entusiasmo di Washington si raffredda. Le munizioni promesse dall’Europa non arrivano. E le consegne di armamenti sono ulteriormente rallentate, da quando è scoppiata la guerra in Medio Oriente. I nervi dell’eroe che rifiutò la fuga davanti ai tank nemici, ora, si stanno spezzando. L’ha raccontato all’Economist il suo entourage: il presidente ha una fede messianica nella vittoria finale e si rifiuta di sentire dai consiglieri che gli ucraini, sul terreno, stanno perdendo.Le conseguenze della débâcle minacciano di ripercuotersi sul Vecchio continente. Ironia della sorte, giusto l’altro ieri, un portavoce di Charles Michel ha riferito che il numero uno del Consiglio Ue, la settimana prossima, visiterà il Paese aggredito, per commemorare gli eventi di Euromaidan. Basta che arrivi prima degli agenti di Vladimir Putin…La scelta di Michel va letta in parallelo con un’affermazione di Josep Borrell, l’Alto rappresentante di Bruxelles: «Noi europei», ha detto sabato scorso, «dobbiamo essere pronti politicamente e materialmente ad aiutare l’Ucraina e persino a sostituirci agli Stati Uniti se, come forse è probabile, il loro sostegno dovesse diminuire».Invero, sul piano dell’assistenza finanziaria, l’Unione fa già la parte del leone. Il rischio concreto è che ci dovremo sobbarcare altresì il peso delle forniture belliche, sulle quali il nostro contributo, rispetto a quello della Casa Bianca, è stato marginale. Checché ne pensi Borrell, i mezzi non li abbiamo. Non li ha nemmeno l’America. Ogni mese, gli Usa fabbricano 28.000 munizioni in calibro 155, quelle di cui gli ucraini hanno disperatamente bisogno per alimentare l’artiglieria. È poco più del numero di proiettili sparati dai cannoni di Putin ogni 24 ore, nel primo anno del conflitto. Anche gli arsenali dello zar si sono ridotti, ma l’industria russa è tutta concentrata sulla produzione militare. E adesso conta sulla collaborazione della Corea del Nord, autocrazia a esclusiva vocazione marziale.Il bandolo della matassa l’ha indicato un editoriale del Wall Street Journal. Lucidamente, il quotidiano conservatore invita ad «abbandonare il pensiero magico» sul sicuro trionfo ucraino. Né la controffensiva, né una presunta crisi economica in Russia, né le sanzioni, neppure il tentato golpe della Wagner si sono rivelati decisivi. Come deve comportarsi l’Occidente? Su X, Andrew S. Weiss, uno degli analisti che hanno vergato l’articolo, ha spiegato che bisognerà dare una mano a Kiev a «navigare verso il posto che le spetta di diritto in Europa», impegnandosi a soddisfare i suoi «bisogni di sicurezza e uno sforzo di ricostruzione che costituirà un’impresa lunga generazioni». Ecco. La direzione di Washington rimarrebbe. Però il fardello si sposterebbe sull’Ue. Il conto per allargare il club dei 27 agli ucraini ammonta a 186 miliardi in sette anni. Dopodiché, appunto, ci sarà un’intera nazione da rimettere in piedi. È complicato l’ingresso di Kiev nella Nato, i cui esponenti hanno suggerito che un tentativo ragionevole sarebbe cedere a Mosca le zone occupate, in cambio dell’entrata del resto dell’Ucraina nell’Alleanza. L’alternativa più plausibile è che siano proprio gli Stati del Vecchio continente a garantire un ombrello difensivo; è lo stesso Trattato di Lisbona a imporre ai partner Ue la mutua assistenza in caso di attacco.Dopo 634 giorni di combattimenti e centinaia di migliaia di morti, l’Europa s’è fatta un bell’autogol. Si ritroverà un conto salatissimo e un arcinemico da tenere sotto tiro.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/zelensky-teme-golpe-europa-salasso-2666306686.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-parenti-dei-rapiti-a-gerusalemme-pronti-a-marciare-fino-a-gaza" data-post-id="2666306686" data-published-at="1700356028" data-use-pagination="False"> I parenti dei rapiti a Gerusalemme: «Pronti a marciare fino a Gaza» La marcia per chiedere a gran voce al governo israeliano di fare di più per ottenere la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas si è conclusa ieri nel tardo pomeriggio a Gerusalemme. Partiti martedì scorso da Tel Aviv, dopo 63 chilometri percorsi a piedi, i familiari uniti a migliaia di persone, tra cui il leader dell’opposizione Yair Lapid, si sono radunati fuori dal gabinetto di guerra dell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, a cui è stato chiesto di compiere ogni sforzo per far tornare a casa i propri cari. A qualunque condizione. Secondo quanto scritto dalla stampa israeliana, una delegazione è riuscita a ottenere un colloquio con l’ex capo dell’esercito Benny Gantz e l’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot, nominati membri del governo di emergenza nazionale dopo i fatti del 7 ottobre. Quest’ultimo ha rassicurato i familiari dicendo loro che «la liberazione degli ostaggi è prioritaria rispetto alla distruzione di Hamas». La richiesta di incontrare Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant e quello degli Affari strategici Ron Dermer, invece, sarebbe stata rifiutata. Il premier israeliano ha fatto poi sapere che nei prossimi giorni riceverà i rappresentanti delle persone sequestrate da Hamas. Familiari per nulla soddisfatti della gestione della crisi, al punto da «essere disposti ad arrivare fino a Gaza se dovesse servire», ha urlato la madre di un ostaggio sotto l’ufficio di Netanyahu. Il premier in serata si è palesato in conferenza stampa affermando di «essere determinato a combattere fino alla vittoria, fino a quando Israele avrà distrutto il nemico e recuperato gli ostaggi» e smentendo qualsiasi accordo coi terroristi. Dalla Germania, poco prima di far rientro in Turchia, è tornato sulla questione Recep Tayyip Erdogan. Secondo il leader di Ankara, che ha detto di aver ricevuto una lettera con cui le famiglie dei rapiti chiedono al suo governo di mediare nella trattativa con i terroristi, «Hamas è disposta a liberare gli ostaggi israeliani». E non è mancata nemmeno questa volta una stilettata allo Stato ebraico: «Noi non vogliamo che ci siano ostaggi, ma dobbiamo guardare da entrambe le parti e Israele ha tantissimi palestinesi in carcere, tra cui bambini di cinque anni» - ha tuonato il presidente turco - «gli ostaggi israeliani sarebbero stati già liberati se il loro esercito non avesse bombardato indiscriminatamente». A questo va aggiunta la volontà della Turchia di denunciare eventuali crimini di guerra commessi da Israele: «Ricostruiremo Gaza e dopo agiremo in tutte le sedi opportune. Tutti parlano dei civili israeliani uccisi ma purtroppo sono stati uccisi 13.000 civili innocenti palestinesi». Quello degli ostaggi continua a essere un tema chiave nell’ambito del conflitto, giunto al 44° giorno. Ieri, l’inviato per il Medio Oriente del governo americano, Brett McGurk, ha affermato durante una conferenza sulla sicurezza che si è svolta a Manama in Bahrain, che «qualora Hamas rilasciasse gli ostaggi, questo porterebbe a una pausa significativa nei combattimenti e a un aumento nella quantità degli aiuti umanitari consegnati alla popolazione della Striscia». Sulla questione è intervenuto direttamente anche Joe Biden. Il presidente americano, stando a quanto si legge su un post pubblicato sul social X dalla Casa Bianca, ha telefonato all’emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad Al-Thani, per «discutere dell’urgente necessità che tutti gli ostaggi detenuti da Hamas vengano rilasciati senza ulteriori indugi». A Doha ieri è sbarcato, con l’obiettivo di contribuire alla mediazione per il rilascio degli ostaggi, tra cui se ne contano 8 francesi, il ministro delle Forze armate transalpino Sebastien Lecornu. Nel frattempo, però, a Gaza si continua a combattere e non mancano gli episodi controversi e relativi rimpalli di responsabilità. L’Idf ha avviato un’indagine per chiarire quanto accaduto alla scuola di al Fakhoura, luogo usato come rifugio dagli sfollati, dove ci sono state oltre 50 vittime. A Nablus, in Cisgiordania, in un raid aereo sul campo profughi di Balata, sono morti 5 palestinesi, tra cui l’esponente di spicco della brigata dei Martiri di al Aqsa, Muhammad Zahed. E mentre l’esercito israeliano ha deciso di allargare le operazioni militari nel Nord della Striscia, in particolare nelle aree di Zaitun e Jabalya, dove si ritiene ci sia il comando e il centro di controllo della brigata Nord di Gaza, oltre a quattro battaglioni operativi di Hamas, a Gaza City si intensifica la pressione attorno a tre ospedali.
Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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Fabrizio Corona (Ansa)
Il punto di partenza è l’iscrizione sul registro degli indagati di Corona, che ha consentito agli inquirenti di sequestrare foto, video e chat. Nella sua nuova versione da youtuber conduttore di Falsissimo, Corona, ieri, davanti ai pm di Milano ha riempito un verbale e poi si è presentato davanti a telecamere, fotografi e cronisti: «Ho parlato del “sistema Signorini”», ha esordito. Poi ha precisato: «Tre minuti ho parlato del revenge porn e un’ora dei reati (presunti, ndr) commessi da Signorini, ma anche di tutti i suoi giri e di tutte le sue amicizie. Ho più di 100 testimonianze, ho fatto i nomi ai pm e sono già pronte due denunce contro di lui». Una di Antonio Medugno, ex concorrente del Gf Vip, edizione 2021-2022, intervistato nella seconda puntata de «Il prezzo del successo» su Falsissimo. «Anche un altro è pronto a farlo», ha annunciato Corona. Poi ha alzato i toni: «Se prendono il cellulare a Signorini trovano Sodoma e Gomorra». E ha sfidato la Procura: «Se dopo la querela non vanno a fargli una perquisizione io mi lego qua davanti al tribunale».
Corona ha precisato che la sua «non è» una «vendetta». Ma l’innesco è personale: «Dopo che gli ho visto presentare il suo ultimo libro ho detto «ci vuole un bel coraggio» e ho cominciato a fare telefonate e ho recuperato questo materiale, ne ho un sacco, ho delle fotografie sue clamorose».
Il «sistema», dice, lo ha messo nero su bianco nell’interrogatorio richiesto da lui stesso, assistito dall’avvocato Cristina Morrone dello studio legale di Ivano Chiesa. L’obiettivo dichiarato è ribaltare il tavolo e trasformare l’ennesima inchiesta a suo carico in quello che lui definisce il «Me too italiano». «Il problema», ha detto Corona, «è che lui ricopre un ruolo così importante e con quel ruolo non puoi cercare di adescare e proporre l’ingresso in un programma televisivo, che deve passare per dei casting, ci sono delle regole. Pagherà per quello che fa».
Corona, in sostanza, durante il suo interrogatorio, ha cercato di spostare l’attenzione dalle modalità con cui foto e chat sono state mostrate, su ciò che quelle chat potrebbero raccontare. Nel frattempo il fronte si è allargato: il Codacons, insieme all’Associazione utenti dei servizi radiotelevisivi, ha fatto sapere di aver depositato un esposto ai pm milanesi, all’Agcom e al Garante per la privacy.
Ora tocca alle autorità decidere, o meno, se entrare nel backstage mediatico.
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