2025-05-07
Dai premi Pulitzer alle passerelle dei vip: l’epidemia woke non è stata debellata
Il Met Gala 2025 a New York (Ansa)
Mentre si urla alle censure repubblicane, la stampa anti Trump fa incetta di riconoscimenti. E il Met Gala osanna il «dandy nero».Percival Everett, con il romanzo James, ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa, e la notizia è avvolta in uno strato d’amara ironia che starebbe proprio bene in... un romanzo di Everett. Il caso è piuttosto curioso: nel 2001 l’autore statunitense ha pubblicato un grande libro intitolato Cancellazione, una bella storia degna di Philip Roth, in cui di fatto anticipava il fenomeno woke e quella che sarebbe appunto divenuta la «cultura della cancellazione». Il protagonista di quel romanzo, Monk Ellison, è uno scrittore nero molto raffinato - alter ego dello stesso Everett - esasperato da editor e critici che gli richiedono continuamente di scrivere una storia «nera», che abbia a che fare con la questione razziale, anche se a lui di tutta la faccenda interessa davvero poco: «La verità su questo argomento», dice, «in tutta la sua durezza, è che io alla razza non ci penso quasi mai. E quando ci penso è perché mi sento in colpa perché non ci penso. Io non credo alla razza. Credo che esistano persone capaci di spararmi, di impiccarmi, di imbrogliarmi o di danneggiarmi perché credono alla razza, perché ho la pelle scura, i capelli ricci, il naso largo e alcuni miei antenati erano schiavi. Ma è così che stanno le cose». A un certo punto, Monk decide di accontentare i suoi committenti, e quasi a sfregio scrive un romanzo che più «nero» non si potrebbe, traboccante di slang e di stereotipi: è un successo incredibile. Si tratta, in poche parole, di una satira elegante - che raggiunge vette drammatiche - sui luoghi comuni dei liberal, sul politicamente corretto e l’identità (dei neri e non soltanto). Da Cancellazione è stato tratto un bel film, American Fiction, che ha vinto un Oscar per la sceneggiatura non originale. Il Pulitzer, però - ed ecco l’ironia - Everett lo ha vinto quest’anno con un libro che (pur rivelandosi al solito di grande qualità) rientra dei canoni della narrativa molto gradita ai liberal e ai professori universitari impegnati. James è una riscrittura delle Avventure di Huckleberry Finn dal punto di vista di Jim (cioè James), lo schiavo nero che accompagna i due giovani protagonisti nel racconto di Mark Twain.Si tratta, in parte, di una provocazione: il classico di Twain, nell’ultimo decennio, è stato più volte accusato di essere politicamente scorretto, scuole e università hanno provato a bandirlo con accuse di razzismo, insomma la cultura della cancellazione lo ha colpito con forza. Everett, a suo modo, ha invece reso omaggio a Twain, ma contemporaneamente ha anche assecondato i censori, dando voce alla minoranza oppressa nel capolavoro originale. L’intera vicenda, con tutti i rimpalli tra realtà e finzione romanzesca, sembra appunto materiale per l’arte di Everett, ma è anche il segnale che il wokismo, negli ambienti intellettuali, accademici e giornalistici è lungi dall’essere morto. Nei giorni in cui l’amministrazione guidata da Donald Trump ha deciso di tagliare i fondi federali all’Università di Harvard - accusata di essere corrotta dal fanatismo del politically correct e di dare troppa corda all’estremismo pro Pal - la giuria del Pulitzer reagisce con un exploit che la stampa di mezzo mondo ha descritto come anti trumpiano. A parte Everett, il tema razziale è dominante in Purpose, dramma teatrale di Branden Jacobs-Jenkins. Per la ricerca storica sono stati premiati saggi sulla libertà dei neri e sui nativi americani. Tra i premiati c’è la vignettista Ann Telnaes, dimessasi dal Washington Post dopo che questo aveva rifiutato una vignetta su Jeff Bezos. Il Wall Street Journal ha ottenuto un riconoscimento per i servizi sulla «svolta conservatrice» di Elon Musk e i rapporti di quest’ultimo con la Russia di Putin. E ancora: Kavitha Surana, Lizzie Presser, Cassandra Jaramillo e Stacy Kranitz, di ProPublica, hanno ottenuto un premio per i loro articoli sulle leggi contro l’aborto applicate da alcuni Stati americani, descritte come liberticide e addirittura assassine. Mark Warren, di Esquire, è stato premiato per aver raccontato la storia di Bubba Copeland, «un ritratto sensibile di un pastore battista e sindaco di una piccola città, morto suicida dopo che la sua vita digitale online è stata svelata da un sito di notizie di destra». Copeland, sposato e uomo di fede, si presentava sulla Rete come una «ragazza transgender curvy». Lasciamo pure perdere le valutazioni morali: di sicuro si trattava di una storia ghiotta da pubblicare per qualsiasi giornale: segreti, prurigine, scandalo... Ma per la giuria del Pulitzer diviene rilevante il fatto che Copeland si sia suicidato dopo gli articoli di un giornale «di destra». Il più importante premio giornalistico del mondo è divenuto una sorta di indice delle malefatte dei conservatori. Meno serioso ma non meno impegnato è stato il Met Gala dell’altra sera, ovvero la mostra del Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York. Una parata di celebrità milionarie che quest’anno ha scelto come slogan «black dandy». Come ha sapientemente spiegato Art Tribune, al centro c’era dunque la «figura del Black dandy, mistica quanto importante nel combattere i pregiudizi razziali dei dandy Oltreoceano». A scorrere le immagini della festa sembra di osservare una caricatura dal capitalismo woke, ma di scherzoso non c’era proprio nulla. Ricchi vip pronti a brindare in nome del black power: qui più che Everett servirebbe Tom Wolfe. Come nel giornalismo, anche nell’intrattenimento e nella moda le vecchie abitudini ipocrite e buoniste sono dure a morire. Non diversa è la mentalità che negli ultimi anni si è imposta nelle università americane e in molti atenei europei. Il wokismo recentemente è stato condannato e denigrato anche da numerosi autori di sinistra, ma ha fatto in tempo a imporsi come una sorta di inquisizione laicista, un terrore intellettuale (ben denunciato anni fa dal geniale Richard Millet) che ha prodotto censure, discriminazioni e clamorosi danni alla libertà di espressione. Trump e la sua lotta contro le università sono anche il frutto della peste culturale che funesta da troppo tempo l’Occidente e, con tutta evidenza, non è ancora sconfitta. E chi oggi si sgola per denunciare le presunte censure trumpiane, forse farebbe bene a ricordare in reazione a che cosa nascono. Le tirate ideologiche del Pulitzer e le sfilatine del Met Gala sono un modo triste ma perfetto per rinfrescarsi la memoria.
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