2022-01-20
Defunti del metaverso e cimitero social: così il web ci inonda di fantasmi digitali
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I social network sono popolati anche dai profili di utenti defunti rimasti in rete. Il mondo del metaverso sembra spingersi verso l'«eternità aumentata» con le potenzialità dell'intelligenza artificiale, per far vivere fantasmi digitali con cui si potrà interagire. E stravolgere il rapporto tra vita e morte.Dinesh Sivakumar Padmavathi e Ramaswamy Janaganandhini sono due ragazzi indiani di 24 e 23 anni che sono appena convolati a nozze. Ci sono però due ragioni che rendono questo matrimonio speciale. Il primo è che la cerimonia nuziale si è svolta nel metaverso, cioè, in buona sostanza, in realtà virtuale. Il secondo è che alle nozze ha partecipato anche il padre della ragazza. Che è morto. «Sarà proprio lui ad accogliere tutte le persone che festeggeranno con noi. Sarà un momento molto emozionante per Ramaswamy», ha spiegato Padmavathi. Si può «risorgere» sul Web, quindi? Il dibattito va avanti da tempo. Si pensi solo all'esercito dei defunti che «popolano» Facebook: si calcola che circa 8.000 utenti del social network muoiano ogni giorno in tutto il mondo, lasciando in rete profili che talvolta vengono chiusi dai familiari, ma per lo più restano lì, in rete, come una testimonianza (macabra o toccante, a seconda dei punti di vista) del caro estinto. Secondo uno studio condotto dall’Università di Oxford, nel 2080 il numero dei morti su Facebook, che attualmente sarebbe superiore ai 50 milioni di profili, supererà i due miliardi e mezzo e raggiungerà i 5 miliardi entro la fine del secolo, anche se si tratta di una stima da prendere con le molle perché basata sul fatto che Facebook continui ancora a crescere, nei prossimi decenni, al tasso attuale del 13% annuo. Ma si ricorderà anche, a tal proposito, la start up un po' fuori luogo lanciata da Raffaele Sollecito, l'ex imputato dell'omicidio di Meredith Kercher, assolto in via definitiva dalla Cassazione, assieme ad Amanda Knox, il 27 marzo del 2015. Il ragazzo aveva ideato un social network per commemorare i defunti, con possibilità di caricare foto e video, con la possibilità di posare mazzi di fiori sulla lapide del proprio caro.Se il «cimitero» di Facebook resta comunque una testimonianza inerte di qualcuno che non c'è più, in fondo non diverso da un qualsiasi suo effetto personale o da un album di foto, più avveniristico e controverso è il tentativo, come nel caso dei due sposini indiani che si diceva, di ricreare post mortem una simulazione digitale del proprio sé in grado di interagire con i nostri cari proprio come se fossimo noi. Hossein Rahnama, imprenditore e ricercatore presso la Ryerson University di Toronto, ha annunciato qualche tempo fa di star lavorando a un’applicazione chiamata Augmented Eternity, che avrebbe l’obiettivo di creare una versione digitale di noi stessi, capace di interagire con altre persone dopo la morte. I dati per replicare la nostra personalità sarebbero semplicemente tratti dalla quotidiana operazione di schedatura che la rete opera su ciascuno di noi. In fondo Internet sa già come parliamo, con chi interagiamo, che film, libri, canzoni ci piacciono etc.È andata anche più oltre un'amica di Roman Mazurenko, ragazzo bielorusso investito da un’automobile a Mosca il 28 novembre 2015 muore. La ragazza ha chiesto ad amici e parenti di mandarle i messaggi scritti dal ragazzo, ottenendone diverse migliaia. Ha poi realizzato un bot che riproduce il linguaggio umano e rende possibile la comunicazione con Roman dopo la sua morte. Non solo: ha anche progettato un chatbot chiamato Replika che studia e impara a conoscere una singola persona per avvicinarsi alla realizzazione di un avatar digitale, in grado di riprodurci totalmente e di sostituirci una volta che saremo morti. Lo hanno già scaricato milioni di persone.Un passo ancora successivo, ma a cui ancora non siamo arrivati, è il vero e proprio mind uploading, ovvero il processo che permette di caricare su supporti elettronici una scansione integrale e minuziosa del nostro cervello, che potrebbe essere innestata anche su eventuali corpi robotici. Un vero e proprio cyborg di noi stessi. Non una simulazione, stavolta, ma una intelligenza artificiale che interagirebbe ex novo proprio come noi. O forse, a quel punto, è il caso di togliere il «come»? Qui la problematica scientifica sfocia nella questione etica e filosofica: il mio cervello riprodotto in forma esattamente identica darebbe vita a… cosa? A un altro me? A una copia di cattivo gusto e artificiosa del me? Esiste un Io che esuli dal mio cervello e che non sia riproducibile tecnicamente? Vasto argomento, ovviamente. Lo studioso Davide Sisto, nel suo saggio intitolato La morte si fa social, si chiede «se la cultura digitale non offra – senza volerlo – un’opportunità imperdibile a chi, tramite l’attività della Death Education, cerca da qualche decennio di superare la rimozione socioculturale del morire in Occidente attraverso percorsi formativi con i quali, da un lato, far comprendere la morte come parte integrante della vita e, dall’altro, dare un sostegno a chi deve elaborare un lutto». Più probabile che ne esca soprattutto una qualche fonte di lucro. Il tema tuttavia è reale: il nostro mondo va sempre più popolandosi di fantasmi digitali con cui dovremo fare i conti.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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