
La sorella di Carmine Pecorelli, detto Mino, parla dell'inchiesta riaperta sul suo omicidio: «La verità non si saprà mai, ma basta col fango gettato su mio fratello».Incontrava tanta gente che conta Carmine Pecorelli, detto Mino. Mandando in stampa la rivista che dirigeva, Op, abbreviazione di Osservatore Politico, rivelava segreti. O indizi per scoprirli. Potenti degli apparati dello Stato - politici, militari, dirigenti dei servizi segreti - comunicavano con lui e attraverso di lui rivelando dettagli, lanciando accuse o provocazioni, architettando doppi giochi. Talvolta per i suoi articoli riceveva querele. Altre volte intimidazioni, anche pesanti. In un'occasione la sua vettura fu fatta esplodere. Mino Pecorelli, classe 1928, originario di Sessano del Molise (Campobasso), figlio del farmacista del paese, laureato in legge, a 16 anni a fianco dei polacchi del generale Wladislaw Anders che nel 1944 risalirono l'Italia con l'8ª Armata guadagnandosi la Croce di ferro, cercava scoop sensazionali. Con il sogno, fin da bambino, di fare il giornalista, dopo essersi trasferito a Roma e aver aperto uno studio legale di diritto fallimentare, divenne capo ufficio stampa del ministro democristiano Fiorentino Sullo. Da qui il trampolino di lancio per fondare, nel 1968, un'agenzia di stampa, Op, che con i suoi comunicati diffusi a una cerchia elitaria, diventò in seguito rivista rivelatrice di trame occulte e spia di arcani inconfessabili, in un'escalation che la portò non solo a uscire nei giorni del sequestro Moro - una casualità? ci si chiede ancora - ma anche a denunciare i particolari di una maxi-fornitura di armi alla Libia tra il 1972 e il 1973 in cambio di petrolio con complicità della Guardia di finanza, l'affaire Italcasse, retroscena sul passato di Licio Gelli, Venerabile della P2 a cui lo stesso Pecorelli si era iscritto per poi fuoriuscirne, fatti clamorosi e riservatissimi sulla strage di via Fani. Pecorelli era scomodissimo a molti. Alle 20 e 30 del 20 marzo 1979, in via Tacito a Roma, sotto la redazione di Op, mentre stava partendo sulla sua Citröen Pallas, un sicario lo trucidò, con 4 colpi - uno alla bocca, uscito dalla gola, e tre alla schiena - sparati da una pistola calibro 7 e 65 con silenziatore. Fu accertato che i proiettili, 2 di marca francese (Gevelot) e 2 di fabbricazione italiana (Giulio Fiocchi di Lecco), erano molto simili a munizioni in dotazione Nato rinvenute nei sotterranei nel ministero della Sanità in via Litsz, a cui potevano accedere elementi della banda della Magliana. Nel 1995, su indicazioni di Vincenzo Vinciguerra, reo confesso condannato all'ergastolo per la strage di Peteano, furono rinvenute nell'auto del detenuto Domenico Magnetta armi compatibili con quella che potrebbe essere stata quella del killer di Pecorelli. È questo un fattore indiziario importante per la Procura di Roma, che ha riaperto il fascicolo, in attesa di un eventuale nuovo processo. Forse sarà ancora utile anche l'unica copia di un dossier segretissimo del Sid, rinvenuta nella casa di Pecorelli - che abitava in via della Camilluccia, adiacente a via Fani - sequestrato la sera del delitto. Sulla sua agenda, per il 23 marzo 1979, aveva appuntato con incontro con Licio Gelli. Valter Biscotti, legale di Rosita Pecorelli, sorella del giornalista assassinato, in un libro appena uscito da Baldini&Castoldi, Pecorelli deve morire, ammette: «Cosa resta della verità sul caso Pecorelli? Nulla». Ma Rosita Pecorelli, classe 1934, ex-dirigente di un'assicurazione, non desiste.Cosa si attende dalla riapertura delle indagini?«Penso che la verità su chi abbia fatto uccidere Mino non si saprà mai. Ciò che più mi sta a cuore è che si torni a parlare del caso, si riaprano le indagini e si vada, eventualmente, a un nuovo processo. Spero che ciò serva a togliere a mio fratello questo marchio che gli è stato appiccicato addosso. Quello di ricattatore. È una cosa che non riesco a sopportare. Mino è morto con i debiti. Anzi, l'onorevole Carenini (Egidio Carenini, politico Dc, ndr) con cui mio fratello aveva un appuntamento fisso ogni martedì al ristorante L'Elefante Bianco per scambiarsi notizie, dopo il delitto, ha chiesto a me dei soldi, per delle cambiali che Mino aveva firmato. Mi batterò fino all'ultimo respiro per restituire dignità all'immagine di mio fratello, perché è stato fatto di tutto per infangarla». Come pensa siano andate realmente le cose nel giorno dell'assassinio di suo fratello?«A parte ciò che già si sa, ossia che Mino affidò nel primo pomeriggio di quel giorno un pacchetto molto importante da consegnare alla tipografia (la tipografia Abete di Roma a Tor Sapienza, ndr) a suo cugino, Umberto Limongelli, al quale confidò di temere per la propria incolumità, c'è una serie di strane circostanze e coincidenze che accaddero quel giorno. Carenini, con il quale mio fratello doveva incontrarsi, come ogni martedì, all'Elefante bianco, guarda caso disdisse l'appuntamento. Sembra inoltre che i Carabinieri fossero stati allertati da qualche ora nel pomeriggio di stazionare nella zona di via Tacito, Franca Migliavacca (segretaria di Pecorelli, con il quale aveva una relazione, ndr) pare sia partita e poi tornata indietro, e pare ci fossero alcuni magistrati, come Vitalone, Sica e Infelisi a cena nel salotto della famosa Maria Angiolillo (nota come “la signora dei segreti", per le sue frequentazioni con personaggi di potere, ndr), quasi fossero in attesa di notizie. Insomma, molte cose a mio avviso indicano che il fatto doveva accadere».Lei incontrò, con sua figlia piccola, suo fratello nel primo pomeriggio del 20 marzo 1979. Che impressione le diede?«Mi dette l'impressione di una certa serenità. Alcuni giorni prima mi telefonò, e lo sentii a terra, piangente, dicendomi che non ce la faceva più e voleva farla finita. Cercai di rincuorarlo, doveva andare avanti. Ma il 20 marzo le cose erano cambiate. Gli chiesi: “Mino, che mi dici?". Lui mi rispose: “Mi hanno promesso la stampa del giornale in una tipografia, quella di Ciarrapico, a minor costo. E che avrò finalmente la pubblicità". “E chi te l'ha promesso?", chiesi. “Franco Evangelisti", disse. “Dalla corrente andreottiana, allora". “Sì, è lui che me lo ha promesso", annuì. Io penso che questa promessa gli fosse stata fatta per farlo stare calmo, per poi decidere come farlo fuori. Lui, credo si riferisse alla cena di fine gennaio 1979, alla Famija Piemonteisa (il circolo esclusivo, in corso Vittorio Emanuele 24, a Roma, frequentato da politici, alti prelati, faccendieri, ndr).Secondo ciò che si sa, a quella cena c'era anche Donato Loprete, fino a poco tempo prima Capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza e poco tempo dopo investito dallo scandalo dei petroli. Su Op era appena apparsa un'inchiesta, «Manette e petrolio», nella quale si attaccavano i vertici delle Fiamme Gialle e in particolare Raffaele Giudice, diretto superiore di Loprete, il quale incalzò Pecorelli cercando di fargli rivelare quale fosse la «talpa» alla Guardia di Finanza che gli aveva fatto quelle rivelazioni. A quel punto il giornalista esibì la famosa copertina di Op in progetto di andare in stampa, Gli assegni del Presidente, con il volto di Andreotti. Poi, in seguito a un presunto accordo raggiunto, lo scandalo dei petroli scomparve dalla rivista. «Per questo motivo era tranquillo. Gli fecero quelle promesse per farlo tacere. Fino al 20 marzo, giorno dell'omicidio, quando questo plico partì diretto alla tipografia e fu consegnato dal cugino a una persona che, si comprese poi, non era quella che doveva effettivamente riceverlo».Cosa avrebbe potuto contenere quel plico? Una copertina di Op con rivelazioni esplosive?«Non posso saperlo e non si è mai saputo, dato che il plico è scomparso».Suo fratello ebbe un lungo incontro in redazione nel corso di quel pomeriggio, dopo che lei lo lasciò. Chi poteva essere il «signor X»?«Qualcuno ha ipotizzato fosse Vincenzo Cafari, un assicuratore, amico di Carenini, con affari dubbi anche con la 'ndrangheta, ma la certezza non c'è».Si è fatta un'idea circa il mandante o i mandanti dell'omicidio?«Non mi sono fatta un'idea precisa perché le piste sono molte. Lui aveva informatori di altissimo livello, da più parti, e veniva al corrente di fatti al centro dei più grandi scandali dell'Italia di allora. Alcune cose sono emerse nel processo Andreotti, ma solo in seguito a rivelazioni di Tommaso Buscetta. Si può pensare a tutto. Ed emergono ancora piste nuove. Mio fratello sapeva anche che allo Ior, la Banca del Vaticano, finivano soldi sporchi della mafia».Si confidava con lei sui segreti?«No, li teneva per sé, perché erano cose pericolose».Affrontando difficoltà economiche, riuscì a mandare il settimanale Op in edicola, pur con una ristretta tiratura. Dove era distribuita? «A Roma e in alcune delle principali città italiane»«Al decimo anno di vita, Op ha deciso di uscire dal Palazzo, andare fra la gente, per le strade» scrisse nel marzo 1978. «In nome di questa verità da tutti sbandierata ma da pochi rispettata, abbiamo deciso di uscire dal ristretto giro dei vertici dello Stato per andare nelle mani del maggior numero possibile di cittadini». Cosa voleva Mino Pecorelli?«Voleva la verità. Non gli interessavano destra, sinistra, centro. Voleva far conoscere la verità e attaccava tutti. La rivista era sua. Ne era l'editore e il direttore. I servizi segreti si sono serviti di lui e le cose le facevano dire a lui. E non aveva paura. Non si spaventò neppure quando gli fu messa una bomba-carta sotto l'auto. Anche oggi sarebbe stato un grande, come lo è stato in quel poco di vita che ha vissuto».Lo Stato le ha riconosciuto un indennizzo?«No, perché non è una vittima di mafia. Ho avuto solo spese processuali per gli avvocati di difesa». Se, in un'ipotesi assurda, potesse rivederlo ora, cosa gli direbbe?(sospira) «Gli direi: “Mino, chi te l'ha fatto fare?"».
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.