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2019-01-28
Violenze, omicidi e Isis. Ecco che cosa si nasconde in certi negozi degli egiziani
Le Iene
Insospettabili macellerie in Lombardia e nel Nord Italia, frutterie multiservice nella capitale, anonimi autolavaggi in Ciociaria. Si entra con una valigetta piena di contanti e grazie all'Hawala, un antico sistema che risale al medioevo e che si basa sull'onore e su una rete impressionante di broker, è possibile trasferire denaro sporco in Egitto, ma anche in altri Paesi del Nord Africa. Nella mala importata dal Medio Oriente è considerato più sicuro dei money transfer e anche del deep web (il lato oscuro di internet, che permette di navigare nella più completa illegalità e di mettere a punto qualsiasi traffico criminale, ndr). L'Hawala non lascia traccia. Il cliente raggiunge il mediatore in una anonima macelleria e gli consegna la somma da trasferire. Il broker, acquisite le banconote, dà l'ok al suo uomo di riferimento in Egitto che, come concordato dall'Italia, consegna il denaro alla persona indicata dal cliente. E il gioco è fatto. I magistrati della Direzione nazionale antimafia conoscono bene questo meccanismo finanziario illegale e monitorano le inchieste in cui compare. Non è sfuggito il servizio delle Iene sulle macellerie milanesi. Ma c'è un'inchiesta, affidata dal procuratore aggiunto che coordina il pool milanese antiterrorismo, Alberto Nobili, al pm Adriano Scudieri, che ha messo in luce, tracciato e accertato tutti i meccanismi dell'Hawala.
La notizia degli arresti, un anno fa, passò quasi in sordina. Ma insieme a 13 ordinanze di custodia cautelare (sei egiziani, cinque siriani e due marocchini, tutti ufficialmente imprenditori e in regola con i documenti) gli investigatori della Guardia di finanza sequestrarono un milione di euro in contanti che erano appena stati consegnati e che dovevano finire in Egitto. Nel fascicolo c'era anche una traccia inquietante, che i magistrati stanno ancora sviluppando: una parte di quei soldi sarebbero serviti a finanziare la rete del terrorismo internazionale dell'Isis. Il punto di contatto tra estremisti islamici e l'hub occulto di broker illegali milanesi, che avrebbe movimentato fino a 10 milioni di euro partiti dall'Italia, è un libico «contiguo ad ambienti di integralismo islamico»: Salem Bashir Mazan Rajah. Anche per lui c'era un mandato di cattura, ma non si è fatto acciuffare ed è ancora irreperibile.
La primula rossa, però, è monitorata ormai da oltre quattro anni: nel 2015, quando era ancora uno sconosciuto, la polizia dell'aeroporto lo fermò a Linate, dove era atterrato da Malta. Alla richiesta dei doganieri di indicare quanto contante c'era in una valigetta, su un pezzo di carta scrisse: 296.000 euro. Una cifra difficile da far passare in aeroporto senza una minima giustificazione. E, così, quell'uomo dall'aspetto molto religioso, con il Corano in una borsetta e un bel po' di bigliettoni in una 24 ore, venne denunciato a piede libero con l'accusa di riciclaggio di denaro. Gli sequestrarono anche il telefono cellulare. E da lì, grazie ai suoi contatti, si aprirono due piste: una internazionale, legata a nomi di importanti jihadisti, e una milanese che ha portato alla scoperta della centrale finanziaria dell'Hawala.
Il campanello d'allarme del terrorismo internazionale suonò sin dai primi istanti: sul telefonino, annotarono gli investigatori, c'erano «fotografie, video ed email dal chiaro contenuto religioso islamista, anche di tipo radicale». E da una piccola ricerca saltò fuori che il libico aveva effettuato in Germania, Francia e Olanda, tra il 2013 e il 2015, «dichiarazioni doganali per circa 50 milioni di euro». La banda che forniva il servizio di trasferimento di denaro illecito a carattere transnazionale, si scoprì, era organizzata in due gruppi tra loro collegati: il network Sadig e il network Haj Ibrahim. I clienti individuati, tra l'altro, in quel momento erano quasi tutti sotto inchiesta per le loro attività illecite in diverse città italiane: Genova, Torino, Como, Venezia, Brescia, Cagliari, Catania e Ascoli Piceno. Per Roma e per il Sud Italia, invece, c'è un altro hub. E si annida principalmente nelle frutterie. È meno frequentato da uomini d'affari e colletti bianchi e a volte risulta essere molto rozzo. Ma, soprattutto, ammazza. Proprio come la criminalità comune.
Sono diversi gli egiziani morti in circostanze all'apparenza mai chiarite. Il 28 ottobre 2013, ad esempio, trovarono il proprietario di tre frutterie, Mohamed Ebraim Leshein con le mani legate dietro la schiena e la faccia a terra, in zona Settebagni, a Roma. Gli investigatori della Squadra mobile si convinsero che il movente di quell'omicidio fosse un tentativo di estorsione o usura. Ma, si sa, nessun aguzzino ha interesse a far fuori la propria fonte di reddito. E allora si è fatta strada l'altra ipotesi, legata all'onore. Se spariscono i soldi dell'Hawala, allora sì che sono guai.
Nel 2015 la storia si ripete. Hashem El Sayed Gaafar, anche lui fruttivendolo, viene trovato incaprettato proprio davanti al suo negozio. Aveva appena ritirato 5.000 euro in contanti. Una rapina, ipotizzarono gli investigatori. Ma il fratello disse da subito che «doveva dei soldi alle persone sbagliate». E si addrizzò il tiro verso un giro d'usura. Dalla Squadra mobile spiegarono che la provenienza dei soldi che aveva addosso non era affatto chiara, ma precisarono che l'egiziano prima di morire era stato brutalmente picchiato. Quasi torturato. E anche questo delitto è diventato un cold case. Basta chiedere poi alla sala operativa della Questura per capire che casi di accoltellamento tra egiziani sono quasi all'ordine del giorno. E sono tutti regolamenti di conti. Poi, nel dicembre 2016, sette egiziani vennero arrestati con l'accusa di aver tentato di uccidere, nell'agosto 2015, due connazionali nel Centro agroalimentare romano, a Guidonia. Emerse che un gruppo di egiziani, per affermare la propria forza intimidatoria, aveva organizzato una spedizione punitiva nei confronti dei due ragazzi, che nel centro lavoravano come facchini, perché non volevano riconoscere l'autorità della banda che si occupava di approvvigionamento all'ingrosso di ortofrutticoli. La classica buccia di banana. Perché il vero affare era il controllo delle frutterie romane. Gli indizi: i negozi di frutta e verdura degli egiziani finiscono spesso in fumo. A qualcuno è capitato anche più di una volta. È il caso della Nabil frutta di Guidonia, gestita da egiziani, bruciata per ben tre volte. E infatti gli investigatori l'hanno definito il racket della frutta. La banda di egiziani controllava almeno 13 frutterie tra Roma, Guidonia, Montecelio, Monterotondo, Palombara Sabina, Lavinio e Orvieto.
Nell'ultimo anno, a Roma, stando ai dati della Camera di commercio, hanno chiuso i battenti 33 frutterie autoctone e altrettante in provincia. Molte sono state rilevate da egiziani che, occupandosi anche delle forniture, spesso, dopo essere riusciti a far indebitare le attività che riforniscono, alla fine le acquisiscono. Anche nel giro delle pizzerie, scoprì la Procura di Roma, c'erano bande che cercavano di estromettere i connazionali dalla gestione delle attività commerciali, dopo aver concesso prestiti usurai. Le pizzerie, una in via Pollenza e l'altra in via Ratto delle Sabine, furono oggetto di veri e propri raid.
Lo stesso meccanismo c'è dietro agli autolavaggi in Ciociaria. Lo ha svelato lo scorso anno l'operazione Gold wash, che ha disarticolato una banda che con la violenza aveva imposto il controllo esclusivo nella gestione degli autolavaggi di Cassino. Anche lì ci furono tentati omicidi e pestaggi, reati spia che spesso riescono a svelare ben altro.
I cinesi smerciano buoni spesa per migranti
Anche i cinesi, nel business sotterraneo dei minimarket, fanno la loro parte. Che vendano merce importata in modo non del tutto legale, contraffatta o poco sicura, sequestrata ogni anno a tonnellate, non fa certamente più notizia, ma non stanno tutte lì le furbizie messe in atto per aumentare i guadagni. A Lecce, per esempio, qualche giorno fa, i carabinieri hanno multato un negozio che aveva messo in vendita capi di abbigliamento adornati con pelliccia di gatto.
A Milano, qualche mese fa, in zona Paolo Sarpi, ben nascosti dietro barattoli di integratori erboristici la polizia locale aveva trovato farmaci di importazione, tra cui anche pillole abortive che venivano vendute illegalmente senza prescrizione medica.
E ancora, a Firenze, ogni settimana, si tiene puntualmente un mercato abusivo di frutta e verdura, coltivata nelle campagne toscane e proveniente da semi importati, che nel nostro Paese sono vietati. A Ferrara, invece, fino a qualche tempo fa, i negozi cinesi (e anche pakistani) si trasformavano, spesso e volentieri, in centri di riciclaggio per i buoni spesa della Coop, destinati ai richiedenti asilo, che preferivano acquistare superalcolici lì, piuttosto che andare a spenderli nei supermercati.
Il blitz che i carabinieri hanno messo in atto a Surano, in provincia di Lecce, lo scorso 19 gennaio, non è uguale a tutti gli altri: in un negozio gestito da cinesi hanno sequestrato decine di capi con inserzioni di pelo vero, proveniente con ogni probabilità da animali maltrattati prima di essere uccisi e poi scuoiati per ricavarne inserti di pelliccia da vendere a poco prezzo. Nel nostro Paese è vietato l'utilizzo di pellami e pellicce di animali come il gatto, il procione, la lince, il coyote e ovviamente il cane, provenienti da Paesi che non rispettano le normative anti sofferenza. In Cina, invece, come hanno testimoniato più volte i documentari di attivisti animalisti, è usuale l'utilizzo delle pelli di cane e di gatto, catturati per strada o nei cortili delle case e poi barbaramente uccisi, per l'industria dell'abbigliamento.
Nel 2018 tra i fenomeni di vendita abusiva negli esercizi gestiti da immigrati è spuntato anche quello della vendita dei farmaci. Prodotti di origine ignota, non commercializzati in Italia, e privi di indicazioni terapeutiche specifiche che vengono venduti sfusi, senza ricetta né prescrizioni del medico. Sono destinati soprattutto alla comunità cinese, che invece di rifornirsi in farmacia preferisce fare spesa dai connazionali. La primavera scorsa, durante un controllo del nucleo anti abusivismo, la polizia locale di Milano, in zona Paolo Sarpi, in un negozio di cineserie ha trovato migliaia di pillole occultate in barattoli etichettati come semplici integratori: si trattava in realtà di antibiotici, antinfiammatori e altri presidi medici non commercializzati in Italia e di provenienza ignota. Tra i farmaci illegali, tutti sequestrati e distrutti, sono state trovate persino confezioni della pillola del giorno dopo, ben nascoste in barattoli che pubblicizzavano prodotti a base di erbe e radici.
Spostandoci a Firenze, nella periferia della città, precisamente in via Di Vittorio, da anni possiamo trovare ogni settimana un mercato della frutta e della verdura, gestito da cinesi, completamente abusivo. Cassette a terra o su banconi improvvisati in barba a qualsiasi regola sanitaria, nessun permesso per occupazione di suolo pubblico e niente scontrini, ovviamente, visto che di registratori di cassa non c'è nemmeno l'ombra.
A parte qualche multa ogni tanto, il fenomeno è ben noto e tollerato dalle istituzioni, nonostante si tratti dell'ultimo passaggio di una filiera abusiva che rischia di danneggiare la nostra agricoltura e il mercato. Sui banchi dell'improvvisato market si trovano infatti «ortaggi di dimensioni anomale, non tracciati e modificati in laboratorio», con ogni probabilità provenienti da coltivazioni ricavate da «semi importati illegalmente dalla Cina e coltivati in Lazio, Sicilia e Campania», probabilmente «modificati geneticamente o ibridati», dunque potenzialmente pericolosi per le coltivazioni autoctone.
A Ferrara, fino a qualche tempo fa, andava di gran moda un giro d'affari illecito che utilizzava come moneta di scambio i buoni pasto della Coop forniti ai richiedenti asilo, ospiti delle strutture di accoglienza. Funzionava così: nel pacchetto da 35 euro al giorno, previsto per il mantenimento dei finti profughi, erano compresi anche i buoni spesa per l'approvvigionamento autonomo dei soggetti sistemati presso appartamenti o stanze delle cooperative locali. I buoni venivano consegnati direttamente agli immigrati e avevano stampigliato, oltre al marchio del supermercato convenzionato, anche il logo della coop ospitante, in modo da diventare tracciabili. Per evitare di incorrere in qualche controllo sugli acquisti, però, i finti profughi avevano trovato una strada alternativa: svendevano i buoni spesa nei market gestiti da cinesi a un prezzo inferiore al loro valore e in cambio ottenevano la possibilità di rifornirsi liberamente di alcol o cibi etnici. E anche per i gestori si trattava di un affare: una volta accumulati i buoni, pagati la metà del valore, questi si recavano nei supermercati a marchio Coop per fare incetta, a loro volta, di articoli scontati, da rivendere poi negli stessi minimarket, a prezzo pieno.
Cibi non tracciati, igiene carente: gli stranieri ci rovinano la tavola
Ogni anno, gli italiani ordinano sulle piattaforme di Food delivery oltre 25.000 chili di sushi. I ristoranti etnici, nel nostro Paese, sono più di 50.000. Ci sono 13.000 minimarket gestiti da bengalesi e più di 6.000 frutterie egiziane. Ma dietro la proliferazione di pesce crudo, involtini primavera, alimentari aperti 24 ore e arance a buon mercato, spesso c'è del marcio. Letteralmente. Cibo non tracciabile o mal conservato. Locali laidi. Dipendenti in nero. E, addirittura, spaccio di droga. Per Coldiretti, il 20% delle merci straniere non rispetta le norme italiane su ambiente, sanità e lavoro.
A novembre, a Modena, i Nas hanno sequestrato 122 chili di carne e pesce congelati in un minimarket etnico. Gli alimenti erano totalmente privi di etichette. Impossibile stabilire da dove venissero e quando scadessero. Stessa scena, poche settimane dopo, nel Chietino: 2.800 euro di merce non etichettata. A fine novembre, in Friuli Venezia Giulia, i Nas hanno visitato i market gestiti da romeni, ucraini e ungheresi. Nell'Europa dell'Est, infatti, è in atto un'epidemia di peste suina. La malattia non è trasmissibile all'uomo, ma se si trasporta bestiame infetto, si rischiano di contagiare altri animali. Dai controlli non è emersa traccia del virus. Ma di 200 chili di carne era impossibile conoscere provenienza e scadenza.
Con la carne, i negozi etnici hanno un rapporto complicato. Il caso più eclatante a Latina. I Nas avevano dovuto mettere i sigilli a un minimarket con annesso laboratorio di sezionamento di carni congelate, allestito in un bagno fatiscente e ovviamente lurido. Pure con il pesce si casca male. La scorsa primavera, nell'Aquilano, i Nas avevano sequestrato ben 300 chili di sushi e sashimi, prodotti senza notifica alle autorità (che è obbligatoria nel caso di prodotti ittici da consumare crudi).
Non bisogna fidarsi nemmeno degli ingrossi cinesi. A fine ottobre, i Nas di Roma e Parma hanno trovato, in confezioni di brodo aromatizzato al pollo vendute da un grossista, «ingredienti di origine animale non dichiarati in etichetta». Insomma, nel brodo di pollo non c'era solo il pollo.
Non mancano le irregolarità neppure nelle rivendite di frutta e verdura. A Pavia, due commercianti egiziani sono stati multati per la mancata tracciabilità dei prodotti ortofrutticoli. A Pescara, i Nas hanno documentato gravi carenze igienico-sanitarie in un'ortofrutta gestita da nordafricani.
C'è pure il capitolo dei lavoratori in nero. Nella zona di Mantova, a novembre, la Guardia di finanza ha disposto lo stop per un negozio etnico che impiegava vari dipendenti irregolari. Ad Alba Adriatica, in Abruzzo, i carabinieri avevano sorpreso un dipendente in nero in un esercizio commerciale gestito da uno straniero. Sul litorale Catanzarese, i Nas ne avevano trovati altri in un ristorante orientale. Al Lido di Venezia era scattata la sospensione per alcuni negozi etnici di cittadini del Bangladesh.
I market stranieri sono, notoriamente, luogo di bivacco. Matteo Salvini aveva promesso una stretta sugli orari di chiusura nel dl Sicurezza. Ma di questa disposizione, nel testo finale si sono perse le tracce. E così, i negozietti di cingalesi, indiani e bangladesi continuano a rifornire di alcol a poco prezzo il popolo della notte. E c'è persino chi, dietro la vetrina, nasconde il traffico di droga. È successo a Prato, dove, ad agosto, era stata disposta la sospensione per un minimarket etnico. La titolare, una nigeriana di 32 anni, consentiva agli spacciatori del luogo di smerciare gli stupefacenti all'interno del suo punto vendita. Sarà stato per solidarietà: le forze dell'ordine avevano già arrestato suo fratello, sorpreso con due dosi di eroina mentre usciva dal negozio.
La colonizzazione del nostro Paese passa per i sushi bar alla moda e i più modesti minimarket etnici. I commercianti italiani lo denunciano da anni: dove prima c'erano vetrine eleganti, adesso compaiono frutterie-bugigattolo. Le attività degli stranieri crescono a ritmi cinque volte superiori rispetto a quelle dei nostri connazionali. Di questo passo, tra pochi anni resteranno solo loro. Visti i cibi che somministrano, faranno prima a sostituirci o ad avvelenarci?
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Macellerie che diventano centrali per il finanziamento dei terroristi. Traffici di soldi, prestiti a usura, business illeciti di ogni tipo. Le Procure indagano. I cinesi smerciano buoni spesa per migranti. A Ferrara, gli immigrati li cedevano ai gestori di un alimentari orientale in cambio di alcolici. I titolari li usavano per comprare prodotti che rivendevano a prezzo pieno in negozio. A Milano, gli asiatici vendevano pillole abortive senza prescrizione medica. Cibi non tracciati, igiene carente: gli stranieri ci rovinano la tavola. Dal centro per lavorazione della carne allestito in un wc, al minimarket nigeriano dove si spacciavano droghe. Proliferano ristoranti e locali etnici ma per molti le regole sono un optional. Lo speciale contiene tre articoli. Insospettabili macellerie in Lombardia e nel Nord Italia, frutterie multiservice nella capitale, anonimi autolavaggi in Ciociaria. Si entra con una valigetta piena di contanti e grazie all'Hawala, un antico sistema che risale al medioevo e che si basa sull'onore e su una rete impressionante di broker, è possibile trasferire denaro sporco in Egitto, ma anche in altri Paesi del Nord Africa. Nella mala importata dal Medio Oriente è considerato più sicuro dei money transfer e anche del deep web (il lato oscuro di internet, che permette di navigare nella più completa illegalità e di mettere a punto qualsiasi traffico criminale, ndr). L'Hawala non lascia traccia. Il cliente raggiunge il mediatore in una anonima macelleria e gli consegna la somma da trasferire. Il broker, acquisite le banconote, dà l'ok al suo uomo di riferimento in Egitto che, come concordato dall'Italia, consegna il denaro alla persona indicata dal cliente. E il gioco è fatto. I magistrati della Direzione nazionale antimafia conoscono bene questo meccanismo finanziario illegale e monitorano le inchieste in cui compare. Non è sfuggito il servizio delle Iene sulle macellerie milanesi. Ma c'è un'inchiesta, affidata dal procuratore aggiunto che coordina il pool milanese antiterrorismo, Alberto Nobili, al pm Adriano Scudieri, che ha messo in luce, tracciato e accertato tutti i meccanismi dell'Hawala. La notizia degli arresti, un anno fa, passò quasi in sordina. Ma insieme a 13 ordinanze di custodia cautelare (sei egiziani, cinque siriani e due marocchini, tutti ufficialmente imprenditori e in regola con i documenti) gli investigatori della Guardia di finanza sequestrarono un milione di euro in contanti che erano appena stati consegnati e che dovevano finire in Egitto. Nel fascicolo c'era anche una traccia inquietante, che i magistrati stanno ancora sviluppando: una parte di quei soldi sarebbero serviti a finanziare la rete del terrorismo internazionale dell'Isis. Il punto di contatto tra estremisti islamici e l'hub occulto di broker illegali milanesi, che avrebbe movimentato fino a 10 milioni di euro partiti dall'Italia, è un libico «contiguo ad ambienti di integralismo islamico»: Salem Bashir Mazan Rajah. Anche per lui c'era un mandato di cattura, ma non si è fatto acciuffare ed è ancora irreperibile. La primula rossa, però, è monitorata ormai da oltre quattro anni: nel 2015, quando era ancora uno sconosciuto, la polizia dell'aeroporto lo fermò a Linate, dove era atterrato da Malta. Alla richiesta dei doganieri di indicare quanto contante c'era in una valigetta, su un pezzo di carta scrisse: 296.000 euro. Una cifra difficile da far passare in aeroporto senza una minima giustificazione. E, così, quell'uomo dall'aspetto molto religioso, con il Corano in una borsetta e un bel po' di bigliettoni in una 24 ore, venne denunciato a piede libero con l'accusa di riciclaggio di denaro. Gli sequestrarono anche il telefono cellulare. E da lì, grazie ai suoi contatti, si aprirono due piste: una internazionale, legata a nomi di importanti jihadisti, e una milanese che ha portato alla scoperta della centrale finanziaria dell'Hawala. Il campanello d'allarme del terrorismo internazionale suonò sin dai primi istanti: sul telefonino, annotarono gli investigatori, c'erano «fotografie, video ed email dal chiaro contenuto religioso islamista, anche di tipo radicale». E da una piccola ricerca saltò fuori che il libico aveva effettuato in Germania, Francia e Olanda, tra il 2013 e il 2015, «dichiarazioni doganali per circa 50 milioni di euro». La banda che forniva il servizio di trasferimento di denaro illecito a carattere transnazionale, si scoprì, era organizzata in due gruppi tra loro collegati: il network Sadig e il network Haj Ibrahim. I clienti individuati, tra l'altro, in quel momento erano quasi tutti sotto inchiesta per le loro attività illecite in diverse città italiane: Genova, Torino, Como, Venezia, Brescia, Cagliari, Catania e Ascoli Piceno. Per Roma e per il Sud Italia, invece, c'è un altro hub. E si annida principalmente nelle frutterie. È meno frequentato da uomini d'affari e colletti bianchi e a volte risulta essere molto rozzo. Ma, soprattutto, ammazza. Proprio come la criminalità comune. Sono diversi gli egiziani morti in circostanze all'apparenza mai chiarite. Il 28 ottobre 2013, ad esempio, trovarono il proprietario di tre frutterie, Mohamed Ebraim Leshein con le mani legate dietro la schiena e la faccia a terra, in zona Settebagni, a Roma. Gli investigatori della Squadra mobile si convinsero che il movente di quell'omicidio fosse un tentativo di estorsione o usura. Ma, si sa, nessun aguzzino ha interesse a far fuori la propria fonte di reddito. E allora si è fatta strada l'altra ipotesi, legata all'onore. Se spariscono i soldi dell'Hawala, allora sì che sono guai. Nel 2015 la storia si ripete. Hashem El Sayed Gaafar, anche lui fruttivendolo, viene trovato incaprettato proprio davanti al suo negozio. Aveva appena ritirato 5.000 euro in contanti. Una rapina, ipotizzarono gli investigatori. Ma il fratello disse da subito che «doveva dei soldi alle persone sbagliate». E si addrizzò il tiro verso un giro d'usura. Dalla Squadra mobile spiegarono che la provenienza dei soldi che aveva addosso non era affatto chiara, ma precisarono che l'egiziano prima di morire era stato brutalmente picchiato. Quasi torturato. E anche questo delitto è diventato un cold case. Basta chiedere poi alla sala operativa della Questura per capire che casi di accoltellamento tra egiziani sono quasi all'ordine del giorno. E sono tutti regolamenti di conti. Poi, nel dicembre 2016, sette egiziani vennero arrestati con l'accusa di aver tentato di uccidere, nell'agosto 2015, due connazionali nel Centro agroalimentare romano, a Guidonia. Emerse che un gruppo di egiziani, per affermare la propria forza intimidatoria, aveva organizzato una spedizione punitiva nei confronti dei due ragazzi, che nel centro lavoravano come facchini, perché non volevano riconoscere l'autorità della banda che si occupava di approvvigionamento all'ingrosso di ortofrutticoli. La classica buccia di banana. Perché il vero affare era il controllo delle frutterie romane. Gli indizi: i negozi di frutta e verdura degli egiziani finiscono spesso in fumo. A qualcuno è capitato anche più di una volta. È il caso della Nabil frutta di Guidonia, gestita da egiziani, bruciata per ben tre volte. E infatti gli investigatori l'hanno definito il racket della frutta. La banda di egiziani controllava almeno 13 frutterie tra Roma, Guidonia, Montecelio, Monterotondo, Palombara Sabina, Lavinio e Orvieto. Nell'ultimo anno, a Roma, stando ai dati della Camera di commercio, hanno chiuso i battenti 33 frutterie autoctone e altrettante in provincia. Molte sono state rilevate da egiziani che, occupandosi anche delle forniture, spesso, dopo essere riusciti a far indebitare le attività che riforniscono, alla fine le acquisiscono. Anche nel giro delle pizzerie, scoprì la Procura di Roma, c'erano bande che cercavano di estromettere i connazionali dalla gestione delle attività commerciali, dopo aver concesso prestiti usurai. Le pizzerie, una in via Pollenza e l'altra in via Ratto delle Sabine, furono oggetto di veri e propri raid. Lo stesso meccanismo c'è dietro agli autolavaggi in Ciociaria. Lo ha svelato lo scorso anno l'operazione Gold wash, che ha disarticolato una banda che con la violenza aveva imposto il controllo esclusivo nella gestione degli autolavaggi di Cassino. Anche lì ci furono tentati omicidi e pestaggi, reati spia che spesso riescono a svelare ben altro. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/violenze-omicidi-e-isis-ecco-che-cosa-si-nasconde-nei-negozi-degli-egiziani-2627246208.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-cinesi-smerciano-buoni-spesa-per-migranti" data-post-id="2627246208" data-published-at="1765819739" data-use-pagination="False"> I cinesi smerciano buoni spesa per migranti Anche i cinesi, nel business sotterraneo dei minimarket, fanno la loro parte. 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A Ferrara, invece, fino a qualche tempo fa, i negozi cinesi (e anche pakistani) si trasformavano, spesso e volentieri, in centri di riciclaggio per i buoni spesa della Coop, destinati ai richiedenti asilo, che preferivano acquistare superalcolici lì, piuttosto che andare a spenderli nei supermercati. Il blitz che i carabinieri hanno messo in atto a Surano, in provincia di Lecce, lo scorso 19 gennaio, non è uguale a tutti gli altri: in un negozio gestito da cinesi hanno sequestrato decine di capi con inserzioni di pelo vero, proveniente con ogni probabilità da animali maltrattati prima di essere uccisi e poi scuoiati per ricavarne inserti di pelliccia da vendere a poco prezzo. Nel nostro Paese è vietato l'utilizzo di pellami e pellicce di animali come il gatto, il procione, la lince, il coyote e ovviamente il cane, provenienti da Paesi che non rispettano le normative anti sofferenza. In Cina, invece, come hanno testimoniato più volte i documentari di attivisti animalisti, è usuale l'utilizzo delle pelli di cane e di gatto, catturati per strada o nei cortili delle case e poi barbaramente uccisi, per l'industria dell'abbigliamento. Nel 2018 tra i fenomeni di vendita abusiva negli esercizi gestiti da immigrati è spuntato anche quello della vendita dei farmaci. Prodotti di origine ignota, non commercializzati in Italia, e privi di indicazioni terapeutiche specifiche che vengono venduti sfusi, senza ricetta né prescrizioni del medico. Sono destinati soprattutto alla comunità cinese, che invece di rifornirsi in farmacia preferisce fare spesa dai connazionali. La primavera scorsa, durante un controllo del nucleo anti abusivismo, la polizia locale di Milano, in zona Paolo Sarpi, in un negozio di cineserie ha trovato migliaia di pillole occultate in barattoli etichettati come semplici integratori: si trattava in realtà di antibiotici, antinfiammatori e altri presidi medici non commercializzati in Italia e di provenienza ignota. Tra i farmaci illegali, tutti sequestrati e distrutti, sono state trovate persino confezioni della pillola del giorno dopo, ben nascoste in barattoli che pubblicizzavano prodotti a base di erbe e radici. Spostandoci a Firenze, nella periferia della città, precisamente in via Di Vittorio, da anni possiamo trovare ogni settimana un mercato della frutta e della verdura, gestito da cinesi, completamente abusivo. Cassette a terra o su banconi improvvisati in barba a qualsiasi regola sanitaria, nessun permesso per occupazione di suolo pubblico e niente scontrini, ovviamente, visto che di registratori di cassa non c'è nemmeno l'ombra. A parte qualche multa ogni tanto, il fenomeno è ben noto e tollerato dalle istituzioni, nonostante si tratti dell'ultimo passaggio di una filiera abusiva che rischia di danneggiare la nostra agricoltura e il mercato. Sui banchi dell'improvvisato market si trovano infatti «ortaggi di dimensioni anomale, non tracciati e modificati in laboratorio», con ogni probabilità provenienti da coltivazioni ricavate da «semi importati illegalmente dalla Cina e coltivati in Lazio, Sicilia e Campania», probabilmente «modificati geneticamente o ibridati», dunque potenzialmente pericolosi per le coltivazioni autoctone. A Ferrara, fino a qualche tempo fa, andava di gran moda un giro d'affari illecito che utilizzava come moneta di scambio i buoni pasto della Coop forniti ai richiedenti asilo, ospiti delle strutture di accoglienza. Funzionava così: nel pacchetto da 35 euro al giorno, previsto per il mantenimento dei finti profughi, erano compresi anche i buoni spesa per l'approvvigionamento autonomo dei soggetti sistemati presso appartamenti o stanze delle cooperative locali. I buoni venivano consegnati direttamente agli immigrati e avevano stampigliato, oltre al marchio del supermercato convenzionato, anche il logo della coop ospitante, in modo da diventare tracciabili. Per evitare di incorrere in qualche controllo sugli acquisti, però, i finti profughi avevano trovato una strada alternativa: svendevano i buoni spesa nei market gestiti da cinesi a un prezzo inferiore al loro valore e in cambio ottenevano la possibilità di rifornirsi liberamente di alcol o cibi etnici. E anche per i gestori si trattava di un affare: una volta accumulati i buoni, pagati la metà del valore, questi si recavano nei supermercati a marchio Coop per fare incetta, a loro volta, di articoli scontati, da rivendere poi negli stessi minimarket, a prezzo pieno. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/violenze-omicidi-e-isis-ecco-che-cosa-si-nasconde-nei-negozi-degli-egiziani-2627246208.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="cibi-non-tracciati-igiene-carente-gli-stranieri-ci-rovinano-la-tavola" data-post-id="2627246208" data-published-at="1765819739" data-use-pagination="False"> Cibi non tracciati, igiene carente: gli stranieri ci rovinano la tavola Ogni anno, gli italiani ordinano sulle piattaforme di Food delivery oltre 25.000 chili di sushi. I ristoranti etnici, nel nostro Paese, sono più di 50.000. Ci sono 13.000 minimarket gestiti da bengalesi e più di 6.000 frutterie egiziane. Ma dietro la proliferazione di pesce crudo, involtini primavera, alimentari aperti 24 ore e arance a buon mercato, spesso c'è del marcio. Letteralmente. Cibo non tracciabile o mal conservato. Locali laidi. Dipendenti in nero. E, addirittura, spaccio di droga. Per Coldiretti, il 20% delle merci straniere non rispetta le norme italiane su ambiente, sanità e lavoro. A novembre, a Modena, i Nas hanno sequestrato 122 chili di carne e pesce congelati in un minimarket etnico. Gli alimenti erano totalmente privi di etichette. Impossibile stabilire da dove venissero e quando scadessero. Stessa scena, poche settimane dopo, nel Chietino: 2.800 euro di merce non etichettata. A fine novembre, in Friuli Venezia Giulia, i Nas hanno visitato i market gestiti da romeni, ucraini e ungheresi. Nell'Europa dell'Est, infatti, è in atto un'epidemia di peste suina. La malattia non è trasmissibile all'uomo, ma se si trasporta bestiame infetto, si rischiano di contagiare altri animali. Dai controlli non è emersa traccia del virus. Ma di 200 chili di carne era impossibile conoscere provenienza e scadenza. Con la carne, i negozi etnici hanno un rapporto complicato. Il caso più eclatante a Latina. I Nas avevano dovuto mettere i sigilli a un minimarket con annesso laboratorio di sezionamento di carni congelate, allestito in un bagno fatiscente e ovviamente lurido. Pure con il pesce si casca male. La scorsa primavera, nell'Aquilano, i Nas avevano sequestrato ben 300 chili di sushi e sashimi, prodotti senza notifica alle autorità (che è obbligatoria nel caso di prodotti ittici da consumare crudi). Non bisogna fidarsi nemmeno degli ingrossi cinesi. A fine ottobre, i Nas di Roma e Parma hanno trovato, in confezioni di brodo aromatizzato al pollo vendute da un grossista, «ingredienti di origine animale non dichiarati in etichetta». Insomma, nel brodo di pollo non c'era solo il pollo. Non mancano le irregolarità neppure nelle rivendite di frutta e verdura. A Pavia, due commercianti egiziani sono stati multati per la mancata tracciabilità dei prodotti ortofrutticoli. A Pescara, i Nas hanno documentato gravi carenze igienico-sanitarie in un'ortofrutta gestita da nordafricani. C'è pure il capitolo dei lavoratori in nero. Nella zona di Mantova, a novembre, la Guardia di finanza ha disposto lo stop per un negozio etnico che impiegava vari dipendenti irregolari. Ad Alba Adriatica, in Abruzzo, i carabinieri avevano sorpreso un dipendente in nero in un esercizio commerciale gestito da uno straniero. Sul litorale Catanzarese, i Nas ne avevano trovati altri in un ristorante orientale. Al Lido di Venezia era scattata la sospensione per alcuni negozi etnici di cittadini del Bangladesh. I market stranieri sono, notoriamente, luogo di bivacco. Matteo Salvini aveva promesso una stretta sugli orari di chiusura nel dl Sicurezza. Ma di questa disposizione, nel testo finale si sono perse le tracce. E così, i negozietti di cingalesi, indiani e bangladesi continuano a rifornire di alcol a poco prezzo il popolo della notte. E c'è persino chi, dietro la vetrina, nasconde il traffico di droga. È successo a Prato, dove, ad agosto, era stata disposta la sospensione per un minimarket etnico. La titolare, una nigeriana di 32 anni, consentiva agli spacciatori del luogo di smerciare gli stupefacenti all'interno del suo punto vendita. Sarà stato per solidarietà: le forze dell'ordine avevano già arrestato suo fratello, sorpreso con due dosi di eroina mentre usciva dal negozio. La colonizzazione del nostro Paese passa per i sushi bar alla moda e i più modesti minimarket etnici. I commercianti italiani lo denunciano da anni: dove prima c'erano vetrine eleganti, adesso compaiono frutterie-bugigattolo. Le attività degli stranieri crescono a ritmi cinque volte superiori rispetto a quelle dei nostri connazionali. Di questo passo, tra pochi anni resteranno solo loro. Visti i cibi che somministrano, faranno prima a sostituirci o ad avvelenarci?
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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