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2025-08-25
L’intervista Paolo Marchesini «Insegno agli atleti che vince chi diventa un uomo migliore»
Paolo Marchesini, lei si definisce «precettore sportivo». Ha scritto anche una serie di volumi volti a illustrare i suoi metodi e la sua filosofia. Pare di capire che lei lavori soprattutto con squadre di calcio. Ci spiega allora che cosa fa? Che cos’è il precettore sportivo?
«Il precettore sportivo è un educatore classico unico nel genere. Non insegna né istruisce ma propone e condivide. Non infligge nozioni dalla cattedra, ma suscita interesse nel vissuto. Non è lo specialista distaccato che esercita un mestiere, ma il gentiluomo partecipe che testimonia una vocazione. Per questo può davvero educare giovani e adulti allenandosi con la squadra, poiché come una sorta di exemplum virtutis vivente – innanzitutto – impersona dentro al gruppo l’archetipo dell’uomo-calciatore esemplare. Tale accattivante innovazione agevola una radicale educazione pratica ai valori umani di nuova generazione».
Da quale esperienza è nata in lei l’idea di inventare una figura simile?
«L’idea scoccò nel 1987 al Bologna Fc ma la focalizzai lustri più tardi. Tornato a giocare in Italia dall’estero con una squadra di serie C vi distinsi tre giovani compagni in seria difficoltà, così al solo fine d’ispirarli proposi loro di osservarmi in allenamento. Loro si ripresero in un mese ed io intravidi la malacopia del ruolo di precettore sportivo. Seguì, ispirata da padre Roberto Busa, l’opera pionieristica per costituirlo e metterlo a sistema, giungendo infine al profilo mirabilmente tratteggiato da San Paolo: “Io dunque corro, ma non come chi è senza meta, faccio il pugilato ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri venga io stesso squalificato”».
Di figure di sostegno diciamo psicologico nello sport ce ne sono molte. Quale differenza c’è tra un mental coach e un precettore sportivo?
«Sono le differenze abissali esistenti tra una figura egemonica ed un ruolo collaborativo; tra un’impostazione diagnostico tecnicista ed un approccio educativo umanizzante; tra chi scompone l’uomo riducendolo ad automatismo meccanico e chi integra la persona valorizzandola come essere umano. In metafora, tra chi nel buio cerca una candela e chi costruisce un impianto d’illuminazione».
Lei sostiene che il suo sistema potrebbe contribuire in modo importante a cambiare il modo in cui si gioca a calcio, dalla serie A in giù. Quale è la sua ricetta?
«Agli allenatori di serie A dico da tempo che il calcio esige il governo sulla partita tutta. Includo con ciò fondamentali problematiche irrisolte che non riguardano le fasi di gioco (tiri, schemi, ritmo) bensì le “fasi di non-gioco” (liti, risse, proteste) sofferte da tutti. A fine gara allenatori e dirigenti lamentano gli stessi problemi (falli, sanzioni, squalifiche,) che sebbene condizionino i risultati si ripetono sempre. Dunque sono variabili ingestibili allenando il gioco perché di “non-gioco” su cui nessuno opera come occorre».
E come si dovrebbe operare allora?
«Con un più idoneo know-how dell’educare: l’Ermeneutica dell’Espressione Sportiva. Ne colmai il vuoto quando ne testai protocolli e mansioni per primo in Italia inaugurando il mio ruolo di precettore sportivo. Ora serve diffonderne i benefici nelle prime squadre».
E quali sono secondo lei questi benefici?
«Abbattimento di ammonizioni, espulsioni e squalifiche fino all’80%. Opportunità di schierare quasi sempre la formazione ideale. Guadagno sui 90’ di gioco dei 30’ di non-gioco sprecati da tutti. Profitto di classifica dai 4-5 ai 9-10 punti in più».
Obiettivi ambiziosi. Come si raggiungono?
«Lavorando per davvero sull’uomo in allenamento. Oggi gli errori di non-gioco non sono mai corretti con strumenti ed esercizi sul campo perché il know-how valoriale prima inesistente ora c’è ma va gradualmente divulgato. Il precettore sportivo opera entro microfocus di allenamento quotidiani predefiniti con lo staff. In essi egli fa vivere agli uomini che “sono” i calciatori 55 valori umani (umiltà, sacrifico, correttezza, determinazione) con esercitazioni pratiche svolte sistematicamente».
È vero che Silvio Berlusconi aveva creduto in questa sua idea?
«Riporto quanto il presidente Berlusconi dichiarò: “Nel Monza, caso unico in Italia, abbiamo un precettore, Paolo Marchesini, che segue sul campo e fuori tutti i ragazzi delle giovanili e le loro famiglie, testimoniando i nostri valori”. Credo attesti bene la fiducia nel mio ruolo e il consenso per un’innovazione legata alla tradizione. Ne apprezzò molto infatti l’elegante stile distintivo (in campo tuta colorata dei calciatori, fuori campo abito scuro del gentiluomo) evocante istanze etiche nell’habitus dei comportamenti. In un incontro privato ad Arcore mi chiese il costo del marchio “precettore sportivo”. Risposi: “Una vita intera e la pazienza dei santi”. Allorché chiosò: “Serve nelle prime squadre. Ci arriverà!”».
«Lo sport fa uscire i ragazzi dalla prigione del virtuale»
Giuseppe Lorenzetti, psicologo, è esperto di adolescenza, consulente di società sportive, e autore di un bel libro fresco di pubblicazione intitolato Adolescenza, manuale di liberazione per giovani inquieti (Signs Books).
Si è discusso molto negli ultimi mesi dell’aumento della violenza tra gli adolescenti, raccontato anche da serie come Adolescence. Da che cosa dipende secondo lei?
«La serie Adolescence ha il merito di fare luce sul problema, ma non ci accompagna a comprenderne le dinamiche e le origini. Il personaggio del protagonista non è realistico nel suo profilo psicologico e ciò rischia di spaventare e di creare confusione più che aiutarci a sostenere i giovani. Il primo strumento per prevenire la violenza è sviluppare l’empatia che ci permette di immedesimarci nelle vittime e nei carnefici: riconoscere l’ombra dentro di noi, accoglierla e trasformarla. Oggi invece i giovani sono bombardati da immagini di violenza senza la possibilità di elaborarle. Gli mancano poi le abilità comunicative per entrare in contatto all’altro, non sono stati abituati al confronto, all’attesa, alla fatica e alla frustrazione. Non hanno punti di riferimento perché spesso i genitori per paura rinunciano al loro ruolo, comportandosi come degli amici, e nel momento del bisogno non sanno a chi chiedere aiuto. Infine l’effetto delle droghe, il cui utilizzo è in continuo aumento, spesso è la miccia che innesca l’esplosione scatenando un disagio latente».
Che impatto ha la rivoluzione tecnologica sui ragazzi, nella sua esperienza?
«Mi capita di lavorare con ragazzi e ragazze che passano fino a dieci ore al giorno davanti agli schermi e che minacciano i genitori che tentano di limitarne l’utilizzo di gesti autolesionistici. Gli studi dimostrano che le dipendenze da schermi, al pari di quelle classiche da sostanze – in particolare in un cervello in formazione – possono creare danni irreversibili a livello biochimico e strutturale. Dal punto di vista psicologico, disturbi d’ansia, depressivi, crisi di astinenza, ritiro sociale, crollo delle capacità di attenzione e concentrazione sono solo alcuni degli effetti correlati a un abuso di tecnologia. Abbiamo messo in mano alle nuove generazioni degli strumenti potentissimi senza alcuna preparazione e il risultato è che anziché essere sfruttati per le loro potenzialità fungono da ansiolitico per colmare una profonda solitudine e un vuoto di senso. In Svezia, Paese ammaliato dal mito del “progresso”, se ne sono resi conto e stanno cercando di arginare il problema con delle misure importanti».
Si dedica molta attenzione ai corpi degli adolescenti, più che altro per parlare di questioni gender. Ma che rapporto hanno davvero i ragazzi con il loro corpo?
«La domanda che dovremmo porci sul tema del gender è se le scelte dei giovani in questo ambito siano frutto di una reale assunzione di responsabilità basata su un percorso di crescita e sull’ascolto di sé, o celino invece una domanda di aiuto indiretta attraverso la ricerca impulsiva di un’etichetta con cui identificarsi per dare un nome alla propria angoscia. Sono tutti bravi a parole ad invitare i giovani ad essere loro stessi, ma che significato ha se non creiamo le condizioni educative affinché questa ricerca possa avere atto? Il corpo è al centro del percorso di costruzione della nostra identità, ma oggi i ragazzi vivono intrappolati nel virtuale, sono senza corpo e senza radici, e dunque in balìa delle ideologie dominanti».
Come può essere utile lo sport per gli adolescenti di oggi?
«Lo sport restituisce innanzitutto il contatto con il reale. È fatto di carne e ossa, di fatica, di sacrifici, ma anche di estro, di creatività, di gioco, di relazioni. Permette di confrontarsi con il limite e di coltivare un sogno. Non importa che solo una piccolissima parte di loro riuscirà a raggiungerlo, importa che il desiderio si accenda e che i giovani possano trovare il coraggio di investire su sé stessi».
Vivendo già in una società particolarmente competitiva, lo sport non rischia di diventare un ulteriore veicolo di competizione?
«La nostra cultura buonista si impegna a tutelare i giovani dalle fatiche e dalle delusioni per poi scaraventarli in pasto a una società ipercompetitiva e ipercomplessa dove l’unica legge è quella del mercato e del profitto. È vero, lo sport subisce il contesto sociale e il rischio di cadere nell’ossessione della prestazione è presente, tuttavia la competizione fa parte del processo di crescita ed è meglio cominciare ad esercitarla imparando a viverla con correttezza e consapevolezza, piuttosto che subirla poi come vittime di un sistema spietato. Le società sportive non sono necessariamente luoghi semplici da vivere per i ragazzi, ma ho l’impressione che molti di loro oggi riconoscano in esse un’istituzione educativa più che nella scuola poiché si sentono messi alla prova senza menzogne e ritrovano la loro dignità».
Interviste a grandi nomi della cultura come Susanna Tamaro e Silvano Tagliagambe, un sincero racconto autobiografico e, soprattutto, una inedita visione filosofica. Questo è L’Io autistico. Tra esperienza personale e riflessione filosofica (Audax), il nuovo libro in cui Emanuele Franz racconta sé stesso e le neuro divergenze.
Lei, come racconta nel libro, è autistico: quando ha scoperto di esserlo?
«Fin da bambino sono stato considerato un ragazzo difficile, il mio maestro alle scuole elementari, il maestro Renato, mi disse recentemente che in tutta la sua carriera di insegnante non aveva mai visto un caso come il mio, il caso Franz, nonostante migliaia di allievi, perché in cinque anni di scuola non avevo fatto una sola attività di gruppo con gli altri, né giocato a calcio, né attività di gioco di gruppo né altro, ero sempre da solo. La maestra Mariangela dice che i compagni notavano in me una diversità, una superiore capacità intellettiva, e mi aggredivano, di conseguenza io mi isolavo ancora di più. Crescendo le cose non sono migliorate, anni da psicologi, pediatri, educatori, psicoterapeuti e psichiatri, chi riteneva fossi depresso, chi addirittura mi ha diagnosticato un ritardo mentale. Ho cercato negli ultimi cinque anni di ricostruire la mia infanzia e capire i miei problemi, mi sono rivolto a psichiatri, neurologi e specialisti, infine dopo quasi un anno di test, visite, esami, mi hanno diagnosticato l’autismo ad alto funzionamento, ovvero ad alta compensazione, prima un neurologo, il dott. Zanini, poi gli specialisti della clinica psichiatrica. Finalmente dopo una vita intera ho dato un nome a una sofferenza intrinseca».
Che cosa significa concretamente vivere questa condizione per lei?
«Mi hanno spiegato che solo a partire dal 2013 è stato possibile arrivare a comprendere e inquadrare il tipo di neurodivergenza che mi accompagna, perché il Dsm quell’anno ha compreso che il cosiddetto “Livello 1” (chiamato nel passato sindrome di Asperger) fa parte di un unico spettro. In buona sostanza si può dire che il mio organismo comprende che ha una “alterazione” e lotta costantemente per correggerla con dei meccanismi di compensazione, l’equilibrio è instabile e dipende dalla pressione ambientale in delicato equilibrio con le condizioni interne. Sembra una condanna, forse lo è, scoprire di avere un marchio, e non dovuto a un trauma, o a una causa esterna, o a una malattia mentale, ma a cagione di una intrinseca condizione fisiologica, si tratta, infatti, di una configurazione del sistema nervoso che colpisce il modo in cui le informazioni con il mondo esterno vengono processate e negoziate, quindi suoni, stimoli, colori, odori, relazioni sociali. L’autistico ha difficoltà enorme a introiettare un modello dall’esterno, e quindi è obbligato a svilupparne uno dall’interno. La vita sociale è compromessa, così come la capacità di gestire stimoli che vengono percepiti in modo diverso dagli altri (l’autistico percepisce un “altro” mondo). Il vantaggio enorme di questa condizione è lo sviluppo di una creatività molto grande, pagata a caro prezzo».
Oggi di autismo si sente parlare molto più spesso che in passato. Ci viene spiegato che esiste uno spettro autistico, e dunque che esistono anche condizioni molto diverse fra loro. Significa che questa società ha finalmente sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti delle neuro divergenze?
«In passato, come accennavo, alcune delle fenomenologie dello spettro autistico venivano intese e inquadrate sotto altre patologie, sicuramente oggi c’è una capacità più raffinata di arrivare a diagnosi obiettive, che il numero degli autistici in generale nella società stia aumentando credo che sia acclarato e le cause, forse, vanno da ricercarsi anche in fattori antropologici, quello che è chiaro è che questa società non è pensata per il soggetto autistico, che, ricordiamolo, è un soggetto che volge su sé stesso e la propria interiorità (autos, in greco, vuol dire appunto “sé stesso” ed è alla base della parola “autismo”). La nostra società consumista vede nella collettività statisticamente rilevante (quindi neurotipica) il modello sul quale forgiare leggi e costumi, il singolo, perché da solo, viene messo all’angolo. Non è un modello sociale inclusivo (se non solo sulla carta). Ci sono i casi gravi di autismo, sovente sono la conseguenza di con-morbilità, ovvero di patologie che si sviluppano in conseguenza all’autismo, perché non viene capito, compreso, e realmente incluso. Penso che da parte di una certa istituzione, sia politica che culturale, ci sia un interesse nel vedere il soggetto autistico come incapace, che sia tollerato in quanto handicappato, che vada sì messo in qualche posto, ma all’angolo, senza una parola. La società teme, e questa è mia convinzione, l’enorme potere creativo della neurodivergenza. Un politico può indurre voti a una persona normale, non a un autistico, il marketing può indurre acquisti a una persona normale ma non a un autistico, per questo, per alcuni è meglio che si pensi che l’autismo sia solo una interdizione, perché così si mette a tacere il potere sovversivo di questa condizione mentale. (Einstein, Newton, Kandinskij, Tesla, erano autistici, e hanno rivoluzionato il mondo)».
Non esiste secondo lei il rischio di una eccessiva medicalizzazione?
«Fermarsi a una diagnosi è un rischio evidente, questo per ogni condizione clinica, come propongo nel mio libro L’Io autistico, esploro il legame tra autismo e un tipo di creatività radicale. Io sono credente e cristiano ortodosso, credo che la carne venga “scritta” dal divino. Diceva San Paolo: “Voi siete una lettera di Cristo scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2 Cor. 3,3). Credo che lo Spirito agisca nella carne, nel sistema nervoso, per introdurre nel mondo idee nuove. Ma per farlo, a volte, deve alterare i meccanismi ordinari dell’organismo. Lo Spirito, essendo un respiro universale, è un qualche cosa che trascende la singolarità dell’organismo, per potersi manifestare deve generare un’alterazione nel corpo, e quindi il mio sistema nervoso è la conseguenza di un’apertura verso lo Spirito, apertura che lo Spirito stesso ha generato. Sono, come dire, una scrittura dello Spirito, il mio corpo è diventato una lavagna di Dio, la penna di Dio ha usato il mio sistema nervoso per scrivere un Poema, ed io sono una strofa del grande Poema dello Spirito».
Lei sostiene che esistano ancora molti stereotipi riguardanti l’autismo. Quali?
«Ogni giorno mi sento dire: “Tu non puoi essere autistico, perché sei intelligente, e ti muovi in mezzo agli altri”, oppure: “L’autismo non è come il diabete, sono diagnosi senza obiettività quelle”, e così via, che dimostrano la grande ignoranza che dilaga sull’argomento. Le famiglie di casi gravi di autismo nutrono una specie di livore verso i casi ad alto funzionamento perché non ci considerano rappresentativi dell’autismo. Si crede che sia una malattia, può esserlo, ma non a prescindere. Lo diventa se non compreso. Esempio: un autistico costretto a livelli di stress elevato (e per noi può esserlo anche prendere un treno) significa torturarlo, è la società, quindi, che patologizza l’autistico, non comprendendolo affatto e costringendolo a un modello di vita che non solo non è pensato per lui, ma è addirittura nocivo».
Lei propone un approccio filosofico all’autismo. In che cosa consiste?
«Sì, la mia proposta di interpretazione è quella della filosofia perché mi occupo di filosofia e storia delle religioni da sempre. Tutto deve avere una spiegazione ulteriore e non solo clinica. Accennavo alla mia idea di vedere nell’autismo una forza spirituale che modella i corpi. Voglio aggiungere che nel passato, ad esempio nell’antica Grecia, sono convinto che dietro ai casi di melanconia si nascondesse la sindrome che oggi chiamiamo autistica. La figura dell’eroe, del genio, erano figure avulse dalla società. Pensiamo a Prometeo, che non è fra gli uomini e nemmeno fra gli Dei, incatenato perché vuole vedere oltre. Ulisse lascia i suoi uomini per rimanere da solo e gettare uno sguardo dove non possono i mortali. Bellerofonte vagava per la terra da solo, dice Omero di lui: solitario vagava allora per la pianura Alea mangiandosi l’anima, evitando l’orma degli uomini. Oreste fugge nel deserto da solo, e così via, la figura che valica le convenzioni umane trovandosi febbrilmente da sola, bandita, emarginata, è stata mitizzata dagli antichi, esaltata, ma ancora non inclusa. È necessario quindi pensare a un nuovo modello sociale, un altro tipo di società – una che riconosce il valore dell’individualità, del contributo unico – l’autistico non solo sarebbe abile, ma addirittura essenziale. Purtroppo oggi viviamo tra due modelli fallimentari: uno tradizionalista, fisso e non inclusivo; e uno che predica un’inclusione illimitata e indistinta. Nessuno dei due funziona per chi, come noi, ha bisogno di autenticità e profondità».
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Il precettore sportivo Paolo Marchesini: «Non ho l’approccio tecnicista del mental coach, punto sui valori. Berlusconi al Monza l’aveva capito».Lo psicologo Giuseppe Lorenzetti: «Oggi la cultura buonista vuol preservare gli adolescenti dalla fatica L’attività fisica restituisce il contatto col reale e permette di confrontarsi con il limite».Emanuele Franz, lo scrittore, a cui è stata diagnosticata la sindrome: «Il sistema nervoso è configurato in modo da processare diversamente le informazioni esterne. Così crea idee nuove». Lo speciale contiene tre articoli.Paolo Marchesini, lei si definisce «precettore sportivo». Ha scritto anche una serie di volumi volti a illustrare i suoi metodi e la sua filosofia. Pare di capire che lei lavori soprattutto con squadre di calcio. Ci spiega allora che cosa fa? Che cos’è il precettore sportivo?«Il precettore sportivo è un educatore classico unico nel genere. Non insegna né istruisce ma propone e condivide. Non infligge nozioni dalla cattedra, ma suscita interesse nel vissuto. Non è lo specialista distaccato che esercita un mestiere, ma il gentiluomo partecipe che testimonia una vocazione. Per questo può davvero educare giovani e adulti allenandosi con la squadra, poiché come una sorta di exemplum virtutis vivente – innanzitutto – impersona dentro al gruppo l’archetipo dell’uomo-calciatore esemplare. Tale accattivante innovazione agevola una radicale educazione pratica ai valori umani di nuova generazione».Da quale esperienza è nata in lei l’idea di inventare una figura simile?«L’idea scoccò nel 1987 al Bologna Fc ma la focalizzai lustri più tardi. Tornato a giocare in Italia dall’estero con una squadra di serie C vi distinsi tre giovani compagni in seria difficoltà, così al solo fine d’ispirarli proposi loro di osservarmi in allenamento. Loro si ripresero in un mese ed io intravidi la malacopia del ruolo di precettore sportivo. Seguì, ispirata da padre Roberto Busa, l’opera pionieristica per costituirlo e metterlo a sistema, giungendo infine al profilo mirabilmente tratteggiato da San Paolo: “Io dunque corro, ma non come chi è senza meta, faccio il pugilato ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri venga io stesso squalificato”». Di figure di sostegno diciamo psicologico nello sport ce ne sono molte. Quale differenza c’è tra un mental coach e un precettore sportivo?«Sono le differenze abissali esistenti tra una figura egemonica ed un ruolo collaborativo; tra un’impostazione diagnostico tecnicista ed un approccio educativo umanizzante; tra chi scompone l’uomo riducendolo ad automatismo meccanico e chi integra la persona valorizzandola come essere umano. In metafora, tra chi nel buio cerca una candela e chi costruisce un impianto d’illuminazione». Lei sostiene che il suo sistema potrebbe contribuire in modo importante a cambiare il modo in cui si gioca a calcio, dalla serie A in giù. Quale è la sua ricetta?«Agli allenatori di serie A dico da tempo che il calcio esige il governo sulla partita tutta. Includo con ciò fondamentali problematiche irrisolte che non riguardano le fasi di gioco (tiri, schemi, ritmo) bensì le “fasi di non-gioco” (liti, risse, proteste) sofferte da tutti. A fine gara allenatori e dirigenti lamentano gli stessi problemi (falli, sanzioni, squalifiche,) che sebbene condizionino i risultati si ripetono sempre. Dunque sono variabili ingestibili allenando il gioco perché di “non-gioco” su cui nessuno opera come occorre».E come si dovrebbe operare allora?«Con un più idoneo know-how dell’educare: l’Ermeneutica dell’Espressione Sportiva. Ne colmai il vuoto quando ne testai protocolli e mansioni per primo in Italia inaugurando il mio ruolo di precettore sportivo. Ora serve diffonderne i benefici nelle prime squadre».E quali sono secondo lei questi benefici?«Abbattimento di ammonizioni, espulsioni e squalifiche fino all’80%. Opportunità di schierare quasi sempre la formazione ideale. Guadagno sui 90’ di gioco dei 30’ di non-gioco sprecati da tutti. Profitto di classifica dai 4-5 ai 9-10 punti in più».Obiettivi ambiziosi. Come si raggiungono?«Lavorando per davvero sull’uomo in allenamento. Oggi gli errori di non-gioco non sono mai corretti con strumenti ed esercizi sul campo perché il know-how valoriale prima inesistente ora c’è ma va gradualmente divulgato. Il precettore sportivo opera entro microfocus di allenamento quotidiani predefiniti con lo staff. In essi egli fa vivere agli uomini che “sono” i calciatori 55 valori umani (umiltà, sacrifico, correttezza, determinazione) con esercitazioni pratiche svolte sistematicamente». È vero che Silvio Berlusconi aveva creduto in questa sua idea? «Riporto quanto il presidente Berlusconi dichiarò: “Nel Monza, caso unico in Italia, abbiamo un precettore, Paolo Marchesini, che segue sul campo e fuori tutti i ragazzi delle giovanili e le loro famiglie, testimoniando i nostri valori”. Credo attesti bene la fiducia nel mio ruolo e il consenso per un’innovazione legata alla tradizione. Ne apprezzò molto infatti l’elegante stile distintivo (in campo tuta colorata dei calciatori, fuori campo abito scuro del gentiluomo) evocante istanze etiche nell’habitus dei comportamenti. In un incontro privato ad Arcore mi chiese il costo del marchio “precettore sportivo”. Risposi: “Una vita intera e la pazienza dei santi”. Allorché chiosò: “Serve nelle prime squadre. 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Il personaggio del protagonista non è realistico nel suo profilo psicologico e ciò rischia di spaventare e di creare confusione più che aiutarci a sostenere i giovani. Il primo strumento per prevenire la violenza è sviluppare l’empatia che ci permette di immedesimarci nelle vittime e nei carnefici: riconoscere l’ombra dentro di noi, accoglierla e trasformarla. Oggi invece i giovani sono bombardati da immagini di violenza senza la possibilità di elaborarle. Gli mancano poi le abilità comunicative per entrare in contatto all’altro, non sono stati abituati al confronto, all’attesa, alla fatica e alla frustrazione. Non hanno punti di riferimento perché spesso i genitori per paura rinunciano al loro ruolo, comportandosi come degli amici, e nel momento del bisogno non sanno a chi chiedere aiuto. Infine l’effetto delle droghe, il cui utilizzo è in continuo aumento, spesso è la miccia che innesca l’esplosione scatenando un disagio latente».Che impatto ha la rivoluzione tecnologica sui ragazzi, nella sua esperienza? «Mi capita di lavorare con ragazzi e ragazze che passano fino a dieci ore al giorno davanti agli schermi e che minacciano i genitori che tentano di limitarne l’utilizzo di gesti autolesionistici. Gli studi dimostrano che le dipendenze da schermi, al pari di quelle classiche da sostanze – in particolare in un cervello in formazione – possono creare danni irreversibili a livello biochimico e strutturale. Dal punto di vista psicologico, disturbi d’ansia, depressivi, crisi di astinenza, ritiro sociale, crollo delle capacità di attenzione e concentrazione sono solo alcuni degli effetti correlati a un abuso di tecnologia. Abbiamo messo in mano alle nuove generazioni degli strumenti potentissimi senza alcuna preparazione e il risultato è che anziché essere sfruttati per le loro potenzialità fungono da ansiolitico per colmare una profonda solitudine e un vuoto di senso. In Svezia, Paese ammaliato dal mito del “progresso”, se ne sono resi conto e stanno cercando di arginare il problema con delle misure importanti».Si dedica molta attenzione ai corpi degli adolescenti, più che altro per parlare di questioni gender. Ma che rapporto hanno davvero i ragazzi con il loro corpo?«La domanda che dovremmo porci sul tema del gender è se le scelte dei giovani in questo ambito siano frutto di una reale assunzione di responsabilità basata su un percorso di crescita e sull’ascolto di sé, o celino invece una domanda di aiuto indiretta attraverso la ricerca impulsiva di un’etichetta con cui identificarsi per dare un nome alla propria angoscia. Sono tutti bravi a parole ad invitare i giovani ad essere loro stessi, ma che significato ha se non creiamo le condizioni educative affinché questa ricerca possa avere atto? Il corpo è al centro del percorso di costruzione della nostra identità, ma oggi i ragazzi vivono intrappolati nel virtuale, sono senza corpo e senza radici, e dunque in balìa delle ideologie dominanti». Come può essere utile lo sport per gli adolescenti di oggi?«Lo sport restituisce innanzitutto il contatto con il reale. È fatto di carne e ossa, di fatica, di sacrifici, ma anche di estro, di creatività, di gioco, di relazioni. Permette di confrontarsi con il limite e di coltivare un sogno. Non importa che solo una piccolissima parte di loro riuscirà a raggiungerlo, importa che il desiderio si accenda e che i giovani possano trovare il coraggio di investire su sé stessi». Vivendo già in una società particolarmente competitiva, lo sport non rischia di diventare un ulteriore veicolo di competizione?«La nostra cultura buonista si impegna a tutelare i giovani dalle fatiche e dalle delusioni per poi scaraventarli in pasto a una società ipercompetitiva e ipercomplessa dove l’unica legge è quella del mercato e del profitto. È vero, lo sport subisce il contesto sociale e il rischio di cadere nell’ossessione della prestazione è presente, tuttavia la competizione fa parte del processo di crescita ed è meglio cominciare ad esercitarla imparando a viverla con correttezza e consapevolezza, piuttosto che subirla poi come vittime di un sistema spietato. Le società sportive non sono necessariamente luoghi semplici da vivere per i ragazzi, ma ho l’impressione che molti di loro oggi riconoscano in esse un’istituzione educativa più che nella scuola poiché si sentono messi alla prova senza menzogne e ritrovano la loro dignità». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vince-chi-diventa-uomo-migliore-2673914156.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="particle-2" data-post-id="2673914156" data-published-at="1756142079" data-use-pagination="False"> Interviste a grandi nomi della cultura come Susanna Tamaro e Silvano Tagliagambe, un sincero racconto autobiografico e, soprattutto, una inedita visione filosofica. Questo è L’Io autistico. Tra esperienza personale e riflessione filosofica (Audax), il nuovo libro in cui Emanuele Franz racconta sé stesso e le neuro divergenze.Lei, come racconta nel libro, è autistico: quando ha scoperto di esserlo?«Fin da bambino sono stato considerato un ragazzo difficile, il mio maestro alle scuole elementari, il maestro Renato, mi disse recentemente che in tutta la sua carriera di insegnante non aveva mai visto un caso come il mio, il caso Franz, nonostante migliaia di allievi, perché in cinque anni di scuola non avevo fatto una sola attività di gruppo con gli altri, né giocato a calcio, né attività di gioco di gruppo né altro, ero sempre da solo. La maestra Mariangela dice che i compagni notavano in me una diversità, una superiore capacità intellettiva, e mi aggredivano, di conseguenza io mi isolavo ancora di più. Crescendo le cose non sono migliorate, anni da psicologi, pediatri, educatori, psicoterapeuti e psichiatri, chi riteneva fossi depresso, chi addirittura mi ha diagnosticato un ritardo mentale. Ho cercato negli ultimi cinque anni di ricostruire la mia infanzia e capire i miei problemi, mi sono rivolto a psichiatri, neurologi e specialisti, infine dopo quasi un anno di test, visite, esami, mi hanno diagnosticato l’autismo ad alto funzionamento, ovvero ad alta compensazione, prima un neurologo, il dott. Zanini, poi gli specialisti della clinica psichiatrica. Finalmente dopo una vita intera ho dato un nome a una sofferenza intrinseca».Che cosa significa concretamente vivere questa condizione per lei?«Mi hanno spiegato che solo a partire dal 2013 è stato possibile arrivare a comprendere e inquadrare il tipo di neurodivergenza che mi accompagna, perché il Dsm quell’anno ha compreso che il cosiddetto “Livello 1” (chiamato nel passato sindrome di Asperger) fa parte di un unico spettro. In buona sostanza si può dire che il mio organismo comprende che ha una “alterazione” e lotta costantemente per correggerla con dei meccanismi di compensazione, l’equilibrio è instabile e dipende dalla pressione ambientale in delicato equilibrio con le condizioni interne. Sembra una condanna, forse lo è, scoprire di avere un marchio, e non dovuto a un trauma, o a una causa esterna, o a una malattia mentale, ma a cagione di una intrinseca condizione fisiologica, si tratta, infatti, di una configurazione del sistema nervoso che colpisce il modo in cui le informazioni con il mondo esterno vengono processate e negoziate, quindi suoni, stimoli, colori, odori, relazioni sociali. L’autistico ha difficoltà enorme a introiettare un modello dall’esterno, e quindi è obbligato a svilupparne uno dall’interno. La vita sociale è compromessa, così come la capacità di gestire stimoli che vengono percepiti in modo diverso dagli altri (l’autistico percepisce un “altro” mondo). Il vantaggio enorme di questa condizione è lo sviluppo di una creatività molto grande, pagata a caro prezzo».Oggi di autismo si sente parlare molto più spesso che in passato. Ci viene spiegato che esiste uno spettro autistico, e dunque che esistono anche condizioni molto diverse fra loro. Significa che questa società ha finalmente sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti delle neuro divergenze?«In passato, come accennavo, alcune delle fenomenologie dello spettro autistico venivano intese e inquadrate sotto altre patologie, sicuramente oggi c’è una capacità più raffinata di arrivare a diagnosi obiettive, che il numero degli autistici in generale nella società stia aumentando credo che sia acclarato e le cause, forse, vanno da ricercarsi anche in fattori antropologici, quello che è chiaro è che questa società non è pensata per il soggetto autistico, che, ricordiamolo, è un soggetto che volge su sé stesso e la propria interiorità (autos, in greco, vuol dire appunto “sé stesso” ed è alla base della parola “autismo”). La nostra società consumista vede nella collettività statisticamente rilevante (quindi neurotipica) il modello sul quale forgiare leggi e costumi, il singolo, perché da solo, viene messo all’angolo. Non è un modello sociale inclusivo (se non solo sulla carta). Ci sono i casi gravi di autismo, sovente sono la conseguenza di con-morbilità, ovvero di patologie che si sviluppano in conseguenza all’autismo, perché non viene capito, compreso, e realmente incluso. Penso che da parte di una certa istituzione, sia politica che culturale, ci sia un interesse nel vedere il soggetto autistico come incapace, che sia tollerato in quanto handicappato, che vada sì messo in qualche posto, ma all’angolo, senza una parola. La società teme, e questa è mia convinzione, l’enorme potere creativo della neurodivergenza. Un politico può indurre voti a una persona normale, non a un autistico, il marketing può indurre acquisti a una persona normale ma non a un autistico, per questo, per alcuni è meglio che si pensi che l’autismo sia solo una interdizione, perché così si mette a tacere il potere sovversivo di questa condizione mentale. (Einstein, Newton, Kandinskij, Tesla, erano autistici, e hanno rivoluzionato il mondo)». Non esiste secondo lei il rischio di una eccessiva medicalizzazione? «Fermarsi a una diagnosi è un rischio evidente, questo per ogni condizione clinica, come propongo nel mio libro L’Io autistico, esploro il legame tra autismo e un tipo di creatività radicale. Io sono credente e cristiano ortodosso, credo che la carne venga “scritta” dal divino. Diceva San Paolo: “Voi siete una lettera di Cristo scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2 Cor. 3,3). Credo che lo Spirito agisca nella carne, nel sistema nervoso, per introdurre nel mondo idee nuove. Ma per farlo, a volte, deve alterare i meccanismi ordinari dell’organismo. Lo Spirito, essendo un respiro universale, è un qualche cosa che trascende la singolarità dell’organismo, per potersi manifestare deve generare un’alterazione nel corpo, e quindi il mio sistema nervoso è la conseguenza di un’apertura verso lo Spirito, apertura che lo Spirito stesso ha generato. Sono, come dire, una scrittura dello Spirito, il mio corpo è diventato una lavagna di Dio, la penna di Dio ha usato il mio sistema nervoso per scrivere un Poema, ed io sono una strofa del grande Poema dello Spirito». Lei sostiene che esistano ancora molti stereotipi riguardanti l’autismo. Quali?«Ogni giorno mi sento dire: “Tu non puoi essere autistico, perché sei intelligente, e ti muovi in mezzo agli altri”, oppure: “L’autismo non è come il diabete, sono diagnosi senza obiettività quelle”, e così via, che dimostrano la grande ignoranza che dilaga sull’argomento. Le famiglie di casi gravi di autismo nutrono una specie di livore verso i casi ad alto funzionamento perché non ci considerano rappresentativi dell’autismo. Si crede che sia una malattia, può esserlo, ma non a prescindere. Lo diventa se non compreso. Esempio: un autistico costretto a livelli di stress elevato (e per noi può esserlo anche prendere un treno) significa torturarlo, è la società, quindi, che patologizza l’autistico, non comprendendolo affatto e costringendolo a un modello di vita che non solo non è pensato per lui, ma è addirittura nocivo». Lei propone un approccio filosofico all’autismo. In che cosa consiste?«Sì, la mia proposta di interpretazione è quella della filosofia perché mi occupo di filosofia e storia delle religioni da sempre. Tutto deve avere una spiegazione ulteriore e non solo clinica. Accennavo alla mia idea di vedere nell’autismo una forza spirituale che modella i corpi. Voglio aggiungere che nel passato, ad esempio nell’antica Grecia, sono convinto che dietro ai casi di melanconia si nascondesse la sindrome che oggi chiamiamo autistica. La figura dell’eroe, del genio, erano figure avulse dalla società. Pensiamo a Prometeo, che non è fra gli uomini e nemmeno fra gli Dei, incatenato perché vuole vedere oltre. Ulisse lascia i suoi uomini per rimanere da solo e gettare uno sguardo dove non possono i mortali. Bellerofonte vagava per la terra da solo, dice Omero di lui: solitario vagava allora per la pianura Alea mangiandosi l’anima, evitando l’orma degli uomini. Oreste fugge nel deserto da solo, e così via, la figura che valica le convenzioni umane trovandosi febbrilmente da sola, bandita, emarginata, è stata mitizzata dagli antichi, esaltata, ma ancora non inclusa. È necessario quindi pensare a un nuovo modello sociale, un altro tipo di società – una che riconosce il valore dell’individualità, del contributo unico – l’autistico non solo sarebbe abile, ma addirittura essenziale. Purtroppo oggi viviamo tra due modelli fallimentari: uno tradizionalista, fisso e non inclusivo; e uno che predica un’inclusione illimitata e indistinta. Nessuno dei due funziona per chi, come noi, ha bisogno di autenticità e profondità».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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