Quello che moltissimi cattolici speravano era un po’ di pace; che Leone XIV fosse capace di sminare le innumerevoli bombe piazzate in questi anni, da uomini di Chiesa, sulla strada che porta a Cristo.
Dopo un decennio di confusione, di dichiarazioni sconcertanti, di gare a chi la spara più grossa, di palcoscenici su cui ogni vescovo, ogni cardinale, ogni prete poteva fare e disfare la verità evangelica a suo piacimento, si sognava una tregua. E Leone XIV ha fatto subito capire di averlo ben compreso. Ha ridotto drasticamente interviste ed esternazioni improvvisate, ha ridato dignità a cardinali che erano stati umiliati e messi ai margini, senza motivo, ha invitato i pastori a scomparire per lasciare posto a Cristo e ha dimostrato di voler governare con calma e pazienza, senza colpi di mano bizzosi e spiazzanti.
L’effetto è stato subito visibile: una sorta di «tregua Dei» all’interno di una Chiesa ridotta ai minimi termini, almeno in Occidente, ma soprattutto terribilmente confusa, disorientata e lacerata. Purtroppo, però, sembra che qualcuno voglia riaprire le danze e tornare a seminare dubbi e confusione, laddove ci dovrebbero essere, per un cattolico, verità di fede e carità. Il sinodo della Cei, infatti, si appresta, di fatto, a rinnovare la dottrina sulla morale sessuale evangelica, aprendo alle istanze del mondo Lgbtq. Non alle persone, intendo, perché la Chiesa è aperta al pentimento di tutti, degli adulteri come dei sodomiti, dei ladri come degli omicidi, ma alle idee, alle visioni antropologiche, di cui questi gruppi organizzati si fanno portatori. È stato monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vice presidente della Cei, a dar fuoco alle polveri e a prospettare un cambio radicale nella dottrina.
Per Savino, il Vangelo e San Paolo, tutto il magistero dei Papi della storia, deve essere ribaltato con conseguenze che appaiono evidenti: il suo desiderio di benedire i gay pride - di saltare su quei carri zeppi di sederi al vento, immagini sacre derise, inni alla «liberazione sessuale» magari con una sottile stola arcobaleno sulle spalle discinte -, è, evidentemente, una benedizione di tutto ciò che questi raduni comportano. È, in altre parole, certificazione mascherata della bontà dell’omosessualismo e del transessualismo, dell’utero in affitto e del matrimonio gay.… In poche parole, monsignor Savino è pronto a ribaltare le parole che stanno proprio in principio del testo sacro: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi».
Con lui, evidentemente, altri prelati a cui la morale naturale e cristiana sta piuttosto stretta: basti leggere il documento sinodale, dal titolo «Lievito di pace e di speranza», che sarà votato sabato 25 ottobre dalla Terza assemblea sinodale delle Chiesa in Italia, per capire che la modalità scelta per cambiare la dottrina è un misto tra le furbate di don Abbondio (il suo uso strumentale del latino e di disposizioni di per sé sacrosante) e la capziosità di Azzeccagarbugli.
In questo modo, parole sacrosante come «accoglienza», «pastorale» e così via divengono ancora una volta il modo non per incontrare amorevolmente erranti e peccatori, come la Chiesa ha sempre fatto, sulla strada della conversione, ma per confermarli nelle loro scelte, per certificare che il peccato, alla fin fine, non esiste più. È evidente, infatti, che simili «tana libera tutti» minaccino di riaprire ferite che si pensava potessero, finalmente e piano piano, rimarginarsi. Ma il laicato cattolico e molti sacerdoti sembrano decisi, questa volta, a non stare a guardare.
Si muove sotterraneo, sulla Rete, tra i gruppi pro life, nelle parrocchie ancora vitali, nei gruppi social, un desiderio di mobilitazione, una «chiamata all’azione» che riporta alla memoria le parole del Santo cardinale Henry Newman, quando ricordava che la Chiesa docente non è sempre stata, nella storia, lo strumento più attivo dell’infallibilità e che in varie occasioni erano stati i laici a ricordare ai Savino di ogni tempo che nessuno ha il diritto di cambiare iota unum della rivelazione di Cristo. Anche se prova a farlo, come il già citato Savino, richiamandosi agli studi e alle idee di moda del proprio tempo.
Quando si racconta la storia di Robert Oppenheimer, immancabilmente si cita la frase da lui pronunciata dopo il primo test atomico, quello chiamato, un po’ misteriosamente, Trinity. La frase, tratta da un testo sacro indù, la Bhagavad Gita, recita: «Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi». Abbiamo dunque una parola tratta dalla tradizione cristiana, «Trinità», e una frase di tutt’altra provenienza. Sì perché Robert Oppenheimer conosce il sanscrito e ama le religioni orientali, pur non credendo nell’immortalità dell’anima.
Possiamo chiederci come mai un ebreo come lui, davanti al deserto provocato dal primo esperimento atomico, non scelga immagini apocalittiche tratte dal libro sacro del suo popolo: la Bibbia. Il motivo è presto detto: il giovane Oppenheimer è, come James Franck, Edward Teller, Richard Feynman, Isidor Isaac Rabi, John von Neumann e vari altri fisici di Los Alamos, un ebreo non praticante, ateo più che agnostico. Già la sua famiglia, di origini tedesche, ha rinnegato le sue radici religiose, mantenendo un legame molto esile anche con la propria appartenenza etnica. La Germania ottocentesca, del resto, era il Paese che più di ogni altro in Europa aveva sviluppato una convinzione: che fosse meglio rifarsi, quanto alle origini della civiltà, alle religioni indiane, piuttosto che a quella biblica.
Il popolo ebreo era visto come un branco di rozzi, barbari, ignoranti, e la Bibbia come un cumulo di favole e di sciocchezze. Lo pensavano, tra gli altri, filosofi come Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche, mentre ebrei di cultura tedesca come Karl Marx e Sigmund Freud contribuivano a screditare il testo sacro degli ebrei e dei cristiani, con argomentazioni varie. Lo stesso nazionalsocialismo, nel Novecento, affonderà le proprie radici anche in questo humus culturale: disprezzo assoluto degli ebrei e della Bibbia e ammirazione per il mondo pagano antico e per le religioni orientali (di qui l’adozione della svastica, ma anche la credenza di Hitler nella reincarnazione e nel tempo ciclico).
Oppenheimer è dunque un ebreo che si muove tra ateismo e agnosticismo, totalmente estraneo alla legge mosaica. Il suo amico, Jeremy Bernstein, fisico ed ebreo anch’egli, ricorda, nella sua biografia intitolata Oppenheimer: ritratto di un enigma: «Dubito che Oppenheimer abbia mai messo piede in una sinagoga per motivi religiosi». E aggiunge che, nella scuola ebraica dove si era formato, erano rigorosamente escluse «la preghiera e qualsiasi altra forma di rito».
Epperò, dopo lo scoppio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, dopo che la fama e gli onori lasciano spazio al disonore seguente al ben noto processo, qualcosa, nell’animo di Robert, cambia gradualmente. Ed ecco che anche il linguaggio comincia a mutare: di qui la comparsa di riferimenti non solo a testi indù, ma - ecco la novità! - a contenuti e concetti propri di una tradizione ebraico-cristiana parzialmente riscoperta, almeno a livello intellettuale. Sappiamo che, nel marzo del 1946, Oppenheimer confida al presidente Harry Truman: «Signor presidente, ho le mani sporche di sangue». La risposta di Truman è dura e pilatesca: «Quando se le laverà, passerà tutto».
Oppenheimer potrebbe mettersi l’animo in pace: nell’induismo non esiste vera libertà, e dunque egli potrebbe considerarsi un semplice strumento del destino, privo di ogni responsabilità. Del resto, faranno così molti gerarchi nazisti, come Adolf Eichmann, dichiarando appunto di essere stati strumenti del «fato», senza colpa veruna. No, l’Oppenheimer dopo il 1945 sembra un po’ come l’empio della Bibbia, che «fugge anche se nessuno lo insegue». È inquieto, combattuto, dubbioso. In una conferenza tenuta al Mit nel novembre 1947 afferma: «In un senso crudo che non potrebbe essere cancellato da nessuna accezione volgare o umoristica, i fisici hanno conosciuto il peccato... Io non prenderò più parte a progetti di guerra. Abbiamo fatto il lavoro del diavolo». Parla poi dell’uso della bomba come «perdita dell’innocenza». Il linguaggio è di origine biblica: ci sono il peccato, il diavolo e la perdita dell’innocenza. Il riferimento, in altre parole, non è al peccato genericamente inteso, ma specificamente al peccato originale della Genesi, all’albero della conoscenza del bene e del male, all’eritis sicut Dei sibilato dal serpente. In altre parole Oppenheimer suggerisce che gli scienziati di Los Alamos hanno violato il limite imposto da Dio all’origine del mondo e, in nome della conoscenza, si sono fatti padroni del bene e del male, perdendo l’innocenza primordiale.
Cosa è accaduto? Che le concezioni orientali non gli bastano più, perché nella sua coscienza si è fatto strada il rimorso, lo scrupolo, il senso di responsabilità (parola che usa, notano gli amici, in tono quasi «religioso») e nessun Dharma, nessun destino può davvero convincerlo che ha agito senza colpa. Nessun mito del superuomo «al di là del bene e del male» riesce a zittire la voce interiore che ripete il mosaico «non uccidere». Così, se leggiamo altre conferenze e altri discorsi di Oppenheimer di quest’ultima fase della sua vita, troveremo inviti a non abbandonare i valori della tradizione cristiana, citazioni di Socrate e di Gesù, e persino il desiderio di entrare più a fondo nel dibattito filosofico e teologico, contraddicendo il mito del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau (cioè il più forte tentativo filosofico di negare il peccato originale) e l’insegnamento dell’eretico Giovanni Calvino che, con la sua dottrina della predestinazione, ha deresponsabilizzato l’uomo. Leggiamo le parole di Oppenheimer, pronunciate in una conferenza del 2 settembre 1964: «La maggior parte di noi dovrebbe cercare di conoscere a fondo quello che c’è di peggio in noi stessi; non dovremmo stupirci di trovarvi qualcosa di cattivo, di male; male che denunciamo così facilmente al di fuori di noi e in tutti gli altri. E neppure dovremmo, come ha tentato Rousseau, confortarci persuadendoci che la responsabilità e la colpa incombono sugli altri, che noi siamo fondamentalmente buoni; non dovremmo lasciarci persuadere da Calvino che, nonostante i nostri ovvi doveri, non abbiamo nessun potere, sia pur piccolo e limitato, per combattere il male che è in noi».
Qualche anno prima, il 15 ottobre 1959, ha dichiarato: «È incontestabile che viviamo tutti dell’eredità di una tradizione cristiana. Molti di noi sono credenti: nessuno è insensibile alle ingiunzioni, alle speranze, all’ordine della cristianità. È per questo che sono sconcertato nel constatare che non si è impegnato nessun dibattito morale di una qualche nobiltà e di un qualche peso sul problema delle nuove armi, delle armi atomiche». Il giovane Oppenheimer, uomo ricco, cinico, di successo, ha giocato a fare Dio: ma una volta invecchiato, provato il senso di colpa prima e l’imminenza della morte, causa un cancro alla gola, poi, si rende conto di quanto l’uomo sia, in verità, una semplice creatura. Emblematico è il titolo scelto per una conferenza a New York, nella primavera del 1963: The Added Cubit («il cubito aggiunto»). Di cosa si tratta? Di un passo estratto dal Vangelo di San Matteo: «E chi di voi può, con la sua preoccupazione, aggiungere un solo cubito alla sua vita?». Come dire: possiamo portare distruzione e morte, ma non possiamo aggiungere un’ora alla nostra vita, perché questo è in potere soltanto del Dio Creatore della vita.
Nel 1882, al 45° Congresso dei naturalisti e medici tedeschi, a Lipsia, il fisiologo Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) ebbe a dichiarare: «Che rapporto può esserci tra gli atomi nel mio cervello e, dall’altro lato, le mie esperienze originarie e innegabili: ho dolore o desiderio, sento profumo di rosa, odo suono d’organo, vedo rosso? È incomprensibile, e lo sarà sempre, che dalla combinazione di carbonio, azoto, idrogeno, ossigeno, prenda forma la vita cosciente. Ignoramus et ignorabimus».
Se l’uomo fosse unicamente il suo cervello, il suo corpo, se cioè l’uomo fosse un oggetto (visione materialista), un «pacchetto» o di geni o di neuroni che impongono all’uomo ciò che essi «decidono», il nostro sentirci unici, singoli, soggetti, liberi... sarebbe solo un inganno, un’illusione, perchè nel regno della materia e degli oggetti, soggettività, libertà, volontà, coscienza, moralità, valori... non esistono.
Se invece l’uomo è mente e cervello, anima e corpo, ognuno di noi dice davvero «Io», pensa e agisce con un certo grado di libertà, oltre il rigido determinismo imposto dalle leggi fisiche.
Scrive un neurochirurgo di oggi, Massimo Gandolfini, circa 150 anni dopo Emil Du Bois-Reymond: «Non siamo in grado (lo saremo mai?) di spiegarci come da una serie di eventi elettrochimici, che accadono all’interno dei neuroni, rispettando le leggi naturali della fisica e della chimica (quindi uguali in tutti e per tutti), emerga la soggettività di ogni uomo, capace di dare risposte e attuare comportamenti opposti a stimoli identici, manifestando volontà autonoma».
Un altro celebre neuroscienziato vivente, Giulio Maira, si esprime così: «Suscita stupore e sconcerto che il nostro cervello sia composto di atomi forgiati miliardi di anni fa nel cuore delle stelle lontane. Per i fisici siamo letteralmente figli delle stelle. La cosa incredibile sta nel fatto che questi atomi si siano assemblati in modo da costituire l’organo più importante dell’universo e che adesso questi atomi formino una massa in grado di riflettere non solo sulle stesse stelle, ma anche sulla propria capacità di pensare. Tuttavia, come da quest’insieme di materia possa nascere un pensiero intelligente è ancora avvolto nel mistero. Nulla nella materia è un grado di spiegare le qualità della mente. Questo è l’enigma della coscienza ed è anche il mistero più profondo della nostra conoscenza. È il problema difficile, “the hard problem”, com’è stato definito da filosofi e neuroscienziati».
L’oggetto-cervello, il più complesso dell’universo, composto di neuroni, sottomesso come tutti gli oggetti alle leggi della fisica e della chimica, dunque, non è da solo in grado di spiegare qualcosa di «misterioso», cioè l’unicità della percezione cosciente, soggettiva e singolare del mondo.
Abbiamo tutti un pianoforte (il cervello), più o meno simile, con cui entriamo in contatto con il mondo, in modo analogo: eppure ognuno di noi suona la sua propria personale musica!
Abbiamo tutti occhiali più o meno simili, eppure allo stesso fiore e allo stesso tramonto, diamo significati diversi.
Abbiamo tutti le medesime orecchie, ma persino quando sentiamo lo stesso discorso e le stesse parole, i medesimi suoni fisici, possiamo reagire in modo diversi.
Ognuno di noi, insomma, si percepisce e si comporta come un «Io», unico e differente dagli altri. (Non manca, anche in questo caso, chi tenta una risposta materialista alla domanda sull’origine della coscienza. «Forse», scrive il già citato Brooks, «non esiste la coscienza, forse questa consapevolezza costante e questo senso del pensare il mondo in realtà sono un’illusione. Forse il cervello ci inganna…». Non si rende conto, il Brooks, che sta dicendo che il cervello ingannerebbe un io, appena negato. Ma chi inganna chi? Può il cervello - se siamo solo cervello - ingannare sé stesso? Una simile frase, che valenza scientifica e razionale possiede?).
Scrive il neuroscienziato vivente Eugenio Melotti: «La soggettività dell’esperienza cosciente mal si sposa con l’oggettività che la scienza esige... ci si potrebbe domandare in che modo la scienza, con il suo metodo fatto di osservazioni oggettive e misurazioni, possa accedere al regno della coscienza, di per sé privato e soggettivo»; e ancora: «in che modo un tessuto grigio rosaceo, umido, del peso di circa 1.400 grammi, racchiuso nel cranio, origina un fenomeno misterioso come l’esperienza di esistere, di essere qualcuno e di abitare in un corpo?».
«Da un lato», afferma il neuroscienziato vivente Christof Koch, «c’è il cervello, l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto, un’entità materiale soggetta alle leggi della fisica; dall’altra il mondo della consapevolezza, delle immagini e dei suoni della vita, della paura e della rabbia, del desiderio e dell’amore, della noia... La coscienza non compare nelle equazioni che costituiscono i fondamenti della fisica, né nella tavola periodica della chimica e nemmeno nell’infinita sequenza molecolare di A,T, G e C dei nostri geni. Eppure, voi, come me, siamo coscienti»; e ancora: «Gli studiosi non sanno per quale ragione il nostro mondo interiore, il mondo mentale, esiste, e ancora meno sanno di cosa è fatto. Questo enigma pervicace rende la coscienza un’entità irritante per alcuni miei colleghi, e per molti di loro addirittura una sciagura».





