2023-10-20
Quando Oppenheimer si scoprì cristiano
Robert Oppenheimer (Getty Images)
Ebreo più ateo che non praticante, il padre dell’atomica era un appassionato di religioni orientali, che privilegiano il fato sulla volontà umana. Ma, dopo Hiroshima e Nagasaki, riprese in mano la Bibbia e tornò alla predicazione evangelica di Gesù.Quando si racconta la storia di Robert Oppenheimer, immancabilmente si cita la frase da lui pronunciata dopo il primo test atomico, quello chiamato, un po’ misteriosamente, Trinity. La frase, tratta da un testo sacro indù, la Bhagavad Gita, recita: «Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi». Abbiamo dunque una parola tratta dalla tradizione cristiana, «Trinità», e una frase di tutt’altra provenienza. Sì perché Robert Oppenheimer conosce il sanscrito e ama le religioni orientali, pur non credendo nell’immortalità dell’anima. Possiamo chiederci come mai un ebreo come lui, davanti al deserto provocato dal primo esperimento atomico, non scelga immagini apocalittiche tratte dal libro sacro del suo popolo: la Bibbia. Il motivo è presto detto: il giovane Oppenheimer è, come James Franck, Edward Teller, Richard Feynman, Isidor Isaac Rabi, John von Neumann e vari altri fisici di Los Alamos, un ebreo non praticante, ateo più che agnostico. Già la sua famiglia, di origini tedesche, ha rinnegato le sue radici religiose, mantenendo un legame molto esile anche con la propria appartenenza etnica. La Germania ottocentesca, del resto, era il Paese che più di ogni altro in Europa aveva sviluppato una convinzione: che fosse meglio rifarsi, quanto alle origini della civiltà, alle religioni indiane, piuttosto che a quella biblica. Il popolo ebreo era visto come un branco di rozzi, barbari, ignoranti, e la Bibbia come un cumulo di favole e di sciocchezze. Lo pensavano, tra gli altri, filosofi come Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche, mentre ebrei di cultura tedesca come Karl Marx e Sigmund Freud contribuivano a screditare il testo sacro degli ebrei e dei cristiani, con argomentazioni varie. Lo stesso nazionalsocialismo, nel Novecento, affonderà le proprie radici anche in questo humus culturale: disprezzo assoluto degli ebrei e della Bibbia e ammirazione per il mondo pagano antico e per le religioni orientali (di qui l’adozione della svastica, ma anche la credenza di Hitler nella reincarnazione e nel tempo ciclico).Oppenheimer è dunque un ebreo che si muove tra ateismo e agnosticismo, totalmente estraneo alla legge mosaica. Il suo amico, Jeremy Bernstein, fisico ed ebreo anch’egli, ricorda, nella sua biografia intitolata Oppenheimer: ritratto di un enigma: «Dubito che Oppenheimer abbia mai messo piede in una sinagoga per motivi religiosi». E aggiunge che, nella scuola ebraica dove si era formato, erano rigorosamente escluse «la preghiera e qualsiasi altra forma di rito».Epperò, dopo lo scoppio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, dopo che la fama e gli onori lasciano spazio al disonore seguente al ben noto processo, qualcosa, nell’animo di Robert, cambia gradualmente. Ed ecco che anche il linguaggio comincia a mutare: di qui la comparsa di riferimenti non solo a testi indù, ma - ecco la novità! - a contenuti e concetti propri di una tradizione ebraico-cristiana parzialmente riscoperta, almeno a livello intellettuale. Sappiamo che, nel marzo del 1946, Oppenheimer confida al presidente Harry Truman: «Signor presidente, ho le mani sporche di sangue». La risposta di Truman è dura e pilatesca: «Quando se le laverà, passerà tutto».Oppenheimer potrebbe mettersi l’animo in pace: nell’induismo non esiste vera libertà, e dunque egli potrebbe considerarsi un semplice strumento del destino, privo di ogni responsabilità. Del resto, faranno così molti gerarchi nazisti, come Adolf Eichmann, dichiarando appunto di essere stati strumenti del «fato», senza colpa veruna. No, l’Oppenheimer dopo il 1945 sembra un po’ come l’empio della Bibbia, che «fugge anche se nessuno lo insegue». È inquieto, combattuto, dubbioso. In una conferenza tenuta al Mit nel novembre 1947 afferma: «In un senso crudo che non potrebbe essere cancellato da nessuna accezione volgare o umoristica, i fisici hanno conosciuto il peccato... Io non prenderò più parte a progetti di guerra. Abbiamo fatto il lavoro del diavolo». Parla poi dell’uso della bomba come «perdita dell’innocenza». Il linguaggio è di origine biblica: ci sono il peccato, il diavolo e la perdita dell’innocenza. Il riferimento, in altre parole, non è al peccato genericamente inteso, ma specificamente al peccato originale della Genesi, all’albero della conoscenza del bene e del male, all’eritis sicut Dei sibilato dal serpente. In altre parole Oppenheimer suggerisce che gli scienziati di Los Alamos hanno violato il limite imposto da Dio all’origine del mondo e, in nome della conoscenza, si sono fatti padroni del bene e del male, perdendo l’innocenza primordiale.Cosa è accaduto? Che le concezioni orientali non gli bastano più, perché nella sua coscienza si è fatto strada il rimorso, lo scrupolo, il senso di responsabilità (parola che usa, notano gli amici, in tono quasi «religioso») e nessun Dharma, nessun destino può davvero convincerlo che ha agito senza colpa. Nessun mito del superuomo «al di là del bene e del male» riesce a zittire la voce interiore che ripete il mosaico «non uccidere». Così, se leggiamo altre conferenze e altri discorsi di Oppenheimer di quest’ultima fase della sua vita, troveremo inviti a non abbandonare i valori della tradizione cristiana, citazioni di Socrate e di Gesù, e persino il desiderio di entrare più a fondo nel dibattito filosofico e teologico, contraddicendo il mito del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau (cioè il più forte tentativo filosofico di negare il peccato originale) e l’insegnamento dell’eretico Giovanni Calvino che, con la sua dottrina della predestinazione, ha deresponsabilizzato l’uomo. Leggiamo le parole di Oppenheimer, pronunciate in una conferenza del 2 settembre 1964: «La maggior parte di noi dovrebbe cercare di conoscere a fondo quello che c’è di peggio in noi stessi; non dovremmo stupirci di trovarvi qualcosa di cattivo, di male; male che denunciamo così facilmente al di fuori di noi e in tutti gli altri. E neppure dovremmo, come ha tentato Rousseau, confortarci persuadendoci che la responsabilità e la colpa incombono sugli altri, che noi siamo fondamentalmente buoni; non dovremmo lasciarci persuadere da Calvino che, nonostante i nostri ovvi doveri, non abbiamo nessun potere, sia pur piccolo e limitato, per combattere il male che è in noi».Qualche anno prima, il 15 ottobre 1959, ha dichiarato: «È incontestabile che viviamo tutti dell’eredità di una tradizione cristiana. Molti di noi sono credenti: nessuno è insensibile alle ingiunzioni, alle speranze, all’ordine della cristianità. È per questo che sono sconcertato nel constatare che non si è impegnato nessun dibattito morale di una qualche nobiltà e di un qualche peso sul problema delle nuove armi, delle armi atomiche». Il giovane Oppenheimer, uomo ricco, cinico, di successo, ha giocato a fare Dio: ma una volta invecchiato, provato il senso di colpa prima e l’imminenza della morte, causa un cancro alla gola, poi, si rende conto di quanto l’uomo sia, in verità, una semplice creatura. Emblematico è il titolo scelto per una conferenza a New York, nella primavera del 1963: The Added Cubit («il cubito aggiunto»). Di cosa si tratta? Di un passo estratto dal Vangelo di San Matteo: «E chi di voi può, con la sua preoccupazione, aggiungere un solo cubito alla sua vita?». Come dire: possiamo portare distruzione e morte, ma non possiamo aggiungere un’ora alla nostra vita, perché questo è in potere soltanto del Dio Creatore della vita.