2025-08-24
A Rimini focus sulle strategie per aiutare chi vuole più figli: siamo maglia nera.Il declino demografico diffuso in Europa e in Italia, nonostante le politiche adottate, è una realtà con cui si deve fare i conti. Il tema è stato discusso nella seconda giornata del Meeting di Rimini con un panel che ha coinvolto il professore di statistica sociale Mario Bolzan, il professore di politica economica della Lumsa Matteo Rizzolli, il coordinatore del network associativo Ditelo sui tetti, Domenico Menorello, il presidente del Movimento per la vita, Marina Casini Bandini, e il direttore comunicazione, stampa e progetti associativi di Farmindustria, Agostino Carloni.Appurato che il fenomeno è piuttosto omogeneo nei Paesi industrializzati, i dati italiani sono ancora meno incoraggianti: è emerso che se in Europa ad avere figli unici è il 47% delle famiglie, nel nostro Paese la percentuale arriva al 52%.Tra l’altro, secondo le stime dell’Istat, nel 2041 più di 10 milioni di persone saranno sole e oltre il 40% dei nuclei familiari saranno composti da una sola persona nel 2050. Attualmente, le persone sole sono 9 milioni: si tratta di quasi 2 milioni in più rispetto al 2012. E riguardo alla fotografia attuale del nostro Paese, secondo Istat e Censis, il 35% delle famiglie è composta da una sola persona. Di questa percentuale il 41% sono single, ovvero non si sono mai sposati o separati o non sono vedovi, il 24% sono persone separate che non si sono più sposate e il 35% sono vedovi o vedove. Bolzan ha sottolineato che questo trend è trasversale, coinvolgendo anche altri Paesi industrializzati. Tornando al nostro Paese, in merito al desiderio dei giovani di creare una famiglia, Bolzan ha messo in luce i dati di uno studio secondo cui tra il 2012 e il 2022 la percentuale di chi dichiarava di volere figli è passata dal 95% all’85%. A prendere quota, nel 2021 sono stati, d’altra parte, coloro che si identificano come childfree: si tratta del 15% dei giovani. Nello stesso anno, il 40% ha dichiarato di sentirsi realizzato nella vita anche qualora non avesse figli. Sempre in Italia negli ultimi 30 anni l’età in cui ci si sposa è aumentata in media di più di sette anni: se nel 1990 per le donne l’età del primo matrimonio era quasi 26 anni, nel 2020 superava i 33; lo stesso trend, spostato di due anni in più, riguarda gli uomini. Le convivenze, comparando il biennio 2000-2001 e 2022-2023, sono più che triplicate. Guardando alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nel 2022 ne sono state registrate più di 2.800: dal 2017 quindi sono state celebrate 16.000 unioni prevalentemente tra uomini. È interessante poi notare le politiche familiari intraprese da diversi Paesi nel 2010 per far fronte alla natalità. I Paesi francofoni hanno intrapreso una direzione del Fisco family friendly, il cosiddetto quoziente familiare, i Paesi scandinavi hanno dato priorità ai servizi pubblici, alla conciliazione famiglia-lavoro nonché priorità alle tematiche di uguaglianza di genere e di diritti universali. Nell’area germanofona, lo Stato ha svolto un ruolo sussidiario che quindi entra in campo con assegni e detrazioni. Mentre nei Paesi anglosassoni le politiche familiari coincidono con interventi sociali nei casi di necessità, dunque un approccio assistenzialista. Per quanto riguarda il Sud dell’Europa, quindi Italia, Spagna e Portogallo, ciò che emerge è una politica frammentata che conta maggiormente sulla rete di solidarietà a livello parentale e familiare. Da questo spaccato emerge un minimo comun denominatore, tranne «forse il caso francese» come ha sottolineato Rizzolli: in queste azioni governative è stato posto l’accento più sui figli che sulla famiglia, focalizzandosi maggiormente sulla necessità di ridurre il costo dei bambini. Con le diverse politiche familiari che quindi non hanno cambiato la traiettoria della denatalità, nel dibattito sono quindi emerse diverse proposte per un cambio di marcia. Per Rizzolli, per esempio, come esiste la legge annuale sulla concorrenza bisognerebbe creare una legge annuale sulla famiglia e anche intraprendere una valutazione di impatto generazionale family friendly, un po’ come l’Ue valuta le politiche ambientali. Menorello, tra le proposte, ha avanzato quella di riconoscere un bonus di cubatura per ogni figlio, da utilizzare per esempio per estendere l’abitazione della famiglia. Ma anche quella di destinare una quota del risparmio annuale a iniziative che riconoscono i rapporti affettivi, educativi e di cura verso una nuova vita. Seppure con «misure troppo minuscole», ha riconosciuto che si sta aprendo la strada per «una tax unit familiare» così come per «l’iniziale previsione di un quoziente familiare».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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