Dal terrazzo di Palazzo Rainaldi viene incontro un infinito bello: colline e badie e all’orizzonte balugina, oltre il Conero, l’incanto dell’Adriatico. Scrisse Guido Piovene che questa è la sintesi dei paesaggi del mondo: ha ragione. Diventa armonia assoluta con la signora Giovanna (Palazzetti in Giulianelli), cultrice e coltivatrice di biologico che qui, con l’abilità di un giovanissimo cuoco, Emanuele Francioni, ha costituto il miglior bar d’Italia, una delle tavole più squisite per il cibo naturale, e nelle avite stanze fa un’accoglienza di charme rurale. «Lo abbiamo voluto», spiega Fabio Giulianelli, amministratore delegato del gruppo Lube, leader nelle cucine: quasi 280 milioni di fatturato, vicina ai 700 dipendenti, export in 60 Paesi, «perché per noi l’armonia è vita. Giovanna si mette in sintonia con la natura e nasce una spontanea accoglienza».
Il resto lo fa Treia – sede dell’atavica accademia georgica – dove Giacomo Leopardi cantò Carlo Didimi «un vincitore nel pallone». Questa storia comincia da un pallone, da Treia e arriva in cima al mondo. Fabio Giulianelli dopo 35 anni si gode il successo planetario della pallavolo italiana, forse lo sport più praticato dai giovani: un milione e mezzo di tesserati e le due nazionali – maschile e femminile – contemporaneamente campioni del mondo.
Com’è nata la storia della Lube sotto rete?
«Da una sfida di Paese e da un evento tornato oggi attualissimo. È il 1990, l’Italia del calcio fa flop nei mondiali di casa, Julio Velasco – che ha vinto il mondiale quest’anno con le ragazze – conquista con la “generazione di fenomeni” il mondiale nel volley maschile. Delusi dal calcio, gli italiani non parlano d’altro. Qui a Treia avevamo una squadra di serie D, non me ne ero mai occupato. Da giovane giocavo a calcio. Vengono alla Lube e ci chiedono di sponsorizzarla. Ne parlo con Luciano Sileoni che è il fondatore del nostro gruppo – ci dividiamo a metà quote e responsabilità – e decidiamo una linea. La Lube non sponsorizza: o compra o sta a casa. E comprammo. Solo che la pallavolo è contagiosa. Abbiamo profuso lo stesso impegno in azienda come nella squadra. Nel 2006 è arrivato il primo scudetto, in estate festeggiamo i vent’anni. E poi le Coppe dei Campioni e oggi ho tre ragazzi in Nazionale e campioni del mondo. Luciano è il primo tifoso della Lube, non perde una partita. E soffre!».
Trentacinque anni proprietari di una squadra: è un record!
«Sì e ne siamo orgogliosi. Siamo i soli perché abbiamo creduto nello sport come impegno sociale. Mi fa arrabbiare vedere che al calcio si tributano onori e quattrini spropositati, si magnificano presidenti che speculano, si trasmette in tv ogni sorta di partita. Noi siamo bicampioni del mondo, la pallavolo è lo sport più praticato dalle ragazze e siamo relegati in un limbo tra esaltazione e indifferenza. E invece noi siamo popolo. Ancora si ricordano quando nel 2006 dovemmo giocare la finale a Pesaro contro quella che allora era una squadra mito: la Sisley-volley Treviso. Riempimmo il palasport con 13.000 persone, sull’autostrada c’era la fila. Noi Lube vincemmo in quella che era la cattedrale delle cucine; un distretto industriale formidabile che è ancora così: Scavolini, Berloni, Febal. La Lube, allora Macerata, faceva scoprire al mondo le Marche. La sottovalutazione di questo sport meraviglioso la dà proprio la mancanza d’impianti. Noi siamo di Treia, la storia aziendale è a Treia dove stiamo raddoppiando lo stabilimento, la prima squadra è stata a Treia, ma mai abbiamo giocato qui. Ci siamo accasati a Macerata, poi anche quel palazzetto – che non hanno voluto ingrandire – è diventato stretto e ci siamo trasferiti a Civitanova dove ci hanno accolto innalzando una “casa” nuova per la pallavolo. Sono tante le società che soffrono per mancanza d’impianti. L’Italia è davvero un Paese strano che vince malgrado tutto».
Che ricaduta ha sulla Lube impresa la Lube vincente sotto rete?
«Dal punto di vista del marchio un vantaggio di popolarità c’è: i telecronisti ci chiamano i cucinieri, vuol dire che una qualche identità è passata. Ma il vantaggio sta nell’allenamento. Per vincere in campo bisogna fare ciò che serve a vincere sul mercato e viceversa. Quando vado negli spogliatoi e parlo alla squadra ho lo stesso linguaggio che uso con i collaboratori in azienda e nelle convention. Perché ci tengo a dirlo: le decisioni sulla squadra le prendo io. Non quelle tattiche, ma se va cambiato allenatore, se – come abbiamo fatto quest’anno – va iniziato un nuovo ciclo, lo decido io, come peraltro in azienda. Bisogna essere determinati a raccogliere la sfida con lealtà, ma facendo tutto ciò che serve, a cominciare dai sacrifici, per vincere. Dico sempre: la cucina più difficile da vendere è quella di domani. Come la partita. Se ti guardi indietro non ha fatto nulla. Devi rispettare gli avversari, ma gli altri ti devono temere».
Fatturato vicino ai 280 milioni, azienda in espansione: si vince facile?
«Facile? È uno dei momenti più difficili e l’Italia è uno dei Paesi più difficili per fare impresa! La Lube non è iscritta a Confindustria e i nostri collaboratori non s’iscrivono ai sindacati. Se c’è un problema se ne parla nello spogliatoio! Ma la ragione vera sono le Marche: qui esiste e resiste l’idea dell’impresa famiglia. Anche se, per la verità, molte di quelle Marche si sono perse per strada. Facciamo fatica a trovare gli artigiani di una volta, facciamo fatica a suscitare quella voglia d’intrapresa che c’era. Luciano Sileoni è partito nel ’56 quasi dal nulla. Io sono arrivato come ragioniere: avevo 19 anni. Nelle Marche lavoro, famiglia, tradizione sono state la chiave del successo. A darci la mazzata è stato il fallimento di Banca Marche. Ora non c’è più – come ai tempi di Luciano e come quando insieme abbiamo deciso di scalare il mercato – il direttore di banca che ti guarda negli occhi e ti fa il fido. Le imprese marchigiane sono nate tutte così: ed erano i nostri primi fornitori. Questo Paese ha distrutto i distretti industriali per miopia politica e per mancanza di credito. Se ci penso… trenta anni fa noi montavamo solo elettrodomestici made in Marche. Oggi me li vogliono vendere i cinesi. Sì, l’Italia non ha prestato nessuna attenzione, dopo il boom degli anni Sessanta, al suo sviluppo industriale. Ma noi resistiamo con la forza delle idee: progettiamo innovazioni continue di prodotto e coniughiamo processo artigianale con massima innovazione. Abbiamo costruito un franchising anomalo: i negozi con i marchi Lube e Creo sono diversi e sempre più diffusi perché abbiamo convinto, con utili crescenti, i nostri partner che loro acquisivano valore con i nostri prodotti. Per fare cucine sempre migliori, che sono interpretazione di uno stile di vita, abbiamo attinto competenze dalle nostre università, ma abbiamo dovuto formare i nostri collaboratori in azienda perché non c’è più un ambiente favorevole allo sviluppo».
Voi esportate in 60 Paesi e avete circa 1600 punti vendita: i dazi di Donald Trump vi spaventano?
«I dazi non sono certo un vantaggio, ma la preoccupazione vera è la mancanza di stabilità, sono le guerre e la caduta di domanda anche in Italia. Noi vendiamo beni che hanno bisogno di un investimento consistente delle famiglie che sono disposte a scommettere sul loro futuro. Perciò la stabilità delle famiglie è per noi indispensabile. Il passo di pace in Palestina vale molto di più in positivo di quanto possano pesare i dazi in negativo. Se non avessimo la guerra in Ucraina, se si riaprisse il mercato russo, se avessimo un’economia in espansione saremmo molto più felici. Pace, stabilità e sviluppo a noi questo serve. E poi ci serve che il dollaro non si svaluti troppo e che l’Europa smettesse di essere solo un mostro burocratico, che si andasse davvero verso gli Stati Uniti d’Europa per poter competere ad armi pari nel mondo».
A proposito di stabilità, il governo Meloni vi ha aiutato?
«Giorgia Meloni non sta facendo male, anzi la stabilità di governo per noi è un dato molto positivo e anche sui mercati internazionali il fattore Italia ora aiuta. Però il governo deve fare di più per lasciare soldi in tasca agli italiani: abbiamo bisogno di una ripresa della domanda interna in Italia e in Europa. Servono politiche espansive, meno peso fiscale, più attenzione al sociale. Se le persone stanno bene, vivono serene, hanno una prospettiva chi fa impresa se ne avvantaggia. E torniamo all’armonia».
Che voi avete già messo in piedi con l’Accademy?
«Quando vedi che anche a Treia, un piccolo bellissimo borgo, per i ragazzi non c’è nulla, quando ti accorgi che vivono dentro il cellulare, che lo spaccio di droga diventa insostenibile, ti chiedi: che posso fare? La risposta l’abbiamo trovata con l’Accademy. I ragazzi da 6 a 16 anni vengono all’Accademy per fare sport, il doposcuola, per partecipare ad attività culturali: giocano a calcio, a pallavolo, fanno ginnastica artistica, recuperano il tamburello che è propedeutico allo sport nazionale di Treia, la palla al bracciale, fanno karate, poi fanno corsi che vanno dalla lettura alla parola, dalla conoscenza di culture lontane al disegno creativo. Il nostro intento è chiaro: coltivare i talenti che saranno il nostro domani. La soddisfazione più grande è stata quando una mamma mi ha detto: ci siamo trasferiti a Treia perché dove abitavamo per i nostri figli non c’era nulla, qui all’Accademy sono rinati. Per noi un ragazzo sottratto alla dipendenza dal cellulare o attrezzato a resistere alla droga e che fa gruppo con gli altri vale più di una Coppa dei Campioni. Noi vogliamo vincere lo scudetto della vita».


