L’intervista Paolo Marchesini «Insegno agli atleti che vince chi diventa un uomo migliore»
- Il precettore sportivo Paolo Marchesini: «Non ho l’approccio tecnicista del mental coach, punto sui valori. Berlusconi al Monza l’aveva capito».
- Lo psicologo Giuseppe Lorenzetti: «Oggi la cultura buonista vuol preservare gli adolescenti dalla fatica L’attività fisica restituisce il contatto col reale e permette di confrontarsi con il limite».
- Emanuele Franz, lo scrittore, a cui è stata diagnosticata la sindrome: «Il sistema nervoso è configurato in modo da processare diversamente le informazioni esterne. Così crea idee nuove».
Lo speciale contiene tre articoli.
Paolo Marchesini, lei si definisce «precettore sportivo». Ha scritto anche una serie di volumi volti a illustrare i suoi metodi e la sua filosofia. Pare di capire che lei lavori soprattutto con squadre di calcio. Ci spiega allora che cosa fa? Che cos’è il precettore sportivo?
«Il precettore sportivo è un educatore classico unico nel genere. Non insegna né istruisce ma propone e condivide. Non infligge nozioni dalla cattedra, ma suscita interesse nel vissuto. Non è lo specialista distaccato che esercita un mestiere, ma il gentiluomo partecipe che testimonia una vocazione. Per questo può davvero educare giovani e adulti allenandosi con la squadra, poiché come una sorta di exemplum virtutis vivente – innanzitutto – impersona dentro al gruppo l’archetipo dell’uomo-calciatore esemplare. Tale accattivante innovazione agevola una radicale educazione pratica ai valori umani di nuova generazione».
Da quale esperienza è nata in lei l’idea di inventare una figura simile?
«L’idea scoccò nel 1987 al Bologna Fc ma la focalizzai lustri più tardi. Tornato a giocare in Italia dall’estero con una squadra di serie C vi distinsi tre giovani compagni in seria difficoltà, così al solo fine d’ispirarli proposi loro di osservarmi in allenamento. Loro si ripresero in un mese ed io intravidi la malacopia del ruolo di precettore sportivo. Seguì, ispirata da padre Roberto Busa, l’opera pionieristica per costituirlo e metterlo a sistema, giungendo infine al profilo mirabilmente tratteggiato da San Paolo: “Io dunque corro, ma non come chi è senza meta, faccio il pugilato ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri venga io stesso squalificato”».
Di figure di sostegno diciamo psicologico nello sport ce ne sono molte. Quale differenza c’è tra un mental coach e un precettore sportivo?
«Sono le differenze abissali esistenti tra una figura egemonica ed un ruolo collaborativo; tra un’impostazione diagnostico tecnicista ed un approccio educativo umanizzante; tra chi scompone l’uomo riducendolo ad automatismo meccanico e chi integra la persona valorizzandola come essere umano. In metafora, tra chi nel buio cerca una candela e chi costruisce un impianto d’illuminazione».
Lei sostiene che il suo sistema potrebbe contribuire in modo importante a cambiare il modo in cui si gioca a calcio, dalla serie A in giù. Quale è la sua ricetta?
«Agli allenatori di serie A dico da tempo che il calcio esige il governo sulla partita tutta. Includo con ciò fondamentali problematiche irrisolte che non riguardano le fasi di gioco (tiri, schemi, ritmo) bensì le “fasi di non-gioco” (liti, risse, proteste) sofferte da tutti. A fine gara allenatori e dirigenti lamentano gli stessi problemi (falli, sanzioni, squalifiche,) che sebbene condizionino i risultati si ripetono sempre. Dunque sono variabili ingestibili allenando il gioco perché di “non-gioco” su cui nessuno opera come occorre».
E come si dovrebbe operare allora?
«Con un più idoneo know-how dell’educare: l’Ermeneutica dell’Espressione Sportiva. Ne colmai il vuoto quando ne testai protocolli e mansioni per primo in Italia inaugurando il mio ruolo di precettore sportivo. Ora serve diffonderne i benefici nelle prime squadre».
E quali sono secondo lei questi benefici?
«Abbattimento di ammonizioni, espulsioni e squalifiche fino all’80%. Opportunità di schierare quasi sempre la formazione ideale. Guadagno sui 90’ di gioco dei 30’ di non-gioco sprecati da tutti. Profitto di classifica dai 4-5 ai 9-10 punti in più».
Obiettivi ambiziosi. Come si raggiungono?
«Lavorando per davvero sull’uomo in allenamento. Oggi gli errori di non-gioco non sono mai corretti con strumenti ed esercizi sul campo perché il know-how valoriale prima inesistente ora c’è ma va gradualmente divulgato. Il precettore sportivo opera entro microfocus di allenamento quotidiani predefiniti con lo staff. In essi egli fa vivere agli uomini che “sono” i calciatori 55 valori umani (umiltà, sacrifico, correttezza, determinazione) con esercitazioni pratiche svolte sistematicamente».
È vero che Silvio Berlusconi aveva creduto in questa sua idea?
«Riporto quanto il presidente Berlusconi dichiarò: “Nel Monza, caso unico in Italia, abbiamo un precettore, Paolo Marchesini, che segue sul campo e fuori tutti i ragazzi delle giovanili e le loro famiglie, testimoniando i nostri valori”. Credo attesti bene la fiducia nel mio ruolo e il consenso per un’innovazione legata alla tradizione. Ne apprezzò molto infatti l’elegante stile distintivo (in campo tuta colorata dei calciatori, fuori campo abito scuro del gentiluomo) evocante istanze etiche nell’habitus dei comportamenti. In un incontro privato ad Arcore mi chiese il costo del marchio “precettore sportivo”. Risposi: “Una vita intera e la pazienza dei santi”. Allorché chiosò: “Serve nelle prime squadre. Ci arriverà!”».
«Lo sport fa uscire i ragazzi dalla prigione del virtuale»
Giuseppe Lorenzetti, psicologo, è esperto di adolescenza, consulente di società sportive, e autore di un bel libro fresco di pubblicazione intitolato Adolescenza, manuale di liberazione per giovani inquieti (Signs Books).
Si è discusso molto negli ultimi mesi dell’aumento della violenza tra gli adolescenti, raccontato anche da serie come Adolescence. Da che cosa dipende secondo lei?
«La serie Adolescence ha il merito di fare luce sul problema, ma non ci accompagna a comprenderne le dinamiche e le origini. Il personaggio del protagonista non è realistico nel suo profilo psicologico e ciò rischia di spaventare e di creare confusione più che aiutarci a sostenere i giovani. Il primo strumento per prevenire la violenza è sviluppare l’empatia che ci permette di immedesimarci nelle vittime e nei carnefici: riconoscere l’ombra dentro di noi, accoglierla e trasformarla. Oggi invece i giovani sono bombardati da immagini di violenza senza la possibilità di elaborarle. Gli mancano poi le abilità comunicative per entrare in contatto all’altro, non sono stati abituati al confronto, all’attesa, alla fatica e alla frustrazione. Non hanno punti di riferimento perché spesso i genitori per paura rinunciano al loro ruolo, comportandosi come degli amici, e nel momento del bisogno non sanno a chi chiedere aiuto. Infine l’effetto delle droghe, il cui utilizzo è in continuo aumento, spesso è la miccia che innesca l’esplosione scatenando un disagio latente».
Che impatto ha la rivoluzione tecnologica sui ragazzi, nella sua esperienza?
«Mi capita di lavorare con ragazzi e ragazze che passano fino a dieci ore al giorno davanti agli schermi e che minacciano i genitori che tentano di limitarne l’utilizzo di gesti autolesionistici. Gli studi dimostrano che le dipendenze da schermi, al pari di quelle classiche da sostanze – in particolare in un cervello in formazione – possono creare danni irreversibili a livello biochimico e strutturale. Dal punto di vista psicologico, disturbi d’ansia, depressivi, crisi di astinenza, ritiro sociale, crollo delle capacità di attenzione e concentrazione sono solo alcuni degli effetti correlati a un abuso di tecnologia. Abbiamo messo in mano alle nuove generazioni degli strumenti potentissimi senza alcuna preparazione e il risultato è che anziché essere sfruttati per le loro potenzialità fungono da ansiolitico per colmare una profonda solitudine e un vuoto di senso. In Svezia, Paese ammaliato dal mito del “progresso”, se ne sono resi conto e stanno cercando di arginare il problema con delle misure importanti».
Si dedica molta attenzione ai corpi degli adolescenti, più che altro per parlare di questioni gender. Ma che rapporto hanno davvero i ragazzi con il loro corpo?
«La domanda che dovremmo porci sul tema del gender è se le scelte dei giovani in questo ambito siano frutto di una reale assunzione di responsabilità basata su un percorso di crescita e sull’ascolto di sé, o celino invece una domanda di aiuto indiretta attraverso la ricerca impulsiva di un’etichetta con cui identificarsi per dare un nome alla propria angoscia. Sono tutti bravi a parole ad invitare i giovani ad essere loro stessi, ma che significato ha se non creiamo le condizioni educative affinché questa ricerca possa avere atto? Il corpo è al centro del percorso di costruzione della nostra identità, ma oggi i ragazzi vivono intrappolati nel virtuale, sono senza corpo e senza radici, e dunque in balìa delle ideologie dominanti».
Come può essere utile lo sport per gli adolescenti di oggi?
«Lo sport restituisce innanzitutto il contatto con il reale. È fatto di carne e ossa, di fatica, di sacrifici, ma anche di estro, di creatività, di gioco, di relazioni. Permette di confrontarsi con il limite e di coltivare un sogno. Non importa che solo una piccolissima parte di loro riuscirà a raggiungerlo, importa che il desiderio si accenda e che i giovani possano trovare il coraggio di investire su sé stessi».
Vivendo già in una società particolarmente competitiva, lo sport non rischia di diventare un ulteriore veicolo di competizione?
«La nostra cultura buonista si impegna a tutelare i giovani dalle fatiche e dalle delusioni per poi scaraventarli in pasto a una società ipercompetitiva e ipercomplessa dove l’unica legge è quella del mercato e del profitto. È vero, lo sport subisce il contesto sociale e il rischio di cadere nell’ossessione della prestazione è presente, tuttavia la competizione fa parte del processo di crescita ed è meglio cominciare ad esercitarla imparando a viverla con correttezza e consapevolezza, piuttosto che subirla poi come vittime di un sistema spietato. Le società sportive non sono necessariamente luoghi semplici da vivere per i ragazzi, ma ho l’impressione che molti di loro oggi riconoscano in esse un’istituzione educativa più che nella scuola poiché si sentono messi alla prova senza menzogne e ritrovano la loro dignità».
Interviste a grandi nomi della cultura come Susanna Tamaro e Silvano Tagliagambe, un sincero racconto autobiografico e, soprattutto, una inedita visione filosofica. Questo è L’Io autistico. Tra esperienza personale e riflessione filosofica (Audax), il nuovo libro in cui Emanuele Franz racconta sé stesso e le neuro divergenze.
Lei, come racconta nel libro, è autistico: quando ha scoperto di esserlo?
«Fin da bambino sono stato considerato un ragazzo difficile, il mio maestro alle scuole elementari, il maestro Renato, mi disse recentemente che in tutta la sua carriera di insegnante non aveva mai visto un caso come il mio, il caso Franz, nonostante migliaia di allievi, perché in cinque anni di scuola non avevo fatto una sola attività di gruppo con gli altri, né giocato a calcio, né attività di gioco di gruppo né altro, ero sempre da solo. La maestra Mariangela dice che i compagni notavano in me una diversità, una superiore capacità intellettiva, e mi aggredivano, di conseguenza io mi isolavo ancora di più. Crescendo le cose non sono migliorate, anni da psicologi, pediatri, educatori, psicoterapeuti e psichiatri, chi riteneva fossi depresso, chi addirittura mi ha diagnosticato un ritardo mentale. Ho cercato negli ultimi cinque anni di ricostruire la mia infanzia e capire i miei problemi, mi sono rivolto a psichiatri, neurologi e specialisti, infine dopo quasi un anno di test, visite, esami, mi hanno diagnosticato l’autismo ad alto funzionamento, ovvero ad alta compensazione, prima un neurologo, il dott. Zanini, poi gli specialisti della clinica psichiatrica. Finalmente dopo una vita intera ho dato un nome a una sofferenza intrinseca».
Che cosa significa concretamente vivere questa condizione per lei?
«Mi hanno spiegato che solo a partire dal 2013 è stato possibile arrivare a comprendere e inquadrare il tipo di neurodivergenza che mi accompagna, perché il Dsm quell’anno ha compreso che il cosiddetto “Livello 1” (chiamato nel passato sindrome di Asperger) fa parte di un unico spettro. In buona sostanza si può dire che il mio organismo comprende che ha una “alterazione” e lotta costantemente per correggerla con dei meccanismi di compensazione, l’equilibrio è instabile e dipende dalla pressione ambientale in delicato equilibrio con le condizioni interne. Sembra una condanna, forse lo è, scoprire di avere un marchio, e non dovuto a un trauma, o a una causa esterna, o a una malattia mentale, ma a cagione di una intrinseca condizione fisiologica, si tratta, infatti, di una configurazione del sistema nervoso che colpisce il modo in cui le informazioni con il mondo esterno vengono processate e negoziate, quindi suoni, stimoli, colori, odori, relazioni sociali. L’autistico ha difficoltà enorme a introiettare un modello dall’esterno, e quindi è obbligato a svilupparne uno dall’interno. La vita sociale è compromessa, così come la capacità di gestire stimoli che vengono percepiti in modo diverso dagli altri (l’autistico percepisce un “altro” mondo). Il vantaggio enorme di questa condizione è lo sviluppo di una creatività molto grande, pagata a caro prezzo».
Oggi di autismo si sente parlare molto più spesso che in passato. Ci viene spiegato che esiste uno spettro autistico, e dunque che esistono anche condizioni molto diverse fra loro. Significa che questa società ha finalmente sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti delle neuro divergenze?
«In passato, come accennavo, alcune delle fenomenologie dello spettro autistico venivano intese e inquadrate sotto altre patologie, sicuramente oggi c’è una capacità più raffinata di arrivare a diagnosi obiettive, che il numero degli autistici in generale nella società stia aumentando credo che sia acclarato e le cause, forse, vanno da ricercarsi anche in fattori antropologici, quello che è chiaro è che questa società non è pensata per il soggetto autistico, che, ricordiamolo, è un soggetto che volge su sé stesso e la propria interiorità (autos, in greco, vuol dire appunto “sé stesso” ed è alla base della parola “autismo”). La nostra società consumista vede nella collettività statisticamente rilevante (quindi neurotipica) il modello sul quale forgiare leggi e costumi, il singolo, perché da solo, viene messo all’angolo. Non è un modello sociale inclusivo (se non solo sulla carta). Ci sono i casi gravi di autismo, sovente sono la conseguenza di con-morbilità, ovvero di patologie che si sviluppano in conseguenza all’autismo, perché non viene capito, compreso, e realmente incluso. Penso che da parte di una certa istituzione, sia politica che culturale, ci sia un interesse nel vedere il soggetto autistico come incapace, che sia tollerato in quanto handicappato, che vada sì messo in qualche posto, ma all’angolo, senza una parola. La società teme, e questa è mia convinzione, l’enorme potere creativo della neurodivergenza. Un politico può indurre voti a una persona normale, non a un autistico, il marketing può indurre acquisti a una persona normale ma non a un autistico, per questo, per alcuni è meglio che si pensi che l’autismo sia solo una interdizione, perché così si mette a tacere il potere sovversivo di questa condizione mentale. (Einstein, Newton, Kandinskij, Tesla, erano autistici, e hanno rivoluzionato il mondo)».
Non esiste secondo lei il rischio di una eccessiva medicalizzazione?
«Fermarsi a una diagnosi è un rischio evidente, questo per ogni condizione clinica, come propongo nel mio libro L’Io autistico, esploro il legame tra autismo e un tipo di creatività radicale. Io sono credente e cristiano ortodosso, credo che la carne venga “scritta” dal divino. Diceva San Paolo: “Voi siete una lettera di Cristo scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2 Cor. 3,3). Credo che lo Spirito agisca nella carne, nel sistema nervoso, per introdurre nel mondo idee nuove. Ma per farlo, a volte, deve alterare i meccanismi ordinari dell’organismo. Lo Spirito, essendo un respiro universale, è un qualche cosa che trascende la singolarità dell’organismo, per potersi manifestare deve generare un’alterazione nel corpo, e quindi il mio sistema nervoso è la conseguenza di un’apertura verso lo Spirito, apertura che lo Spirito stesso ha generato. Sono, come dire, una scrittura dello Spirito, il mio corpo è diventato una lavagna di Dio, la penna di Dio ha usato il mio sistema nervoso per scrivere un Poema, ed io sono una strofa del grande Poema dello Spirito».
Lei sostiene che esistano ancora molti stereotipi riguardanti l’autismo. Quali?
«Ogni giorno mi sento dire: “Tu non puoi essere autistico, perché sei intelligente, e ti muovi in mezzo agli altri”, oppure: “L’autismo non è come il diabete, sono diagnosi senza obiettività quelle”, e così via, che dimostrano la grande ignoranza che dilaga sull’argomento. Le famiglie di casi gravi di autismo nutrono una specie di livore verso i casi ad alto funzionamento perché non ci considerano rappresentativi dell’autismo. Si crede che sia una malattia, può esserlo, ma non a prescindere. Lo diventa se non compreso. Esempio: un autistico costretto a livelli di stress elevato (e per noi può esserlo anche prendere un treno) significa torturarlo, è la società, quindi, che patologizza l’autistico, non comprendendolo affatto e costringendolo a un modello di vita che non solo non è pensato per lui, ma è addirittura nocivo».
Lei propone un approccio filosofico all’autismo. In che cosa consiste?
«Sì, la mia proposta di interpretazione è quella della filosofia perché mi occupo di filosofia e storia delle religioni da sempre. Tutto deve avere una spiegazione ulteriore e non solo clinica. Accennavo alla mia idea di vedere nell’autismo una forza spirituale che modella i corpi. Voglio aggiungere che nel passato, ad esempio nell’antica Grecia, sono convinto che dietro ai casi di melanconia si nascondesse la sindrome che oggi chiamiamo autistica. La figura dell’eroe, del genio, erano figure avulse dalla società. Pensiamo a Prometeo, che non è fra gli uomini e nemmeno fra gli Dei, incatenato perché vuole vedere oltre. Ulisse lascia i suoi uomini per rimanere da solo e gettare uno sguardo dove non possono i mortali. Bellerofonte vagava per la terra da solo, dice Omero di lui: solitario vagava allora per la pianura Alea mangiandosi l’anima, evitando l’orma degli uomini. Oreste fugge nel deserto da solo, e così via, la figura che valica le convenzioni umane trovandosi febbrilmente da sola, bandita, emarginata, è stata mitizzata dagli antichi, esaltata, ma ancora non inclusa. È necessario quindi pensare a un nuovo modello sociale, un altro tipo di società – una che riconosce il valore dell’individualità, del contributo unico – l’autistico non solo sarebbe abile, ma addirittura essenziale. Purtroppo oggi viviamo tra due modelli fallimentari: uno tradizionalista, fisso e non inclusivo; e uno che predica un’inclusione illimitata e indistinta. Nessuno dei due funziona per chi, come noi, ha bisogno di autenticità e profondità».
Il 15 marzo 2025 è la Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata alla sensibilizzazione sui disturbi del comportamento alimentare e alla loro lotta. Abbiamo intervistato la dottoressa Valeria Galfano, medico chirurgo specialista in Scienza dell’alimentazione e Dietetica e autrice del libro Dieta e allenamento al femminile (Edizioni Lswr), dedicato ai disturbi alimentari delle atlete e degli atleti.
Che cosa sono i disturbi alimentari? Come possiamo definirli?
«I disturbi alimentari sono un’emergenza silenziosa; infatti, rappresentano una delle patologie psichiatriche più diffuse e complesse del nostro tempo. Si tratta di condizioni caratterizzate da un rapporto disfunzionale con il cibo e il proprio corpo, che possono avere conseguenze devastanti sulla salute fisica e mentale di chi ne soffre. Questi disturbi non sono semplicemente una questione di dieta o volontà, ma affondano le loro radici in una complessa interazione tra fattori genetici, biologici, psicologici e socioculturali».
Quali sono i disturbi più diffusi?
«Il disturbo da alimentazione incontrollata o Binge Eating Disorder è quello più diffuso, sia a livello globale sia in Italia. È più comune negli adulti, si associa spesso a obesità, con un impatto significativo sulla salute metabolica. È caratterizzato da abbuffate ricorrenti in assenza di comportamenti compensatori, come il vomito autoindotto, il digiuno, l’esercizio fisico compulsivo o l’utilizzo di lassativi, diuretici e farmaci a scopo anoressizzante. Tra gli altri disturbi alimentari più diffusi ci sono la bulimia nervosa e l’anoressia nervosa. La prima è caratterizzata da frequenti episodi di abbuffate seguite da comportamenti compensatori inappropriati per prevenire l’aumento di peso. L’abbuffata può essere descritta come il consumo di grandi quantità di cibo in un breve periodo di tempo, con una sensazione di perdita di controllo. Invece, l’anoressia nervosa è contraddistinta da un’estrema restrizione alimentare, intensa paura di ingrassare, comportamenti mirati all’impedimento del recupero del peso corporeo, talvolta anche l’omissione delle terapie farmacologiche, e una percezione dell’immagine corporea fortemente alterata».
Come si manifestano e che cosa rischia chi ne viene colpito?
«I disturbi alimentari si manifestano attraverso comportamenti malsani nei confronti del cibo, rituali alimentari rigidi, paura del cibo, isolamento sociale e sbalzi d’umore. Sul piano fisico, possono portare a squilibri elettrolitici, danni cardiaci, osteoporosi, infertilità, patologie renali e gastrointestinali. Nei casi più gravi, possono condurre alla morte. Sul piano psico-sociale si associano a bassa autostima, sentimento di angoscia, sensazione di perdere il controllo, imbarazzo e senso di colpevolezza. I rapporti interpersonali possono essere compromessi e il rendimento lavorativo o scolastico risulta spesso ridotto».
Come è possibile individuarli prima che divengano troppo gravi?
«Il riconoscimento precoce è fondamentale. Segnali d’allarme possono essere la perdita di peso repentina, il rifiuto di determinati cibi o di intere categorie alimentari, l’intensa paura di ingrassare, l’isolamento sociale, i cambiamenti emotivi e l’ossessione per l’esercizio fisico. I familiari e gli amici svolgono un ruolo chiave nel cogliere questi segnali e favorire una diagnosi tempestiva. Sebbene colpiscano prevalentemente gli adolescenti e i giovani adulti, è importante notare che l’età di insorgenza si sta abbassando, con un numero crescente di casi tra i bambini. Questo trend evidenzia la necessità di una maggiore consapevolezza, interventi di prevenzione e sensibilizzazione nelle scuole, e un accesso alle cure facilitato per affrontare efficacemente il problema».
Il disturbo alimentare ha sempre cause psicologiche?
«Sebbene i disturbi alimentari abbiano una forte componente psicologica, non si possono ignorare altri fattori. Aspetti genetici e neurobiologici giocano un ruolo determinante, così come l’influenza culturale e sociale. Pressioni estetiche, modelli di bellezza irrealistici promossi dai media e traumi pregressi possono contribuire all’insorgenza della malattia. Tra i fattori causali, quelli biologici, che ne determinano la predisposizione, si identificano con le anomalie nel funzionamento di alcune regioni cerebrali e alterati livelli di neurotrasmettitori. I fattori psicologici, associati all’insorgenza, includono bassa autostima, ansia, depressione e insicurezza. Infine, tra quelli socioculturali, responsabili del mantenimento, possiamo annoverare la pressione per raggiungere una bellezza insostenibile, la costante disponibilità di cibo ipercalorico e altamente palatabile, l’insuccesso organizzativo dei servizi di assistenza sanitaria, la scarsa conoscenza e la mancata accettazione di questi disturbi come vere e proprie malattie».
Come è possibile che siano diffusi anche fra gli atleti che in teoria dovrebbero avere una alimentazione sana e corretta?
«Si tratta di un paradosso apparente: gli atleti, simbolo di salute e disciplina, sono soggetti a un rischio elevato di sviluppare i disturbi alimentari. Sport che enfatizzano il peso e l’estetica, come la ginnastica artistica, il nuoto sincronizzato, il pattinaggio e il bodybuilding favoriscono comportamenti restrittivi e ossessivi nei confronti del cibo. Inoltre, il concetto di peso forma, la necessità di rientrare in specifiche categorie di peso e l’uso di strategie nutrizionali estreme possono spingere gli atleti a sviluppare relazioni malsane con l’alimentazione e la propria immagine corporea. I comportamenti alimentari scorretti degli atleti possono essere mascherati dalla necessita di seguire regole dietetiche rigorose per migliorare la performance sportiva, e le patologiche variazioni del peso o della composizione corporea possono essere erroneamente giustificate dall’esigenza di migliorare la condizione fisica prima della gara. Infine, la pressione esercitata dagli allenatori, dalla famiglia e dai compagni di squadra, può contribuire a sviluppare livelli estremi di perfezionismo e competitività».
Colpiscono di più i maschi o le femmine?
«I disturbi alimentari colpiscono prevalentemente le donne, con un rapporto stimato di circa 9:1 rispetto agli uomini. Tuttavia, negli ultimi anni si è registrato un aumento dei casi maschili, spesso meno diagnosticati per via di stereotipi culturali che associano queste patologie al mondo femminile. La vergogna, lo stigma e la paura della discriminazione spesso impediscono agli uomini di rivelare i comportamenti problematici e cercare aiuto».
Nei maschi che disturbi si presentano di solito?
«Negli uomini si osservano con maggiore frequenza la vigoressia e il Binge Eating Disorder. La vigoressia, nota anche come dismorfia muscolare, è un disturbo caratterizzato da un’ossessione patologica per la forma fisica e l’aumento del volume muscolare. Chi ne soffre ha una percezione distorta del proprio corpo, vedendosi sempre troppo esile o poco muscoloso, nonostante l’evidente ipertrofia delle masse muscolari. Si contraddistingue per gli allenamenti ossessivi, una dieta particolarmente rigida e iperproteica, l’abuso di sostanze dopanti e l’isolamento sociale, poiché spesso l’ossessione per il fisico porta a trascurare la vita sociale, gli affetti e il lavoro. Anche in questo caso, le conseguenze sulla salute riguardano sia la sfera fisica, con possibili lesioni muscolari e tendinee, sovraccarico articolare, squilibri ormonali, danni epatici e cardiovascolari dovuti anche all’uso di steroidi, sia la sfera psicologica, con aumento dell’ansia, ossessioni, depressione e interruzione dei rapporti interpersonali. Essendo un disturbo poco conosciuto, la sensibilizzazione è fondamentale per prevenirlo e affrontarlo correttamente, specialmente nel contesto sportivo».
Sono patologie in aumento?
«I disturbi alimentari sono in costante crescita, specialmente tra i giovani. L’uso massiccio dei social media ha amplificato la pressione estetica, contribuendo all’aumento di casi, in particolare durante e dopo la pandemia di Covid-19, che ha aggravato stress e ansia, fattori scatenanti di queste patologie. Secondo i dati del ministero della Salute, i nuovi casi in Italia sono passati da 680.569 nel 2019 a 1.450.567 nel 2022, più che raddoppiando in tre anni. Attualmente, oltre 3 milioni di persone nel nostro Paese ne sono affette».
Come si curano questi disturbi?
«La cura dei disturbi alimentari richiede un approccio multidisciplinare. La scelta della tipologia di trattamento deve tenere in considerazione alcuni fattori, tra cui l’esordio in età infantile o adulta, la presentazione acuta o cronica, la presenza di malnutrizione grave o lieve e le eventuali comorbilità. La terapia cognitivo-comportamentale rappresenta il trattamento di prima scelta per la cura dei disturbi alimentari, integrata con il supporto nutrizionale e, in alcuni casi, farmacologico. È fondamentale un team composto da specialisti in psicologia, psichiatria, scienza dell’alimentazione, endocrinologia e medicina interna».
Che cosa si può fare in generale per prevenirli?
«Per prevenire i disturbi alimentari è essenziale promuovere un’educazione alimentare sana, contrastare i modelli estetici irrealistici e sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza del benessere mentale. Le scuole, le famiglie e i media possono giocare un ruolo cruciale nel promuovere un rapporto equilibrato con il cibo e il corpo. I disturbi alimentari non sono semplici capricci o problemi di volontà, ma vere e proprie malattie che necessitano di comprensione, supporto e trattamenti adeguati. Solo con un impegno collettivo possiamo arginare questa emergenza silenziosa e restituire a chi ne soffre la possibilità di una vita sana e serena».
Durante il Festival di Sanremo - ormai terminato, ma che ancora fa parlare di sé anche per la rinuncia del vincitore Olly a partecipare all’Eurovision Song Contest - il cantante Tony Effe è stato protagonista di quello che è stato definito il «collana gate». Riassumendo, gli hanno tolto una collana di Tiffany dal collo poco prima di salire sul palco per esibirsi perché sarebbe stata troppo riconoscibile. Il cantante romano ha raccontato l’episodio, lamentandosi perché ad altri non avevano tolto gioielli secondo lui altrettanto riconoscibili, e ha commentato: «Togliermi la collana è stato come togliere l’abbronzatura a Carlo Conti». E proprio la battuta del cantante sulla pelle del conduttore può essere un ottimo spunto per appronfondire il discorso sull’abbronzatura, soprattutto quella ottenuta grazie alle lampade.
Innanzitutto, cos’è, in generale, l’abbronzatura? È il risultato dell’esposizione della pelle ai raggi ultravioletti che abbreviamo con l’acronimo UV. Questi raggi possono provenire dalla luce solare oppure da lampade abbronzanti. Quella che chiamiamo genericamente pelle è in realtà un organo detto apparato tegumentario che funge da rivestimento esterno del nostro corpo, coprendo una superficie di circa 2 mq, e protegge i sottostanti muscoli, organi interni, ossa ecc. L’apparato tegumentario si divide in tre strati: la pelle o cute propriamente detta è il primo strato, suddiviso a sua volta in due strati, epidermide e derma. Lo strato sottostante la pelle è il tessuto sottocutaneo anche detto ipoderma, formato da tessuto connettivo fibrillare lasso e, a seconda del luogo del corpo, anche di tessuto adiposo. Il colore della nostra pelle è anche detto pigmentazione e dipende da molti fattori: spessore dello strato corneo, stato di sanguificazione, betacarotene, emoglobina, gruppo etnico di appartenenza. La pigmentazione cambia anche quando ci si abbronza, esponendo la pelle ai raggi UV, per la precisione UVA e UVB.
I raggi UVA sono il 95% dei raggi ultravioletti che arrivano sulla terra, attraversano le nuvole, il vetro e anche la pelle, raggiungendo il derma, sono responsabili dell’invecchiamento cutaneo e sono presenti tutto l’anno. I raggi UVB sono il 5% dei raggi ultravioletti che arrivano sulla terra, sono presenti solo da aprile a ottobre, sono più aggressivi e sono quelli propriamente responsabili dell’abbronzatura perché tutti ci esponiamo al sole appositamente per abbronzarci in estate. La melanina è prodotta dai melanociti, che sono uno specifico tipo di cellule situate nell’epidermide, e serve a proteggere il derma dai possibili danni subiti a causa dei raggi. I raggi UVB raggiungono lo strato dell’epidermide dove la melanina prodotta dai melanociti assorbe gli UVB, si ossida e si degrada, portando alla sintesi di ulteriore melanina (funge da barriera protettiva nei confronti degli UVB). Più melanina producono, più ci si abbronza. Il problema è rappresentato dalla quantità di raggi UVB a cui queste cellule sono sottoposte, perché i melanociti in seguito a un’esposizione prolungata e senza alcuna protezione non riescono a produrre abbastanza melanina e di conseguenza ci si scotta. Quella che per noi è una colorazione anche salutare della pelle, l’abbronzatura, è in realtà una barriera protettiva, una specie di filtro che la pelle produce contro i raggi solari. Più melanina riusciamo a produrre, più ci abbronziamo. La produzione di melanina protegge dunque la pelle dall’esposizione solare, però blandamente: se dovessimo conferire all’abbronzatura un valore SPF, cioè di protezione solare, questo sarebbe di circa 2-3. Inoltre, va detto che abbiamo un massimo genetico di possibile produzione di melanina, ognuno ce lo ha diverso dall’altro, quindi la produzione di melanina a scopo protettivo (e quindi l’abbronzatura) arrivano fino a un certo punto.
La lampada abbronzante, anche chiamata dispositivo per l’abbronzatura artificiale, può essere di vari tipi: lampada, simile a una lampada da tavolo, lettino solare, dalla forma a guscio come la camera iperbarica di Michael Jackson, per intenderci, e infine la doccia solare, che somiglia appunto a una doccia. Se la prima abbronza solo pezzi di corpo e si usa soprattutto per il viso, esistendo anche nella forma «trifacciale», con tre rettangoli di cui i due laterali movibili, per orientarsi meglio verso i lati del viso, il lettino prevede di stendersi, mentre la doccia si fa in piedi.
La lampada può essere ad alta o a bassa pressione. La lampada abbronzante a bassa pressione emette raggi UVA e UVB e produce un’abbronzatura più graduale e duratura. Ci si espone 20-30 minuti. Le lampade ad alta pressione sono più potenti, emettono raggi UVA, tendono a produrre un’abbronzatura più rapida ma meno duratura e ci si espone 10-20 minuti. Molti - tra cui il nostro Carlo Conti - fanno la lampada in inverno, per avere un colorito abbronzato anche nei mesi in cui non si possono abbronzare direttamente sotto il sole come si fa in estate. Altri fanno una lampada ogni tanto per non essere proprio pallidi. Altri ancora fanno le lampade prima di andare in vacanza al mare d’estate, per non arrivare bianchi e anche con l’idea di prevenire le scottature solari arrivando sotto al sole già abbronzati. In realtà, come spiega l’Iss, Istituto superiore di sanità, la convinzione che l’uso delle lampade abbronzanti possa prevenire i danni causati dalla successiva esposizione alla radiazione solare in spiaggia è errata poiché la protezione fornita dall’abbronzatura artificiale è equivalente all’utilizzo di una crema protettiva con un fattore di protezione non superiore a 3, come abbiamo visto, o è addirittura nulla se l’abbronzatura è stata ottenuta con lampade che emettono prevalentemente raggi UVA. Le lampade abbronzanti emettono radiazioni ultraviolette A e B (UVA e UVB) in proporzione diversa a seconda del tipo: alcune hanno una composizione simile alla radiazione solare, altre emettono prevalentemente radiazione UVA e una piccola parte di raggi UVB. I raggi UVA colorano velocemente la pelle ossidando la melanina cutanea già esistente. Solo quando l’organismo produce appositamente nuova melanina per ossidarla si determina un’abbronzatura che protegge leggermente dall’esposizione solare successiva e questo accade con l’esposizione ai raggi UVB. Se la lampada emette più raggi UVB, comunque - ricordiamocelo - otteniamo una protezione assai bassa, equivalente a un fattore protettivo 2-3.
Ogni lampada ha le sue caratteristiche e da ciò dipende il livello di sicurezza, ma è certo che la lampada abbronzante sicura al 100% non esiste ed essa può procurare gli stessi problemi dell’esposizione alla radiazione solare o di più, non di meno. Né, come abbiamo detto, l’abbronzatura da lampada può essere considerata protettiva da una eventuale successiva esposizione al sole. Le radiazioni UVB sono più efficaci sia nel generare l’abbronzatura, sia nel provocare le scottature, ma entrambi i tipi di radiazioni possono danneggiare la pelle. Di conseguenza, sia una eccessiva e sconsiderata esposizione al sole, sia l’uso continuato di dispositivi abbronzanti possono portare a conseguenze per la salute che possono manifestarsi anche a distanza di molti anni.
A volte si paventano anche altri usi salutistici delle lampade abbronzanti. Sono veri? Sentiamo sempre l’Iss: è stato anche ipotizzato che i lettini abbronzanti aiutino ad alleviare i disturbi (sintomi) relativi al disordine affettivo stagionale (depressione stagionale), ma non ci sono prove convincenti che ciò accada. Altro ruolo positivo attribuito ai dispositivi abbronzanti è quello di stimolare l’organismo a produrre la giusta quantità di vitamina D (benefica per ossa, muscoli e sistema immunitario), in particolare in inverno, quando l’esposizione alla luce solare è limitata. In realtà, l’esposizione all’aria aperta del viso e delle mani per brevi periodi (da pochi minuti a non più di mezz'ora al giorno, a seconda della stagione e dell’ora) è sufficiente, grazie alla posizione geografica dell’Italia e a una dieta che preveda anche pesci grassi, uova e funghi, a garantire livelli sufficienti di vitamina D nell’organismo. Non c’è alcun bisogno di ricorrere all’abbronzatura artificiale: anche in caso di carenza di vitamina D esistono delle vie meno pericolose per ripristinarne il giusto fabbisogno.
Infine, non bisogna confondere le lampade abbronzanti con le lampade UV. Le lampade UV sono lampade diverse dalle lampade abbronzanti e si usano per trattamenti prescritti dal medico, in cicli di sessioni terapeutiche per alcune malattie della pelle, per esempio la psoriasi, la dermatite seborroica, l’eczema, l’acne e la vitiligine in quanto migliorano il ricambio cellulare dell’epidermide, la circolazione sanguigna e il sistema immunitario, disinfettano la pelle e ne frenano la crescita batterica. Il controllo medico nell’uso di queste lampade è obbligatorio: non si deve mai fare di testa propria con l’esposizione, pena anche il possibile aggravamento, anziché la cura, delle patologie citate.





