Non sono ancora mercati emergenti, presto però potrebbero diventarlo grazie a performance sorprendenti. Per chi può permettersi di affrontare rischi alti, sono occasioni ghiotte. Ma è meglio consultare un esperto.
Non sono ancora mercati emergenti, presto però potrebbero diventarlo grazie a performance sorprendenti. Per chi può permettersi di affrontare rischi alti, sono occasioni ghiotte. Ma è meglio consultare un esperto.Da quando le economie di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (i famosi Brics) sono «emerse», uscendo dalla classica definizione di Paesi emergenti, non mancano gli esperti che si chiedono quali siano i nuovi mercati su cui investire. Gli analisti li chiamano mercati di frontiera, Paesi dalle economie molto «ballerine» ma in grado di offrire - a investitori temerari - ottimi ritorni.«Si tratta di Paesi in via di sviluppo che tuttavia, avendo dimensione e accessibilità minori rispetto ai Brics, non si possono considerare mercati emergenti», dice Gianluca D'Alessio, portfolio manager di Fia asset management. «Ma potrebbero rientrare in tale classificazione nel giro di qualche anno, grazie alla loro forte crescita. Anche per questo, stanno suscitando grande interesse per gli investitori». Sono i 24 Paesi dell'indice Msci frontier markets index, spiega D'Alessio, «tra i quali ritroviamo Argentina, Vietnam, Kuwait, Kenya». «Tra i più interessanti da analizzare», continua il manager, «vi sono l'Argentina, con le sue vaste risorse naturali e condizioni agricole favorevoli; il Bangladesh, grazie a investimenti importanti nelle infrastrutture; il Vietnam, dotato di una forza lavoro giovane e in costante crescita; lo Sri Lanka, forte di un settore turistico e di un commercio marittimo in espansione; il Kenya, il cui mercato It cresce e vale già mezzo miliardo di dollari; infine la Romania, dotata di numerosi parchi industriali, forza lavoro preparata e una politica fiscale favorevole».Certo, questi mercati non sono il Paese dei balocchi degli investitori. Chi vuole ottenere buoni rendimenti in queste aree del mondo deve sapere che i rischi sono molti. A ottimi ritorni, spesso, corrispondono crolli improvvisi di mercato. Come scegliere dove investire? Il primo consiglio è sempre quello di affidarsi a un consulente esperto. «Per quanto riguarda la selezione dei singoli titoli», precisa D'Alessio, «è bene ricordare che si tratta, comunque, di azioni con un profilo di rischio/rendimento più elevato rispetto agli omologhi dei Paesi sviluppati. Perciò è importante considerare alcuni fattori. Tra questi vi è la capitalizzazione di mercato: generalmente, i titoli con maggiore capitalizzazione sono anche quelli con maggiori volumi di scambio e, quindi, con maggiore liquidità. Inoltre, è bene selezionare titoli di società che siano leader di settore nel proprio mercato di riferimento, in modo da beneficiare di maggiori margini sui ricavi e di tassi di crescita adeguati al rischio sostenuto. Infine, meglio prediligere società in grado di generare flussi di cassa positivi, in modo da autofinanziare la crescita e poter servire il debito societario. Alternativamente alla selezione di titoli singoli, è possibile ottenere un'esposizione su questi mercati attraverso fondi ed Etf specializzati».Tra i titoli proposti da Fia ce ne sono alcuni che hanno reso oltre il 200%. Per esempio Hoa Phat group, produttore vietnamita che opera nel mondo dei metalli, o Nmc health, società degli Emirati Arabi Uniti che opera nel settore della distribuzione di prodotti legati alla salute. Puntare su singoli titoli, però, può essere rischioso. Meglio allora fare affidamento a Etf come l'Invesco frontier markets o il Global evolution frontier markets. Certo, i rendimenti sono minori, ma almeno non si rischia di passare notti insonni.
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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