2020-08-20
Viaggio nello «spadarese». La neolingua paracristiana del gesuita cinguettante che sussurra al Pontefice
Dirige «La Civiltà cattolica» ed è assiduo di Twitter. Uno dei suoi cavalli di battaglia è l'idea di «possibilità», concetto chiave di un linguaggio alato e spesso incomprensibile.«Chi ha il linguaggio, “ha" il mondo», scrisse il filosofo Hans-Georg Gadamer. Quanto le parole siano importanti, i cristiani lo sanno bene: il Cristo è, infatti, Verbo, logos, che si fece carne. Ecco perché, quando si fa confusione con lessico e semantica, si rischiano di recidere le radici del cattolicesimo. Di sostituirne la sostanza con la forma. Anzi, con la fuffa.Ci rendiamo conto che l'accusa è pesante, se mossa a un periodico che si chiama La Civiltà cattolica, un house organ del papato. Ma analizzando il linguaggio del quindicinale e del suo direttore, il gesuita Antonio Spadaro, si viene solleticati dal sospetto che il periodare forbito e le immagini trasognate, a conti fatti, o imbellettino una disarmante povertà di contenuti, o - peggio - mascherino profonde alterazioni della dottrina. Padre Spadaro, in fondo, è il teologo dell'«evangelizzazione dei robot»: al che uno si chiede se la Chiesa debba prepararsi ad attribuire un'anima pure alle macchine, o se il punto, sempiterno, rimanga quello di evangelizzare le persone che le costruiscono. Il direttore de' La Civiltà cattolica, solitamente, è impegnato in battaglie di principio: criticare Matteo Salvini perché espone il rosario (la fede non va strumentalizzata, sono meglio i politici che la ignorano); predicare l'accoglienza dei migranti; fare la morale agli italiani che, a gennaio, cominciavano ad avere paura del coronavirus e perciò potevano essere accusati di razzismo e sinofobia. Uno dei cavalli di battaglia di padre Spadaro è il concetto di «possibilità». Le sue considerazioni sono disseminate di «possibilità». E la newsletter introdotta durante la pandemia dalla rivista si chiama Abitare nella possibilità. Perché i gesuiti non citano Sant'Ignazio di Loyola o Santa Teresa d'Avila. Citano la poetessa americana Emily Dickinson. Poco male: c'è chi la considera un'esponente della «tradizione della devozione cristiana». Sarà stato questo a colpire Spadaro, o la passione per gli arzigogolati abbinamenti tra verbi e sostantivi? «Abitare nella possibilità», ma anche, titolo di un suo editoriale, «attraversare un'attesa». A cosa alluda questa «possibilità», il padre gesuita prova a spiegarlo così: «Spesso ci manca la visione del possibile, che a volte viene confinato nel mondo dell'utopia». E invece «abbiamo bisogno di […] immaginare un mondo diverso». «La fantasia al potere», avrebbero detto in modo più semplice i sessantottini. Un motto, peraltro, riscoperto un annetto e mezzo fa anche da Avvenire, il quotidiano dei vescovi. La gerarchia ecclesiastica cerca altrove l'ispirazione che non trova più negli autori cattolici. Possibilità, immaginazione, immagini. Quello di padre Spadaro, più che un linguaggio, è un catalogo onirico. Che, purtroppo, s'intreccia con certe espressioni del Sommo Pontefice. Per difendere Francesco da chi vedeva nel discorso sulla «nuova immaginazione del possibile» una sortita politica, il gesuita denunciava la «forma di strabismo causata dalla mancanza di fusione che permette alle immagini dei due occhi di unirsi in una sola». O in una sòla, se anche voi avete l'impressione di aver letto un nonsense alla Carmelo Bene, più che il consiglio di un membro del clero. Il repertorio evocativo torna anche in un tweet di fine luglio. Spadaro ci illumina: «Svegliarsi al mattino significa cogliere la grazia che si riceve in quel momento». Finalmente: il prete cita la grazia. Padre, ci dica qualcosa di cattolico. Eccolo: «L'intuizione della vita che si dispiega alla nostra immaginazione». Uno spera di sentir parlare di Cristo e invece ripensa al protagonista di Shining, quando riempie un faldone con il proverbio: «Il mattino ha l'oro in bocca».Anziché il Verbo che si fa carne, c'è la carne che si fa verbosa. La Civiltà cattolica è un profluvio di «narrazioni», di saggi sulla lotta per appropriarsi della «narrazione sul coronavirus», di «distanziamento sociale» che «ha prodotto una breccia in tutte le narrazioni», di «poeti sociali», per citare proprio padre Spadaro, che raccontano «storie che ci aiutino a prenderci cura gli uni degli altri». Il direttore, tono trasognato malinconico ed assente, sostiene che non bisogna «ridurre l'esperienza a un discorso». Intanto, riduce il discorso ad aria fritta: «L'esperienza della stagnazione è quasi l'esperienza della non esperienza». Per chi non avesse capito, c'è la soluzione al dilemma: «Per trascendere da questa dimensione unidimensionale, occorre prendere coscienza dell'invisibile». Ma «trascendere» non regge il complemento oggetto? Si trascende qualcosa, mica da qualcosa. Torna in mente il monito di Gesù: «Sia il vostro parlare sì sì, no no"; il di più viene dal maligno».Ben più allarmanti, però, sono i ragionamenti che sovvertono le categorie del pensiero cristiano, applicando le griglie postmoderne. Ad esempio, sul periodico dei gesuiti si parlava della Chiesa che deve liberarsi «dallo strangolamento delle procedure», non restando «immersa nelle sabbie mobili di tensioni endogene e sterili equilibrismi». Tradotto: la Chiesa deve protestantizzarsi. Ancora più stridente un passaggio sul «pensare come servizio e non come forma di dominio». Roba, più che da teologi, da Michel Foucault. In una recente analisi sulla crisi della famiglia, La Civiltà cattolica parla del «vivere insieme» come opera di costruzione di «modelli decisionali e rapporti di potere in relazioni asimmetriche». Capito? La famiglia come sistema di «rapporti di potere». Morto il cattolicesimo, resta la decostruzione. Che il connubio tra Fabio Volo e postmodernità, da ultimo, possa declassare il depositum fidei a una «spiritualità», alla fine lo dichiara lo stesso Spadaro. Che circa un mese fa twittava: «Escludiamo ogni pretesa che una “civiltà cattolica" possa costruirsi noncurante della pluralità delle idee. Escludiamo pure la pretesa che i cattolici possano e debbano costruire la “civiltà" da soli, senza il contributo di chi porta valori diversi ma validi perché umani». Civiltà cattolica, sì. Ma non troppo. Quasi per niente.