2019-01-25
Venezuela nel caos. Guaidò ha il governo, Maduro l’esercito (e non vuole mollare)
Altri 16 morti e 200 feriti negli scontri. Il giovane sfidante può contare sul popolo. Ma per la spallata serve un aiuto esterno. È una crisi umanitaria che viaggia parallela al disastro economico. Basti pensare che il prodotto interno lordo è passato dai 334,7 miliardi di dollari nel 2008 ai 96,3 dell'anno scorso, secondo i dati del Fondo monetario internazionaleAll'indomani della decisione degli Stati Uniti di riconoscere l'autoproclamato presidente venezuelano, Juan Guaidó, è il ministro della Difesa, Vladimir Padrino López, a lanciare il più accorato appello a sostegno del dittatore Nicolás Maduro, evidenziando come i militari siano ancora al fianco del caudillo. Ieri, intanto, una giornata di scontri di piazza, con 16 morti e oltre 200 feriti. Particolarmente drammatica la situazione nella città di Maturín, la capitale dello Stato orientale di Monagas, dove l'esercito ha assediato la cattedrale, all'interno della quale si erano rifugiate oltre 700 persone, che dopo ore sono riuscite a uscire. In rivolta anche i quartieri operai di Caracas, un tempo al fianco di Maduro, oggi sfiniti dalla crisi economica e al fianco del giovane ingegnere industriale di 35 anni Guaidó, presidente dell'Assemblea nazionale, dal 2015 nella mani dell'opposizione al regime.Il generale Padrino López ha accusato gli Stati Uniti di Donald Trump e i loro alleati nell'area, a partire dal Brasile di Jair Bolsonaro, di aver messo in piedi un «piano criminale» per rovesciare Maduro con il rischio di portare il Venezuela in una sanguinosa guerra civile. «Non è una guerra tra fratelli che risolvere i problemi del Venezuela, ma il dialogo», ha detto Padrino López avvertendo con toni chiavisti che un golpe (un progetto che «minaccia la sovranità e l'indipendenza della nazione») potrebbe portare «caos e anarchia» nel Paese. In precedenza, reagendo alla decisione degli Stati Uniti, Maduro aveva parlato dal balcone a una folla di sostenitori annunciando la rottura delle relazioni diplomatiche con Washington e aizzando i suoi al grido «trionferemo ancora una volta». Il successore di Hugo Chávez ha definito Guaidó «un usurpatore» promettendo di istituire un governo di transizione per salvare la nazione dal collasso economico. Una promessa che rischia di far la stessa triste fine del bolívar soberano, la moneta sovrana voluta da Maduro qualche mese fa per cercare di limitare l'iperinflazione e la crescita fuori controllo dei prezzi, ma che ben pochi problemi ha risolto alla popolazione scesa in piazza a contestarlo in questi giorni. «Protestare non può essere sinonimo di morte», ha dichiarato Erika Guevara Rosas, direttore di Amnesty international per le Americhe, a seguito delle notizie sui morti durante le proteste di piazza. «Usare le pallottole per ridurre al silenzio chi pone legittime richieste riguardo ai diritti umani», ha aggiunto, «riduce ulteriormente le possibilità di una soluzione pacifica alla grave crisi internazionale e dei diritti umani che il Venezuela sta attraversando negli ultimi anni». È una crisi umanitaria che viaggia parallela al disastro economico. Basti pensare che il prodotto interno lordo è passato dai 334,7 miliardi di dollari nel 2008 ai 96,3 dell'anno scorso, secondo i dati del Fondo monetario internazionale. Un altro dato ancora: l'anno scorso la produzione di greggio si è fermata a quota 1,1 milioni di barili al giorno, contro i 3 milioni del 2014. Il petrolio è il principale asset del Venezuela. Ma nonostante sia il Paese con le maggiori riserve stimate al mondo, nulla sembra poter fare contro la riduzione dei ricavi. Amnesty international ha chiesto a Maduro e al suo governo di «porre fine alla repressione e soprattutto garantire la vita e l'integrità fisica delle persone che manifestano contro di loro». Mentre da Davos, dove si trova per il Forum economico mondiale, Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni unite, ha chiesto alle parti di aprire un dialogo al fine di «evitare un'escalation che porterebbe a un conflitto».«Resteremo qui finché il Venezuela non sarà liberato», ha promesso Guaidò dopo il giuramento, rievocando le parole di Leopoldo López, leader del suo partito, Voluntad popular, agli arresti domiciliari dal 2017. López, insignito nel 2017 del Premio Bruno Leoni, l'anno prima giurava: «Niente e nessuno ci allontanerà dalla nostra lotta per liberare il popolo venezuelano dalla dittatura di Maduro». «Gli occhi del mondo sono tutti puntati su di noi». Così Guaidò ha chiesto all'esercito di scaricare il dittatore e di ristabilire i dettami della Costituzione. La stessa che gli ha permesso di giurare formalmente come «presidente incaricato» del Venezuela e assumere ad interim i poteri. Se non bastassero i dati economici e la crisi umanitaria a evidenziare che no, non si tratta di un golpe contro Maduro, c'è infatti l'articolo 233 della Carta venezuelana, sulla quale ha giurato lo stesso dittatore, che sancisce la possibilità di destituzione del presidente in funzione in caso di «abbandono del mandato determinato dal potere legislativo».Secondo gli analisti il futuro del Venezuela passa in larga parte dall'esercito. Molto dipenderà infatti dal sostegno che i militari continueranno a riservare a Maduro, che li ha premiati con posizioni di potere nel governo e nella campagna petrolifera di Stato Pdvsa. Tuttavia, non è ben chiaro quanto l'annuncio del ministro Padrino López rifletta i reali umori dell'esercito. I dubbi sul reale sostegno dei militari a Maduro si fondano su altri due elementi. Il primo: questa settimana le autorità hanno arrestato 27 soldati che stavano preparando un golpe contro il dittatore. Il secondo: se i vertici dell'esercito sono soddisfatti dai loro alti incarichi, lo stesso non si può dire dei ranghi inferiori che sentono la crisi e potrebbero decidere di sfruttare l'amnistia offerta da Guaidó e dall'Assemblea nazionale ai membri delle forze armate che abbracciano l'opposizione.