
Non si placano le proteste in Venezuela per la rielezione di Nicolas Maduro, che invece riceve l'appoggio di Russia, Cina e Iran. Possibile impatto sulle elezioni americane.Non si arrestano le proteste in Venezuela dopo le elezioni presidenziali tenutesi domenica. L’opposizione accusa infatti Nicolas Maduro di aver orchestrato dei brogli per rimanere al potere. Finora si conterebbero almeno undici morti, mentre una statua di Hugo Chavez è stata abbattuta a Coro tra il plauso della folla. Nel frattempo, alcuni esponenti dell’opposizione sono stati arrestati, mentre - secondo Reuters - l’esercito non sembra avere intenzione di ritirare il proprio sostegno al regime di Caracas. Il Paese è, insomma, sempre più nel caos. E si sta concretizzando progressivamente il rischio di un’enorme destabilizzazione in un’ampia parte dell’America Latina. Il punto vero è che, al netto del suo autoritarismo, Maduro è tutt’altro che isolato sul piano internazionale. Non a caso, il presidente venezuelano ha ricevuto le congratulazioni per la vittoria da Cina, Iran e Russia: Paesi con cui Caracas ha stretto ulteriormente i propri rapporti nel corso degli ultimi anni.A settembre, Maduro si recò in Cina, dove incontrò Xi Jinping, firmando vari accordi nei settori di economia, commercio e turismo. Nell’occasione, il leader venezuelano disse di supportare la Belt and Road Initiative, mentre il presidente cinese auspicò di avviare con Caracas una partnership strategica. Ricordiamo che Pechino è attualmente il principale creditore del Venezuela: una situazione che permette al Dragone di esercitare una certa influenza sul Paese latinoamericano. Era invece giugno 2022, quando, recatosi a Teheran, Maduro firmò una roadmap di cooperazione ventennale con l’allora presidente iraniano, Ebrahim Raisi. Quest’ultimo visitò a sua volta il Venezuela l’anno successivo e, siglando una serie di accordi, criticò, insieme allo stesso Maduro, gli Stati Uniti. Non solo. Quattro anni fa, l’Atlantic Council pubblicò uno studio che evidenziava gli stretti rapporti tra il regime venezuelano ed Hezbollah: organizzazione terroristica storicamente finanziata proprio dagli ayatollah. «Il gruppo terroristico libanese ha contribuito a trasformare il Venezuela in un hub per la convergenza del crimine organizzato transnazionale e del terrorismo internazionale», si leggeva nel rapporto. Altrettanto solidi sono i rapporti tra Caracas e Mosca. Nel 2022, Maduro si espresse a favore dell’invasione russa dell’Ucraina, mentre nel 2019 circolò la notizia che alcuni mercenari del Wagner Group erano stati inviati in Venezuela per proteggerne il presidente. Infine, a schierarsi con il leader venezuelano, sono stati Paesi latinoamericani assai vicini tanto a Mosca quanto a Pechino, come Cuba e il Nicaragua. Tutto questo fa ben capire come Maduro sia tutt’altro che isolato sul piano internazionale. E, da questo punto di vista, la colpa è anche dell’amministrazione Biden.Nonostante abbia sempre invocato la necessità di un’alleanza delle democrazie contro le autocrazie, l’attuale presidente americano ha tenuto una linea piuttosto soft nei confronti di Caracas. Ha innanzitutto allentato le sanzioni al Venezuela nel novembre 2022 e nell’ottobre dell’anno successivo. Inoltre, sempre l’autunno scorso, ha raggiunto un accordo col governo locale per rimpatriare i migranti venezuelani entrati illegalmente in territorio statunitense. Quando ha finalmente capito che l’appeasement verso Maduro serviva a poco, era troppo tardi. Joe Biden ha reintrodotto le sanzioni soltanto ad aprile di quest’anno, mentre - appena pochi giorni prima delle elezioni di domenica - Reuters riferiva che la Casa Bianca fosse intenzionata a un nuovo allentamento delle misure ritorsive, nel caso Maduro avesse garantito una «votazione imparziale». L’altro ieri, sempre Reuters ha rivelato che Biden starebbe considerando di imporre «sanzioni individuali o divieti di viaggio negli Stati Uniti per i funzionari venezuelani»: una misura dalla dubbia utilità, che equivarrebbe a chiudere la stalla dopo che i buoi sono irrimediabilmente scappati. Insomma, l’attuale presidente americano non si limita a lasciare in eredità un Medio Oriente in fiamme. Lascia ai posteri anche un’America Latina sempre più instabile, oltreché preda delle mire sino-russe. L’unica buona notizia per l’Occidente arrivata da quest’area nell’arco degli ultimi tre anni è stata la vittoria elettorale, in Argentina, di Javier Milei, che però -piccolo particolare- è un alleato Donald Trump: quel Trump che, nel 2019, adottò un approccio tutt’altro che tenero nei confronti di Maduro.E questo ci porta ai possibili impatti della crisi venezuelana sulle elezioni statunitensi. Non solo Kamala Harris fa parte dell’amministrazione Biden che, come detto, non è stata granché severa verso il regime di Caracas, ma finora, nei suoi commenti sul voto di domenica, la vicepresidente statunitense si è guardata bene dal criticare Maduro e dal condannare il socialismo. Non è del resto un mistero che alcuni settori della sinistra dem guardino con una certa simpatia al Venezuela: si tratta di galassie che la Harris non vuole alienarsi in vista delle elezioni novembrine. Tuttavia, agendo così, la diretta interessata rischia di alienarsi il fondamentale voto della Florida: uno Stato ricco di elettori anticastristi e anti-Maduro. Per la vicepresidente, la crisi venezuelana potrebbe rappresentare uno scoglio elettorale assai rilevante.
Mattia Furlani (Ansa)
L’azzurro, con 8,39 metri, è il più giovane campione di sempre: cancellato Carl Lewis.
iStock
L’azienda sanitaria To4 valuta in autonomia una domanda di suicidio assistito perché manca una legge regionale. Un’associazione denuncia: «Niente prestazioni, invece, per 3.000 persone non autosufficienti».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
Le motivazioni per la revoca di alcuni arresti: «Dalla Procura argomentazioni svilenti». Oggi la delibera per la vendita di San Siro.