2019-11-17
Venezia affogata dalle chiacchiere all’italiana
Una cosa ci pare chiara di fronte al disastro di Venezia e cioè che l'alluvione è il risultato della solita inconcludenza italiana e dell'ancor più conosciuta mancanza di coraggio. Mentre l'acqua saliva, mentre la città rischiava di essere inondata, le anime belle, quelle che sono abituate a dire che «il punto è un altro» e a sostenere che «è meglio un'altra soluzione», discutevano. Chiacchiere. Venezia è andata sotto per chiacchiere, non per l'alta marea. Venti, trenta, quaranta, cinquant'anni di parole che continuavano a salire. Nel frattempo, dopo che nel 1966 la laguna era stata (...)(...) sommersa dall'aqua granda, c'era chi consigliava di mettere gli stivali, perché non servivano le paratie o centinaia di martinetti per sollevare le calle intorno a piazza San Marco (sì, alcuni scienziati hanno proposto anche questo), ma bastavano i gambali di caucciù. Del resto, un po' d'acqua non ha mai fatto male a nessuno e anzi, ai turisti piace. A chi ricordava che mezzo secolo fa era stato un disastro, con i negozi distrutti e i capolavori rovinati, i geni della lampada, anzi dell'alta marea, rispondevano che quello di 50 anni fa era un evento straordinario, ma mica si può decidere di costruire un ombrello di cemento sulle città perché una volta ogni 100 anni cadono chicchi di grandine che somigliano a meteoriti. Eh, no, l'eccezione non può costringerci a vivere come se fosse la regola. Dunque, lasciamo perdere le dighe e il progetto di sollevare Venezia di un metro o un metro e mezzo e concentriamoci sulle cose serie.E così, eccoci qui, davanti alle cose serie, ovvero a 1 miliardo di danni a seguito di tre giorni di alta marea che hanno fatto andare sott'acqua la città. Se avessimo costruito in fretta il Mose, quando una commissione di esperti internazionali decise che quella era la soluzione migliore per difendere la città; se lo avessimo fatto senza polemiche, senza contestazioni degli ambientalisti preoccupati per la sopravvivenza dei gamberetti e delle cozze della laguna; se non ci fossero stati gli stop and go a ogni cambio di governo, obbligando il Paese a ricominciare da capo la discussione sul sistema migliore per salvare la città; se i politici avessero dimostrato di tenere più a Venezia che non al loro tornaconto politico personale, oggi la diga semovente in grado di arginare l'acqua alta sarebbe in funzione e non ferma, immobile, in attesa di un collaudo o dell'ultimo timbro di un'autorità che qualcuno, lassù in alto, alla presidenza del Consiglio, si è dimenticato di nominare. Dall'85 a oggi, cioè da quando Bettino Craxi annunciò il progetto del Mose, sono passati 34 anni e in un terzo di secolo non siamo stati capaci di costruire un muro che difendesse la città. Nel Medioevo si scavavano fossati e si tiravano su fortificazioni per difendersi dalle invasioni dei barbari. Nel Duemila non siamo capaci di far salire un muro che difenda la città dall'acqua. In realtà, il muro c'è, ed è anche costato 5,5 miliardi di euro, perché a forza di ripensamenti e di commissioni di esperti, il prezzo dell'opera è lievitato come una Fugazza, il dolce pasquale della cucina veneta. Ma nonostante ci sia e sia praticamente completato, sta lì, fermo e immobile, sott'acqua, perché qualcuno non ha ancora autorizzato il collaudo. Settantotto paratie annegate nel mare dell'immobilismo e nella mancanza di coraggio. I commissari, cioè quelli che sono pagati per decidere, ma si guardano bene dal prendere una decisione, dicono che a far alzare la barriera avrebbe dovuto essere il capo della Protezione civile, oppure il prefetto, ma certo non loro. Il «padre del Mose» dichiara a Repubblica che lui, se gli avessero ordinato di alzare le paratie, sarebbe scappato, perché «sarebbe stato come guidare una Ferrari senza freni». Certo, piuttosto che rischiare di salvare la città guidando senza freni, è stato meglio fare annegare Venezia. «Per alzare in tempo utile le barriere, ci avremmo messo cinque ore», dice il nonno del Mose. Ma si sapeva un giorno prima che sarebbe arrivata l'alta marea, ribatte l'intervistatore. «Sì, ma bisognava aspettare che arrivasse a un certo livello». Quando avete preso la decisione di non alzare la diga? «Il giorno prima, al telefono. Sapevamo che avremmo avuto acqua a 150-160 centimetri, non certo a 187». Sì, un giorno prima sapevano tutto, ma un giorno prima hanno deciso di non rischiare di salvare Venezia. Non pensavano che l'acqua sarebbe salita così tanto e poi pensavano che con la diga su avrebbero fermato «solo» dieci centimetri. Ecco, la storia dell'allagamento di Venezia sta tutta qui. Nelle parole. Anzi, nelle chiacchiere in cui si sono persi i tecnici e i politici. Invece di salvare un capolavoro unico al mondo hanno fatto un capolavoro di inconcludenza e di mancanza di coraggio. Un caso da studiare e da portare a esempio, per capire che cosa non si deve fare quando c'è un patrimonio da difendere.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)