2021-05-02
Il Covid ha reso ancora più tragiche le sofferenze delle surrogate
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Il Coronavirus ha stravolto anche il business dell'utero in affitto. Alcuni hanno addirittura preferito cercare all'interno del proprio nucleo familiare una portatrice. Chi invece si è affidato, come di consueto, a cliniche specializzate si è ritrovato a dover fare i conti con il blocco dei viaggi e la conseguente "mancata consegna" dei bimbi.Storie differenti, tutte accomunate da un dettaglio: la sofferenza.Perché se da una parte, come racconta la storia della famiglia Lockwood, affidarsi alla propria madre scegliendola come mamma surrogata del proprio nipote può creare una crepa all'interno di una famiglia prima unitissima, dall'altra c'è chi, a ormai più di un anno di distanza, non ha ancora avuto modo di incontrare il proprio bambino che, oggi, chiama mamma la sua surrogata. La prima storia che vi raccontiamo arriva da Chicago dove Julie Loving, una donna di 52 anni, si è offerta di essere la portatrice e dare alla luce la propria nipote tramite maternità surrogata. «Il tutto è avvenuto in modo molto naturale all'inizio» racconta Julie «mia figlia Breanna (30 anni) e suo marito hanno lottato fin dall'inizio della loro relazione per avere un bambino. Ma l'infertilità, diagnosticata alla figlia, non le ha concesso alcuna chance. Ho quindi scelto di intervenire in suo aiuto». Come? Rimanendo incinta e dando la vita a sua nipote biologica. Briar Juliette, questo il nome della bimba, è sana e felice tra le braccia di Breanna e il marito. Ma per Julie le cose non sono così semplici. Mentre infatti la gravidanza di Julie non è stata molto diversa dalle sue altre due, questa volta non solo è stata costretta a subire un cesareo, ma ha sperimentato «ondate di pesante ansia postpartum». Diagnosticata come a tutti gli effetti una forte depressione postpartum, il malessere di Julie si è tradotto con intense nausee nelle settimane dopo il parto e una effettiva difficoltà a lasciar andare la nipotina. A raccontare le difficoltà affrontate dalla madre è anche la stessa Breanna che sui social network ha documentato il percorso verso la sua nuova famiglia. «Penso che la gente alla fine pensi che la maternità surrogata postpartum sia triste perché non si ottiene il bambino. Ma questo non potrebbe essere più lontano dal caso» scrive «Mia madre ha avuto ondate di pesante ansia postpartum. Ansia che si accendeva pesantemente di notte, pianto e paura, non riusciva a spiegarlo. Nausea. Nausea così forte seguita da altra ansia e paura di vomitare e di usare quei muscoli dello stomaco. Potrebbe essere il parto? Non era quello che avevamo immaginato o sperato, naturalmente siamo grati e l'obiettivo finale è un bambino sano. Il recupero del cesareo d'emergenza è stato senza dubbio molto più difficile da superare rispetto alle precedenti nascite vaginali sperimentate da mia mamma». A giocare un forte ruolo nella depressione postpartum della donna anche i cali ormonali che hanno portato di nuovo la donna ai livelli della menopausa. «Qualcosa per cui non ci siamo preparati, né credo che qualcuno ci abbia davvero pensato fino a quando non stava accadendo» ha concluso Breanna «Qualunque cosa fosse, baby blues, è stata dura. Dura per la mia mamma, e dura per il mio cuore vederla lottare».Sebbene Julie si fosse ripromessa di allattare la nipotina, ha preferito passare al latte in formula per rendere più rapido «il passaggio da mamma a nonna». La seconda storia che vi raccontiamo unisce gli Stati Uniti e la Cina. Emily Chrislip, una cittadina statunitense di 25 anni, si sta ancora occupando di un bambino che ha portato in grembo per una coppia in Cina come madre surrogata un anno fa. Due mesi prima che Chrislip desse alla luce il bambino, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il Covid-19 una pandemia globale. Le restrizioni di viaggio hanno reso impossibile alla coppia cinese di recarsi negli Stati Uniti per il parto o a Chrislip di consegnare il bambino. Dopo aver dato alla luce suo figlio, Camden, sapeva di voler dare lo stesso dono della vita a qualcun altro. È stata quindi scelta per essere una madre surrogata per la coppia cinese, ma le cose non sono andate secondo i piani. «Penso che quando il presidente Trump ha deciso di chiudere le frontiere è quando la realtà mi ha colpito e ho capito che probabilmente non ce l'avrebbero fatta per il parto», ha spiegato Chrislip. All'inizio, la coppia ha chiesto a Emily di occuparsi del bambino per quattro settimane. La decisione è stata difficile sia per lei che per il marito, ma hanno accettato. Ora è passato quasi un anno ed Emily e suo marito si stanno ancora prendendo cura della bambina surrogata. «Sicuramente la amiamo e ci prenderemo sempre cura di lei, ma capiamo che non è nostra», dice. A chi le chiede, online dove tiene un diario di questa esperienza collegata alla maternità surrogata «Non è un po' crudele per il bambino?» Emily risponde che è impossibile saperlo. Eppure oggi la bimba, di cui non è stato rivelato il nome, ha imparato a riconoscere i "non genitori" e il suo "non fratellino". E questo potrebbe essere un trauma nel momento in cui si ricongiungerà con i genitori biologici in Cina. Secondo Pact Adopt, un'associazione in difesa dei bambini adottivi, «il legame è un processo a senso unico che inizia nella madre naturale durante la gravidanza e continua nei primi giorni di vita. I genitori adottivi a volte lottano con il legame e possono sperimentare la depressione post-adozione». Pur non essendo infatti geneticamente imparentato con Emily e Brandon, la bambina con loro ha creato un legame con queste due persone che richiederà un po' di coraggio e tempo per tutte le parti coinvolte.