2024-04-28
Ursula in tour con l’acqua alla gola cerca il bis corteggiando Ppe e Pse
Ursula von der Leyen (Getty images)
Il capo della Commissione chiede aiuto ai Popolari (primo partito nei sondaggi).La seconda incoronazione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea non è affatto scontata, nonostante al momento la presidente dell’esecutivo Ue sia l’unica candidata al prestigioso incarico a Bruxelles. La presidente uscente ha inaugurato questo weekend il suo tour elettorale che la porterà in tutte le capitali Ue (il 13 maggio sarà in Italia). Ma, a parte il logo - una bandiera europea con la scritta «Ursula 2024» - e lo slogan - «Prosperità, sicurezza, democrazia» - il programma elettorale della Von der Leyen è quantomai tenuto sottotraccia: qualsiasi fuga, in avanti, a destra o a sinistra, rischia di tramutarsi in boomerang per la presidente. La stessa promessa di fare una «campagna personale» per «farsi conoscere meglio dai cittadini europei», come ha spiegato il suo staff, potrebbe rivelarsi controproducente, tenendo presente che donna Ursula viaggerà nella doppia veste di presidente della Commissione e verosimilmente farà campagna avvalendosi del ruolo ufficiale. Lo scenario politico europeo è profondamente diverso da quello che l’ha catapultata, quasi per miracolo, alla guida dell’esecutivo Ue nel 2019. Allora, il sistema di nomina del presidente della Commissione europea, l’istituzione più influente e potente dell’Unione, era quello dei cosiddetti «Spitzenkandidaten», in base al quale ogni partito doveva presentare un candidato principale (da «Spitze», ovvero «punta» o «spicco») per presiedere la Commissione. Introdotto nel 2014, il sistema prevedeva che «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo», i leader dell’Ue selezionassero un candidato che doveva poi essere approvato dagli eurodeputati con un voto a maggioranza assoluta. Nel 2019 il candidato del Ppe era il tedesco Manfred Weber, ma intorno al suo nome non si trovò l’accordo con i socialisti del Pse; l’impasse condusse alla formazione della famosa «maggioranza Ursula» che proiettò la prediletta di Angela Merkel al soglio europeo. Non è un caso che Von der Leyen sia andata a cercare consenso prima di tutto nella sua famiglia politica, il Partito popolare europeo (che secondo i sondaggi, alle elezioni europee di giugno dovrebbe riconfermarsi come primo partito dell’Unione), presentando ufficialmente la sua candidatura al congresso del Ppe che si è tenuto a Bucarest a inizio marzo. E lì sono arrivate le prime grane: su 801 delegati aventi diritto, Ursula ha ricevuto soltanto 400 voti a favore. Von der Leyen rischia di essere impallinata dal suo stesso partito, spaccato tra un’ala più conservatrice (cui fa riferimento anche il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani) e una più progressista e antisovranista, che guarda con interesse alle politiche green. La presidente è stata sottoposta a un’enorme pressione, da parte del suo Ppe, sulla legge Natura, che tradisce conservatori e contadini; Ursula ha tentato di correggere il tiro, ma resta agli atti la lettera, ottenuta dalla testata Politico e datata 16 aprile, che la presidente ha inviato ai membri del Parlamento europeo in sostegno alla legge, da lei definita «proposta di punta» del «pilastro della biodiversità» del Green deal e «chiave per rispettare gli impegni globali dell’Unione europea sulla biodiversità». La linea che sta perseguendo la presidente uscente, dunque, è improntata sul cerchiobottismo: da un lato cercare di recuperare consenso tra i popolari delusi - quelli che non l’hanno votata al congresso del Ppe - dall’altro strizzare l’occhio all’ala più progressista e ritornare al palazzo Berlaymont con una rinnovata «maggioranza Ursula» trasversale. La manovra è tanto ingenua quanto spericolata: Ursula von der Leyen ha perso la fiducia della maggioranza che l’aveva incoronata a causa della sua scelta di diventare candidata del Ppe. E se il concetto ancora non le fosse chiaro, ci ha pensato il presidente francese Emmanuel Macron, forte oppositore del sistema degli «Spitzenkandidaten», a ribadirlo lo scorso 22 marzo, lanciando un avvertimento neanche troppo velato alla Von der Leyen: «Il ruolo della presidenza della Commissione è quello di difendere l’interesse generale ed elevarsi sia al di sopra dei partiti che dei Paesi, quindi non deve essere eccessivamente politicizzato, cosa che, a dire il vero, non è affatto avvenuta con questa Commissione». Il partito di Macron, Renew, è diffidente verso la presidente e i dirigenti del gruppo hanno promesso di non volerle dare un «assegno in bianco», soprattutto se il Ppe dovesse stringere alleanze con i Conservatori e riformisti europei (Ecr, dove siedono gli eurodeputati di Fratelli d’Italia) e con il gruppo Identità e democrazia (Id, cui appartiene la Lega), anziché con i Verdi. I macroniens di Renew rischiano però la débâcle elettorale, dato che secondo i sondaggi passerebbero dagli oltre 100 seggi (su 705) del 2019 - che finora li avevano resi decisivi a Strasburgo - a circa 80. A meno che Macron non riesca a trasformare la «maggioranza Ursula» in «maggioranza Draghi»: l’ex premier italiano è molto vicino al presidente francese, è tornato in pista dopo la presentazione del suo rapporto sulla competitività ed è in lizza anche per succedere a Charles Michel alla presidenza del Consiglio Ue. Altri front runner a sorpresa potrebbero essere la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola (maltese, gruppo Ppe), l’attuale presidente della Bce, Christine Lagarde, il presidente rumeno Klaus Iohannis, conservatore, e il commissario europeo agli Affari interni, Thierry Breton. Tutto è ancora da decidere, insomma, tranne a chi competerà la scelta: saranno come sempre i capi di Stato e di governo Ue a stabilire chi guiderà la futura Commissione europea, rendendo di fatto il sistema degli «Spitzenkandidaten» un’ipocrita farsa in salsa europea.
Jose Mourinho (Getty Images)