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2020-07-27
Università, la grande fuga
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«Mia figlia Giulia voleva arrivare alla laurea magistrale in Scienze dell'educazione, due anni in più e avrebbe coronato il suo sogno oltre ad avere più possibilità di superare i concorsi. Invece, ci si è posto il problema se far continuare a nostra figlia il percorso universitario. Il Covid ci ha colpito duramente. Giulia è stata contagiata, abbiamo dovuto affrontare ingenti spese per le cure, non ancora terminate. Ma anche le prospettive future ci preoccupano». La storia di Massimo Malagoli, di Modena, responsabile comunicazione dell'associazione dei genitori delle scuole paritarie, Agesc, è simile a quella di tante famiglie colpite dalla crisi scatenata dalla pandemia. È la storia di quel ceto medio che fino a tre mesi fa viveva senza problemi e riusciva a disegnare, anche con sacrifici, la strada per i propri figli. Ora quelle stesse famiglie sono costrette a tagliare su tutto. E non basta più rinunciare alla cena fuori, alle vacanze, al parrucchiere, al vestito in più. Le forbici arrivano anche sulla formazione. L'università diventa un lusso.
«Per altri due anni di corsi avremmo dovuto spendere circa 9.000 euro, 4.500 l'anno, senza la certezza di un'occupazione. Così ho detto a Giulia che è meglio impiegare quel tempo per cercare un impiego e poi, semmai, completare la formazione». A preoccupare Massimo oltre all'incertezza economica è anche la preparazione offerta dall'ateneo. «Gli ultimi esami sono stati fatti in modo superficiale e le lezioni a distanza erano carenti di approfondimento. Tanti genitori si lamentano della conclusione, pessima, di questo anno universitario e si interrogano sull'opportunità di sobbarcarsi tasse e rette a fronte di una formazione che chissà per quanto tempo ancora continuerà a essere erogata da remoto e in modo approssimativo. Le lezioni online non possono sostituire quelle in presenza». Conclude Malagoli: «Lo studio universitario sta diventando per tanti genitori una voce da tagliare, come la colazione al bar o l'abbigliamento».
Claudio Mazzoleni ha un figlio al terzo anno di Ingegneria alla Statale di Milano. «Interrompere a metà il suo percorso universitario e stata una scelta sofferta perché lui è in gamba, ha sempre avuto ottimi voti e voleva continuare, ma non ce la faccio. Dovrà cercare un lavoro». Claudio, 60 anni, con una brillante carriera di architetto in uno studio, ora è in cassa integrazione. «Lavoro a settimane alterne, non riesco ad andare avanti. Sto pensando alla pensione: anche se sarà un assegno basso, almeno è una certezza. Mio figlio è una risorsa sprecata». Alle associazioni dei genitori arrivano sempre più numerose le testimonianze di famiglie che non ce la fanno a far continuare gli studi ai figli, dice Malagoli. C'è tanto pudore nel parlare, vergogna nell'esporsi in prima persona, nell'esprimere una condizione di disagio economico, soprattutto nelle città di provincia dove tutti si conoscono. Siamo a Brescia e un'associazione di genitori riferisce la storia di Roberto, 21 anni: era iscritto ad Architettura, ha rinunciato a proseguire, non arriverà alla laurea; ha trovato un lavoro part time presso una bottega artigiana. Il padre è in cassa integrazione e la madre pur avendo un negozio di abbigliamento non riesce a garantire una solidità economica. Con il Covid, pochi clienti, pure quelli affezionati le hanno detto che dovranno stringere la cinghia. Anche un vestito in più pesa sul bilancio familiare. Claudia, invece, era al termine del corso di Medicina, un altro anno e avrebbe la laurea in tasca. Ha dovuto lasciare, ora ha un part time in un'azienda biomedica.
Romina Di Marcantonio, di Roma, non ha remore a parlare con La Verità della sua situazione. «Mio figlio Alessandro si è diplomato a giugno alla scuola alberghiera, doveva partire per Valencia per un progetto Erasmus ma con il Covid è saltato tutto. Ed è saltata anche l'iscrizione alla facoltà di Biologia. C'è il numero chiuso e soltanto per preparare l'esame di ingresso, tra libri e corsi online, avrei dovuto spendere circa 300 euro. Poi ci sono le rette universitarie, troppo care per il nostro budget familiare. Così abbiamo deciso di archiviare lo sbocco universitario. A settembre Alessandro comincerà a mandare il curriculum agli alberghi, ma con questa crisi che speranze può avere? Eppure prima del Covid la scuola alberghiera assicurava diverse opportunità di impiego. Anche l'Erasmus sarebbe stata una bella occasione, mio figlio era stato già contattato da una struttura per uno stage. Ora dobbiamo ricominciare e la strada è in salita».
Piero Notarnicola è il coordinatore padovano dell'Udu, l'Unione degli universitari, e dice che si stanno moltiplicando le segnalazioni di studenti che hanno problemi con gli affitti e il pagamento delle tasse. «C'è chi ha dovuto rescindere il contratto di locazione e chi non ha soldi per le rette universitarie anche se il pagamento è stato posticipato di un mese e mezzo. Chi non riceve soldi dai genitori perché in difficoltà economiche sta pensando di non continuare. E chi si manteneva con qualche lavoro ora lo ha perso». Piero poi riferisce le perplessità di tanti giovani rispetto alla didattica del prossimo anno. «Nessuno, nelle segreterie delle facoltà, è in grado di dare risposte chiare, ma un pendolare deve sapere come regolarsi con la locazione e se rinnovare l'abbonamento dei trasporti».
Enrico Gulluni, coordinatore nazionale dell'Udu, ha segnalato la gravità della situazione al ministro Gaetano Manfredi, ma non c'è stata risposta. «Tramite il Consiglio nazionale degli studenti abbiamo mandato alcune proposte come l'ampliamento della no tax area, per portare il tetto dagli attuali 20.000 euro a 30.000, e la richiesta di maggiori stanziamenti per le borse di studio. Nessun riscontro». Nel decreto Rilancio ci sono 1,4 miliardi per l'università, ma, sottolinea Gulluni, non viene affrontata l'emergenza. «Riceviamo ogni giorno centinaia di chiamate di studenti che hanno difficoltà a pagare la terza rata delle tasse. Avevamo chiesto che fosse annullata, siamo stati ignorati».
Uma Brandolino, coordinatrice Udu dell'Università statale Milano descrive un altro fenomeno. «Per risparmiare su alloggio e trasferimenti, alcune famiglie stanno privilegiando l'iscrizione dei figli nei piccoli atenei di prossimità. L'università grande e prestigiosa è ritenuta troppo costosa. La Statale di Milano, nonostante sia frequentata da molti fuori sede, non ha ancora ufficializzato come gestirà le lezioni, quante di queste saranno “in presenza" e come funzioneranno i laboratori. Questa incertezza sta inducendo tante famiglie di potenziali matricole a pensarci due volte prima di iscrivere i figli».
Anche chi esce dai licei comincia a interrogarsi sull'iscrizione all'università. «Il liceo ha sempre avuto come sbocco naturale, come completamento, l'accesso a un ateneo. Ma se già prima del Covid qualche genitore si interrogava sull'efficacia di questa scelta, ora con la crisi economica le perplessità sono aumentate» dice Davide Vespier, docente di Lettere al liceo classico Albertelli di Roma e consigliere nazionale ufficio scuola dell'Age, associazione di genitori. «La didattica a distanza è vista con diffidenza. Le famiglie si chiedono perché spendere tanti soldi e poi non avere dall'università il massimo. L'uso dei laboratori è sacrificato. Molti preferiscono orientare i figli verso corsi tecnici non universitari, meno costosi e considerati più utili per trovare lavoro».
«Questa crisi durerà. Il governo prolunghi gli sconti sulle rette»
«Il tema dell'iscrizione all'università delle famiglie esiste, per questo abbiamo messo in atto importanti misure cercando di scongiurare il calo delle immatricolazioni. Vedremo gli effetti a settembre. Sicuramente rispetto agli scorsi anni ci sono più difficoltà e maggiore sensibilità al problema. Le misure previste dal decreto Rilancio sui fondi a supporto della contribuzione studentesca andrebbero estese anche al prossimo anno. Dobbiamo stare attenti che la crisi economica non porti un indebolimento dell'alta formazione». Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano e presidente del Crui, la Conferenza dei rettori italiani, dice di aver avuto segnalazioni da vari atenei di questo trend in discesa delle iscrizioni.
Con che percentuali stanno diminuendo le iscrizioni?
«È prematuro tirare le somme, le iscrizioni sono ancora in corso. Ma spero che non si ripeta la situazione della crisi del 2008, quando ci fu una riduzione significativa. Ci sono voluti dieci anni per tornare ai valori precedenti. Solo nel 2018 abbiamo visto un recupero degli studenti che avevamo prima del 2008. Le crisi perdurano nel tempo».
Il Covid ci lascerà in eredità un'Italia più povera culturalmente?
«La crisi sanitaria della pandemia già oggi rischia di portare conseguenze dal punto di vista economico e quindi sociale quando costringe alcune famiglie a non investire più nel futuro dei loro figli e quindi del nostro Paese. Questo era un rischio su cui si è lavorato molto negli ultimi mesi. Il decreto Rilancio ha inserito oltre 200 milioni di euro dedicati a misure per ridurre o azzerare la contribuzione studentesca alle tasse universitarie. È stato un messaggio forte che ha permesso sia ai ceti più bassi di avere contribuzioni azzerate sia ai ceti medi di avere facilitazioni. Per il prossimo semestre ci sarà la possibilità di frequentare a distanza le lezioni, e questo permetterà di ridurre i costi di affitti e trasporti».
Ma la crisi non si esaurisce con il 2020. Le misure del decreto Rilancio non rischiano di essere un pannicello caldo?
«Questa crisi, è vero, non si chiuderà con l'anno accademico 2020-2021, quindi queste risorse andrebbero preventivate almeno per il prossimo triennio e quinquennio. La crisi economica ha dinamiche molto più lente di quella sanitaria, e prima che riparta l'economia, e con essa il potere d'acquisto delle nostre famiglie, passeranno ancora anni. La risposta quindi è stata efficace e tempestiva per l'anno accademico 2020-2021, ma il mio suggerimento è di mantenere la stessa efficacia per i prossimi anni per dare alle famiglie un segnale, la possibilità di iscrivere un figlio subito senza rischiare di trovarsi in difficoltà l'anno prossimo».
Alcune famiglie non sono convinte dell'efficacia delle lezioni a distanza, temono un calo della qualità. Temono di pagare tasse alte per avere poi una formazione scadente. Anche questo è un disincentivo a iscrivere un figlio?
«Noi siamo sempre abituati a vedere gli aspetti negativi. L'università italiana in meno di 15 giorni ha completamente trasportato tutta la didattica a distanza, il nostro è stato uno dei pochi Paesi a rispondere così. Oggi, a fine luglio, gli studenti hanno fatto esami e lauree come se non ci fosse stata la pandemia. È un risultato importante perché perdere i semestri sarebbe stato molto più gravoso per le famiglie. Avrebbe comportato posticipare le lauree e quindi l'ingresso nel mercato del lavoro dei propri figli. Gli atenei hanno agito con tempestività e assorbendo tutti i costi dell'emergenza».
Ma quando si tornerà nelle aule?
«Tutte le università stanno pianificando la ripresa delle lezioni in presenza per il prossimo semestre. È fondamentale il valore di essere in aula, delle relazioni sociali. Sarebbe triste mantenere l'università solo telematica».
Le lezioni in streaming hanno danneggiato anche quelle città che vivono dell'attività universitaria.
«È vero. Abbiamo una responsabilità non solo verso gli studenti ma anche verso i territori. L'indotto che l'università offre al tessuto cittadino, all'economia, è importante».
Siete anche pronti al rischio di una seconda ondata di contagi?
«Torneremo nelle aule ma con modalità tali da essere in grado di commutare immediatamente a distanza senza mettere in difficoltà nessuno e senza perdere un semestre. Qualora il comitato tecnico scientifico riducesse un po' i limiti del distanziamento, potremmo portare tutti in presenza. Stiamo ipotizzando un modello che permetta la frequenza in presenza o a completa distanza in base alla condizione della pandemia in autunno. Tutto questo ha dei costi. L'università italiana è in assoluto l'unica in Europa che riesce a erogare una didattica con costi medio bassi. Uno studente universitario in Germania e in Francia costa 10.000 euro all'anno mentre in Italia siamo lontani da questa cifra».
Alcune università del Sud hanno adottato incentivi per recuperare i giovani che avevano scelto di trasferirsi negli atenei del Nord. Ci sarà un'immigrazione di ritorno?
«Tutte le politiche che vogliono aiutare i ragazzi ben vengano, ma quelle che vogliono chiudere le persone dentro i confini non le condivido. La mobilità dei nostri giovani è un fattore importante».
Qual è la situazione al Politecnico di Milano?
«Abbiamo completato i test di ingresso con dei numeri paragonabili a quelli dell'anno scorso, chiuderemo le immatricolazioni nei primi giorni di agosto. In questo momento non registriamo un calo. Abbiamo ancora aperto il discorso delle iscrizioni di studenti internazionali. In Paesi che sono ancora al culmine della pandemia, come era da noi ad aprile, l'attenzione ora non è focalizzata sul rientro all'università ma su altre tematiche. Penso al Brasile, all'India, agli stati del Sud America».
Il calo delle immatricolazioni riguarderà soprattutto gli studenti stranieri?
«Cercheremo di aiutare anche gli studenti internazionali con l'erogazione della didattica a distanza fino a quando non potranno venire. Gli studenti cercano una università capace di garantire un investimento per il futuro, non rinunciano volentieri al loro domani. Superata la fase di emergenza nel loro Paese, torneranno nelle nostre città».
Chi è andato all'estero a studiare tornerà?
«Regno Unito e Usa, che erano destinazioni gettonate, oggi sono meno appetibili per colpa della pandemia. Sicuramente i ragazzi che andavano a studiare in quelle aree ora guarderanno ad altre università di qualità in giro per il mondo, quindi se noi avremo offerte formative di prestigio potremmo recuperarli».
Spariranno circa 10.000 studenti
Il Covid rischia di impoverire il Paese anche culturalmente, oltre che economicamente. Il virus potrebbe lasciarci in eredità una giovane generazione meno formata e l'università, da conquista per tutti, rischia di tornare ad essere lo sbocco per una élite, un lusso per pochi. Il fenomeno comincia ad essere rilevato dagli istituti di ricerca, anche se la conferma ci sarà solo in autunno quando arriveranno i dati completi delle immatricolazioni.
Svimez ha stimato che nel 2020-2021 circa 10.000 studenti potrebbero non iscriversi ai nostri atenei. Parliamo, per l'esattezza, di 9.500 studenti su scala nazionale, di cui 6.300 nel Mezzogiorno e i restanti 3.200 nel Centro Nord. Potrebbe riproporsi la situazione prodotta dalla crisi del 2008-2009, ma questa volta sarebbe più grave. Entrando nel dettaglio, la nota di Svimez, elaborata dal direttore Luca Bianchi e da Gaetano Vecchione (Svimez - Università Federico II Napoli), sottolinea come a fine mese si stimino approssimativamente 292.000 maturi al Centro Nord e circa 197.000 al Sud. La precedente crisi del 2008-2009 ha evidenziato una elevata elasticità del tasso di passaggio tra scuola e università legato all'indebolimento dei redditi delle famiglie soprattutto nel Mezzogiorno: alla luce di ciò, Svimez ha stimato una riduzione del tasso di proseguimento di 3,6 punti nel Mezzogiorno e di 1,5 nel Centro Nord. Già la precedente crisi economica, trascinatasi dal 2008 al 2013, aveva provocato un crollo delle iscrizioni alle università, soprattutto al Sud. In quegli anni la percentuale di chi usciva dalla scuola superiore e andava all'università è crollata di 8,3 punti. In un quinquennio ci sono state oltre 20.000 iscrizioni in meno nel Mezzogiorno. Nel Centro Nord il calo è stato di 2 punti percentuali circa.
Secondo l'Osservatorio talents venture, che analizza costantemente lo stato dell'università italiana e le opportunità occupazionali che offre ai suoi laureati, l'impatto del Covid sulle immatricolazioni potrebbe essere peggiore di quanto valuta Svimez. Considerato un calo del Pil del 9%, le nuove iscrizioni potrebbe ridursi di circa 35.000 unità (meno 11% rispetto all'anno precedente). In termini economici la perdita per gli atenei sarebbe pari a circa 46 milioni di euro di mancato gettito da tasse universitarie, ma molto maggiore se si considera l'indotto, tutto ciò che ruota attorno all'istruzione universitaria.
Gli istituti più colpiti potrebbero essere quelli che ospitano una concentrazione maggiore di studenti fuori sede tra cui quelli provenienti dall'estero, che non avrebbero più le risorse economiche necessarie per affrontare gli spostamenti e la vita lontano da casa. Il 30% di tutti gli studenti immatricolati fuori sede si concentra in 5 atenei: Bologna (9,6%), Ferrara (7,6%), Politecnico di Milano (4,9%), Politecnico di Torino (4,3%) e Cattolica (4,1%). L'ateneo di Ferrara, la Bocconi e l'Università di Trento, secondo una classifica elaborata dall'Osservatorio, sono i più esposti al rischio di crollo delle iscrizioni.
Il report contiene una valutazione di Moody's, secondo cui una contrazione della domanda di studenti internazionali cinesi (quelli più rappresentati in assoluto) potrebbe generare una crisi tra le università nel mondo. In Italia, gli atenei che potrebbero risentire di un'eventuale contrazione della domanda di studenti cinesi sono principalmente i Politecnici di Milano e Torino e l'ateneo statale di Firenze, i quali accolgono (in quote quasi uguali) il 48% degli studenti cinesi in Italia.
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Tasse e affitti troppo cari per budget familiari flagellati dal Covid, corsi compromessi dalla didattica a distanza, nessuna certezza di trovare lavoro. Così la laurea è diventata un lusso sacrificabile. «Questa crisi durerà. Il governo prolunghi gli sconti sulle rette». Il presidente della Conferenza rettori, Ferruccio Resta: «Va scongiurato un crollo delle iscrizioni come nel 2008. Ci vollero 10 anni per recuperare». Spariranno circa 10.000 studenti. Secondo Svimez due terzi del calo riguarderanno gli atenei del Mezzogiorno. Rincara l'Osservatorio talents venture: 35.000 le matricole in meno, giù dell'11% rispetto al 2019. Lo speciale comprende tre articoli. «Mia figlia Giulia voleva arrivare alla laurea magistrale in Scienze dell'educazione, due anni in più e avrebbe coronato il suo sogno oltre ad avere più possibilità di superare i concorsi. Invece, ci si è posto il problema se far continuare a nostra figlia il percorso universitario. Il Covid ci ha colpito duramente. Giulia è stata contagiata, abbiamo dovuto affrontare ingenti spese per le cure, non ancora terminate. Ma anche le prospettive future ci preoccupano». La storia di Massimo Malagoli, di Modena, responsabile comunicazione dell'associazione dei genitori delle scuole paritarie, Agesc, è simile a quella di tante famiglie colpite dalla crisi scatenata dalla pandemia. È la storia di quel ceto medio che fino a tre mesi fa viveva senza problemi e riusciva a disegnare, anche con sacrifici, la strada per i propri figli. Ora quelle stesse famiglie sono costrette a tagliare su tutto. E non basta più rinunciare alla cena fuori, alle vacanze, al parrucchiere, al vestito in più. Le forbici arrivano anche sulla formazione. L'università diventa un lusso. «Per altri due anni di corsi avremmo dovuto spendere circa 9.000 euro, 4.500 l'anno, senza la certezza di un'occupazione. Così ho detto a Giulia che è meglio impiegare quel tempo per cercare un impiego e poi, semmai, completare la formazione». A preoccupare Massimo oltre all'incertezza economica è anche la preparazione offerta dall'ateneo. «Gli ultimi esami sono stati fatti in modo superficiale e le lezioni a distanza erano carenti di approfondimento. Tanti genitori si lamentano della conclusione, pessima, di questo anno universitario e si interrogano sull'opportunità di sobbarcarsi tasse e rette a fronte di una formazione che chissà per quanto tempo ancora continuerà a essere erogata da remoto e in modo approssimativo. Le lezioni online non possono sostituire quelle in presenza». Conclude Malagoli: «Lo studio universitario sta diventando per tanti genitori una voce da tagliare, come la colazione al bar o l'abbigliamento». Claudio Mazzoleni ha un figlio al terzo anno di Ingegneria alla Statale di Milano. «Interrompere a metà il suo percorso universitario e stata una scelta sofferta perché lui è in gamba, ha sempre avuto ottimi voti e voleva continuare, ma non ce la faccio. Dovrà cercare un lavoro». Claudio, 60 anni, con una brillante carriera di architetto in uno studio, ora è in cassa integrazione. «Lavoro a settimane alterne, non riesco ad andare avanti. Sto pensando alla pensione: anche se sarà un assegno basso, almeno è una certezza. Mio figlio è una risorsa sprecata». Alle associazioni dei genitori arrivano sempre più numerose le testimonianze di famiglie che non ce la fanno a far continuare gli studi ai figli, dice Malagoli. C'è tanto pudore nel parlare, vergogna nell'esporsi in prima persona, nell'esprimere una condizione di disagio economico, soprattutto nelle città di provincia dove tutti si conoscono. Siamo a Brescia e un'associazione di genitori riferisce la storia di Roberto, 21 anni: era iscritto ad Architettura, ha rinunciato a proseguire, non arriverà alla laurea; ha trovato un lavoro part time presso una bottega artigiana. Il padre è in cassa integrazione e la madre pur avendo un negozio di abbigliamento non riesce a garantire una solidità economica. Con il Covid, pochi clienti, pure quelli affezionati le hanno detto che dovranno stringere la cinghia. Anche un vestito in più pesa sul bilancio familiare. Claudia, invece, era al termine del corso di Medicina, un altro anno e avrebbe la laurea in tasca. Ha dovuto lasciare, ora ha un part time in un'azienda biomedica. Romina Di Marcantonio, di Roma, non ha remore a parlare con La Verità della sua situazione. «Mio figlio Alessandro si è diplomato a giugno alla scuola alberghiera, doveva partire per Valencia per un progetto Erasmus ma con il Covid è saltato tutto. Ed è saltata anche l'iscrizione alla facoltà di Biologia. C'è il numero chiuso e soltanto per preparare l'esame di ingresso, tra libri e corsi online, avrei dovuto spendere circa 300 euro. Poi ci sono le rette universitarie, troppo care per il nostro budget familiare. Così abbiamo deciso di archiviare lo sbocco universitario. A settembre Alessandro comincerà a mandare il curriculum agli alberghi, ma con questa crisi che speranze può avere? Eppure prima del Covid la scuola alberghiera assicurava diverse opportunità di impiego. Anche l'Erasmus sarebbe stata una bella occasione, mio figlio era stato già contattato da una struttura per uno stage. Ora dobbiamo ricominciare e la strada è in salita». Piero Notarnicola è il coordinatore padovano dell'Udu, l'Unione degli universitari, e dice che si stanno moltiplicando le segnalazioni di studenti che hanno problemi con gli affitti e il pagamento delle tasse. «C'è chi ha dovuto rescindere il contratto di locazione e chi non ha soldi per le rette universitarie anche se il pagamento è stato posticipato di un mese e mezzo. Chi non riceve soldi dai genitori perché in difficoltà economiche sta pensando di non continuare. E chi si manteneva con qualche lavoro ora lo ha perso». Piero poi riferisce le perplessità di tanti giovani rispetto alla didattica del prossimo anno. «Nessuno, nelle segreterie delle facoltà, è in grado di dare risposte chiare, ma un pendolare deve sapere come regolarsi con la locazione e se rinnovare l'abbonamento dei trasporti». Enrico Gulluni, coordinatore nazionale dell'Udu, ha segnalato la gravità della situazione al ministro Gaetano Manfredi, ma non c'è stata risposta. «Tramite il Consiglio nazionale degli studenti abbiamo mandato alcune proposte come l'ampliamento della no tax area, per portare il tetto dagli attuali 20.000 euro a 30.000, e la richiesta di maggiori stanziamenti per le borse di studio. Nessun riscontro». Nel decreto Rilancio ci sono 1,4 miliardi per l'università, ma, sottolinea Gulluni, non viene affrontata l'emergenza. «Riceviamo ogni giorno centinaia di chiamate di studenti che hanno difficoltà a pagare la terza rata delle tasse. Avevamo chiesto che fosse annullata, siamo stati ignorati». Uma Brandolino, coordinatrice Udu dell'Università statale Milano descrive un altro fenomeno. «Per risparmiare su alloggio e trasferimenti, alcune famiglie stanno privilegiando l'iscrizione dei figli nei piccoli atenei di prossimità. L'università grande e prestigiosa è ritenuta troppo costosa. La Statale di Milano, nonostante sia frequentata da molti fuori sede, non ha ancora ufficializzato come gestirà le lezioni, quante di queste saranno “in presenza" e come funzioneranno i laboratori. Questa incertezza sta inducendo tante famiglie di potenziali matricole a pensarci due volte prima di iscrivere i figli». Anche chi esce dai licei comincia a interrogarsi sull'iscrizione all'università. «Il liceo ha sempre avuto come sbocco naturale, come completamento, l'accesso a un ateneo. Ma se già prima del Covid qualche genitore si interrogava sull'efficacia di questa scelta, ora con la crisi economica le perplessità sono aumentate» dice Davide Vespier, docente di Lettere al liceo classico Albertelli di Roma e consigliere nazionale ufficio scuola dell'Age, associazione di genitori. «La didattica a distanza è vista con diffidenza. Le famiglie si chiedono perché spendere tanti soldi e poi non avere dall'università il massimo. L'uso dei laboratori è sacrificato. 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Le misure previste dal decreto Rilancio sui fondi a supporto della contribuzione studentesca andrebbero estese anche al prossimo anno. Dobbiamo stare attenti che la crisi economica non porti un indebolimento dell'alta formazione». Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano e presidente del Crui, la Conferenza dei rettori italiani, dice di aver avuto segnalazioni da vari atenei di questo trend in discesa delle iscrizioni. Con che percentuali stanno diminuendo le iscrizioni? «È prematuro tirare le somme, le iscrizioni sono ancora in corso. Ma spero che non si ripeta la situazione della crisi del 2008, quando ci fu una riduzione significativa. Ci sono voluti dieci anni per tornare ai valori precedenti. Solo nel 2018 abbiamo visto un recupero degli studenti che avevamo prima del 2008. Le crisi perdurano nel tempo». Il Covid ci lascerà in eredità un'Italia più povera culturalmente? «La crisi sanitaria della pandemia già oggi rischia di portare conseguenze dal punto di vista economico e quindi sociale quando costringe alcune famiglie a non investire più nel futuro dei loro figli e quindi del nostro Paese. Questo era un rischio su cui si è lavorato molto negli ultimi mesi. Il decreto Rilancio ha inserito oltre 200 milioni di euro dedicati a misure per ridurre o azzerare la contribuzione studentesca alle tasse universitarie. È stato un messaggio forte che ha permesso sia ai ceti più bassi di avere contribuzioni azzerate sia ai ceti medi di avere facilitazioni. Per il prossimo semestre ci sarà la possibilità di frequentare a distanza le lezioni, e questo permetterà di ridurre i costi di affitti e trasporti». Ma la crisi non si esaurisce con il 2020. Le misure del decreto Rilancio non rischiano di essere un pannicello caldo? «Questa crisi, è vero, non si chiuderà con l'anno accademico 2020-2021, quindi queste risorse andrebbero preventivate almeno per il prossimo triennio e quinquennio. La crisi economica ha dinamiche molto più lente di quella sanitaria, e prima che riparta l'economia, e con essa il potere d'acquisto delle nostre famiglie, passeranno ancora anni. La risposta quindi è stata efficace e tempestiva per l'anno accademico 2020-2021, ma il mio suggerimento è di mantenere la stessa efficacia per i prossimi anni per dare alle famiglie un segnale, la possibilità di iscrivere un figlio subito senza rischiare di trovarsi in difficoltà l'anno prossimo». Alcune famiglie non sono convinte dell'efficacia delle lezioni a distanza, temono un calo della qualità. Temono di pagare tasse alte per avere poi una formazione scadente. Anche questo è un disincentivo a iscrivere un figlio? «Noi siamo sempre abituati a vedere gli aspetti negativi. L'università italiana in meno di 15 giorni ha completamente trasportato tutta la didattica a distanza, il nostro è stato uno dei pochi Paesi a rispondere così. Oggi, a fine luglio, gli studenti hanno fatto esami e lauree come se non ci fosse stata la pandemia. È un risultato importante perché perdere i semestri sarebbe stato molto più gravoso per le famiglie. Avrebbe comportato posticipare le lauree e quindi l'ingresso nel mercato del lavoro dei propri figli. Gli atenei hanno agito con tempestività e assorbendo tutti i costi dell'emergenza». Ma quando si tornerà nelle aule? «Tutte le università stanno pianificando la ripresa delle lezioni in presenza per il prossimo semestre. È fondamentale il valore di essere in aula, delle relazioni sociali. Sarebbe triste mantenere l'università solo telematica». Le lezioni in streaming hanno danneggiato anche quelle città che vivono dell'attività universitaria. «È vero. Abbiamo una responsabilità non solo verso gli studenti ma anche verso i territori. L'indotto che l'università offre al tessuto cittadino, all'economia, è importante». Siete anche pronti al rischio di una seconda ondata di contagi? «Torneremo nelle aule ma con modalità tali da essere in grado di commutare immediatamente a distanza senza mettere in difficoltà nessuno e senza perdere un semestre. Qualora il comitato tecnico scientifico riducesse un po' i limiti del distanziamento, potremmo portare tutti in presenza. Stiamo ipotizzando un modello che permetta la frequenza in presenza o a completa distanza in base alla condizione della pandemia in autunno. Tutto questo ha dei costi. L'università italiana è in assoluto l'unica in Europa che riesce a erogare una didattica con costi medio bassi. Uno studente universitario in Germania e in Francia costa 10.000 euro all'anno mentre in Italia siamo lontani da questa cifra». Alcune università del Sud hanno adottato incentivi per recuperare i giovani che avevano scelto di trasferirsi negli atenei del Nord. Ci sarà un'immigrazione di ritorno? «Tutte le politiche che vogliono aiutare i ragazzi ben vengano, ma quelle che vogliono chiudere le persone dentro i confini non le condivido. La mobilità dei nostri giovani è un fattore importante». Qual è la situazione al Politecnico di Milano? «Abbiamo completato i test di ingresso con dei numeri paragonabili a quelli dell'anno scorso, chiuderemo le immatricolazioni nei primi giorni di agosto. In questo momento non registriamo un calo. Abbiamo ancora aperto il discorso delle iscrizioni di studenti internazionali. In Paesi che sono ancora al culmine della pandemia, come era da noi ad aprile, l'attenzione ora non è focalizzata sul rientro all'università ma su altre tematiche. Penso al Brasile, all'India, agli stati del Sud America». Il calo delle immatricolazioni riguarderà soprattutto gli studenti stranieri? «Cercheremo di aiutare anche gli studenti internazionali con l'erogazione della didattica a distanza fino a quando non potranno venire. Gli studenti cercano una università capace di garantire un investimento per il futuro, non rinunciano volentieri al loro domani. Superata la fase di emergenza nel loro Paese, torneranno nelle nostre città». Chi è andato all'estero a studiare tornerà? «Regno Unito e Usa, che erano destinazioni gettonate, oggi sono meno appetibili per colpa della pandemia. Sicuramente i ragazzi che andavano a studiare in quelle aree ora guarderanno ad altre università di qualità in giro per il mondo, quindi se noi avremo offerte formative di prestigio potremmo recuperarli». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/universita-la-grande-fuga-2646804221.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="spariranno-circa-10-000-studenti" data-post-id="2646804221" data-published-at="1595801702" data-use-pagination="False"> Spariranno circa 10.000 studenti Il Covid rischia di impoverire il Paese anche culturalmente, oltre che economicamente. Il virus potrebbe lasciarci in eredità una giovane generazione meno formata e l'università, da conquista per tutti, rischia di tornare ad essere lo sbocco per una élite, un lusso per pochi. Il fenomeno comincia ad essere rilevato dagli istituti di ricerca, anche se la conferma ci sarà solo in autunno quando arriveranno i dati completi delle immatricolazioni. Svimez ha stimato che nel 2020-2021 circa 10.000 studenti potrebbero non iscriversi ai nostri atenei. Parliamo, per l'esattezza, di 9.500 studenti su scala nazionale, di cui 6.300 nel Mezzogiorno e i restanti 3.200 nel Centro Nord. Potrebbe riproporsi la situazione prodotta dalla crisi del 2008-2009, ma questa volta sarebbe più grave. Entrando nel dettaglio, la nota di Svimez, elaborata dal direttore Luca Bianchi e da Gaetano Vecchione (Svimez - Università Federico II Napoli), sottolinea come a fine mese si stimino approssimativamente 292.000 maturi al Centro Nord e circa 197.000 al Sud. La precedente crisi del 2008-2009 ha evidenziato una elevata elasticità del tasso di passaggio tra scuola e università legato all'indebolimento dei redditi delle famiglie soprattutto nel Mezzogiorno: alla luce di ciò, Svimez ha stimato una riduzione del tasso di proseguimento di 3,6 punti nel Mezzogiorno e di 1,5 nel Centro Nord. Già la precedente crisi economica, trascinatasi dal 2008 al 2013, aveva provocato un crollo delle iscrizioni alle università, soprattutto al Sud. In quegli anni la percentuale di chi usciva dalla scuola superiore e andava all'università è crollata di 8,3 punti. In un quinquennio ci sono state oltre 20.000 iscrizioni in meno nel Mezzogiorno. Nel Centro Nord il calo è stato di 2 punti percentuali circa. Secondo l'Osservatorio talents venture, che analizza costantemente lo stato dell'università italiana e le opportunità occupazionali che offre ai suoi laureati, l'impatto del Covid sulle immatricolazioni potrebbe essere peggiore di quanto valuta Svimez. Considerato un calo del Pil del 9%, le nuove iscrizioni potrebbe ridursi di circa 35.000 unità (meno 11% rispetto all'anno precedente). In termini economici la perdita per gli atenei sarebbe pari a circa 46 milioni di euro di mancato gettito da tasse universitarie, ma molto maggiore se si considera l'indotto, tutto ciò che ruota attorno all'istruzione universitaria. Gli istituti più colpiti potrebbero essere quelli che ospitano una concentrazione maggiore di studenti fuori sede tra cui quelli provenienti dall'estero, che non avrebbero più le risorse economiche necessarie per affrontare gli spostamenti e la vita lontano da casa. Il 30% di tutti gli studenti immatricolati fuori sede si concentra in 5 atenei: Bologna (9,6%), Ferrara (7,6%), Politecnico di Milano (4,9%), Politecnico di Torino (4,3%) e Cattolica (4,1%). L'ateneo di Ferrara, la Bocconi e l'Università di Trento, secondo una classifica elaborata dall'Osservatorio, sono i più esposti al rischio di crollo delle iscrizioni. Il report contiene una valutazione di Moody's, secondo cui una contrazione della domanda di studenti internazionali cinesi (quelli più rappresentati in assoluto) potrebbe generare una crisi tra le università nel mondo. In Italia, gli atenei che potrebbero risentire di un'eventuale contrazione della domanda di studenti cinesi sono principalmente i Politecnici di Milano e Torino e l'ateneo statale di Firenze, i quali accolgono (in quote quasi uguali) il 48% degli studenti cinesi in Italia.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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