2022-01-19
L’ospedale di Pregliasco rifiuta di curare chi non ha la 3ª dose
Fabrizio Pregliasco (Ansa)
Fuori dal coro scopre che al Galeazzi di Milano respingono gente in lista d’attesa da mesi per gli interventi se non può provare di aver fatto il richiamo. Ordine della virostar, pagata con le tasse anche di quei pazienti.Gli italiani non lo sanno, ma 27 milioni di loro, anzi molti di più se consideriamo i minori di 12 anni, potranno non essere curati, con la scusa che non hanno fatto la terza dose anti Covid o con la giustificazione di aver fatto la seconda da più di cinque mesi. Ieri, commentando le parole di Pier Luigi Bersani, che invitava a dare la precedenza nelle terapie intensive ai vaccinati, chiudendo la porta degli ospedali in faccia a chi non si è arreso all’iniezione, mettevo in luce non solo l’assurdità della proposta, ma l’incostituzionalità. Tutti gli italiani sono uguali davanti alla legge e a maggior ragione lo dovrebbero essere anche davanti ai medici, visto che l’articolo 3 della carta su cui è fondata la nostra Repubblica riconosce a ogni cittadino pari dignità sociale e il 32 garantisce la tutela della salute a tutti e assicura le cure anche agli indigenti. Tuttavia, come ha scoperto il programma condotto da Mario Giordano e in onda ogni martedì su Rete 4, in alcuni ospedali dell’articolo 1 e dell’articolo 32 della Costituzione se ne infischiano e a chi non sia trivaccinato negano interventi da tempo programmati. Cioè: senza super green pass, niente cure. Fuori dal coro, questo il nome del settimanale condotto dal nostro prestigioso collaboratore, ha intervistato una serie di pazienti che, dopo aver atteso mesi per un intervento chirurgico, se lo sono visti annullare in quanto sprovvisti del certificato verde di ultima generazione, cioè frutto dell’ultimo decreto del governo. Infatti, sebbene il provvedimento non renda obbligatorio il possesso del passaporto vaccinale, per l’ospedale Galeazzi di Milano questa è la legge. E a deciderlo sapete chi è stato? Il professore Fabrizio Pregliasco, nota star televisiva dei programmi di intrattenimento vaccinale, ossia uno dei tre tenori che a Natale si è fatto registrare dal programma Un giorno da pecora mentre cantava una versione virologica di Jingle bells. A quanto pare, il direttore sanitario dell’Istituto ortopedico ha emanato una direttiva che impedisce a medici e infermieri di curare i renitenti alla terza dose. Non contento di averli invitati a sottoporsi all’iniezione sulle note della celebre canzone natalizia, Pregliasco avrebbe deciso di punire gli irriducibili. Non solo chi ancora rifiuta la prima dose, ma anche quelli che non si sono rassegnati alla terza, tardando a porgere il braccio nonostante siano trascorsi più di cinque mesi dall’ultima puntura. Peraltro tutta gente che con le tasse gli paga lo stipendio. Che cosa ci sia di legale in tutto ciò non lo sappiamo. A occhio diremmo niente, proprio per le ragioni di cui sopra. Se tutti gli italiani hanno diritto a non vedersi discriminare, non si capisce perché un ospedale possa infischiarsene e allo stesso modo risulta incomprensibile la ragione per cui, nonostante l’obbligo di curare gli indigenti, un istituto di ricovero e ricerca a carattere scientifico possa rifiutare interventi chirurgici a chi non si sia fatto bucare tre volte. In futuro smetteremo di curare le persone che non hanno smesso di fumare perché il fumo fa male? E se uno non getta il pacchetto di sigarette deve essere punito? Oppure ci saranno nosocomi che negheranno le cure agli obesi o ai diabetici perché non hanno smesso di rimpinzarsi di dolci? L’articolo 1 della Costituzione tutela tutti, a prescindere dalla razza, dalla religione e dal sesso, e non risulta che inserisca tra i motivi di mancata tutela il vaccino. Lo stesso si può dire dell’articolo 32, che sancisce il diritto del cittadino a essere curato, senza esclusioni di sorta, ovvero senza prevedere che debba essersi sottoposto a una particolare profilassi. Già questo basta e avanza per comprendere la follia in cui ci stiamo infilando grazie alle scelte adottate dal governo e messe in pratica da certi virologi. Stiamo aprendo la strada a discriminazioni che non trovano alcuna giustificazione scientifica, ma soprattutto giuridica, e che segneranno profondamente il nostro Paese. Tutto ciò, senza avere in cambio alcun risultato. Perché aver introdotto il super green pass non ha prodotto alcunché. Il numero dei contagi si è impennato e anche quello dei morti. Gli ultimi dati superano il tetto dei decessi di un anno fa, 434 morti, più del quadruplo di quelli registrati in Gran Bretagna, ovvero nel Paese che invece del green pass rafforzato introdotto in Italia, ha tolto anche quello semplice. Del resto, per capire che la strada degli obblighi e dei divieti non funziona, ma servono di più le cure e il rafforzamento degli ospedali, lo dimostra il caso austriaco. Aver introdotto limitazioni nei confronti dei vaccinati, minacciando multe, non ha portato a nulla. Anzi: negli ultimi giorni i contagi sono tornati a salire. Rifiutare un intervento a chi non si sia vaccinato, dunque, non ha nulla a che fare con la difesa della salute. È solo l’ennesimo tentativo di introdurre l’obbligo vaccinale senza dirlo. Un obbligo che però non riguarda i no vax, ma tutti, perché una volta deciso che la terza dose non basta più, si potranno negare le cure anche a chi non ha la quarta. Qual è la dose giusta da farsi somministrare per essere cittadini con tutti i diritti, infatti, chi lo decide? Pregliasco?
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)