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2021-07-10
Un pastrocchio sulla prescrizione. E agli imputati garanzie farlocche
Marta Cartabia (Getty Images)
La confusione tra processo rapido e processo giusto. La mancanza di coraggio sulle impugnazioni dei pm per mero puntiglio. L'ipocrisia dell'azione penale «obbligatoria» ma lasciata all'arbitrio delle Procure. Il cavillo diabolico di inserire l'associazione a delinquere semplice (contestata su reati tenui solo per mettere cimici e trojan) tra le scuse per allungare la prescrizione. L'evidente incostituzionalità di trattare più duramente i sospettati di corruzione, pur di soddisfare le esigenze della propaganda grillina. Altro che «Italia patria del diritto». Anche questa volta, nella riforma approvata giovedì dal Consiglio dei ministri, il catalogo degli orrori giudiziari è lungo.
Che un processo debba durare «il giusto», non per un'esigenza di rapidità della macchina giudiziaria o di economia dello Stato sui tempi, ma per non infierire sull'imputato è un principio che ancora una volta è rimasto fuori dalla porta. Anche con il Guardasigilli Marta Cartabia, che pure aspira alla presidenza della Repubblica e a un ruolo da supremo garante della Costituzione e della democrazia. Le nuove norme fissano in due anni i tempi di durata massima del giudizio di appello e di un anno per la Cassazione. Se i termini vengono sforati, la sanzione è di natura processuale ed è la improcedibilità, che non estingue il reato ma blocca la macchina giudiziaria. Se però i reati sono contro la Pubblica amministrazione, i termini salgono a tre anni per il secondo grado e a un anno e mezzo per il giudizio di legittimità. Così, gli imputati di reati come la corruzione vengono di fatto trattati con maggiore severità rispetto a quelli di altri reati puniti allo stesso modo. Il rischio di incostituzionalità è fortissimo.
Lo stesso ampliamento a quattro anni e mezzo di processo in totale (tra appello e Cassazione), scatta non solo per la corruzione, ma anche per i reati da ergastolo, di mafia, di traffico di stupefacenti, per le estorsioni, le rapine, i sequestri di persona e pure il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. In questo modo, devono aver ragionato in via Arenula, tutti i partiti di governo possono stare tranquilli. E invece, a leggere bene l'elenco, spunta perfino l'associazione a delinquere «semplice», che già di per sé è un reato fumoso, ma che in sede di indagini preliminari viene contestato a mani basse dai pm a caccia di notorietà perché consente di intercettare telefoni e computer anche per reati poco gravi e permette di andare avanti con le famose «intercettazioni a strascico», nella speranza di trovare qualcosa di più grave.
Sempre sul fronte del giudizio di secondo grado, è saltata dalla riforma l'unica proposta sensata in tema di deflazione, ovvero l'impossibilità per il pm di fare appello di fronte a sentenze di assoluzione. Un mal costume spesso dettato solo dall'orgoglio di tenere il punto e perché tanto una nuova sconfitta, all'accusa, non costa nulla. Mentre il cittadino deve pagarsi altri avvocati.
Facendo un passo indietro alla fase delle indagini preliminari, ecco altre delusioni e criticità. Le indagini possono durare, a seconda della gravità dei reati, fino a sei mesi, un anno, o un anno e mezzo. Il termine scatta dalle iscrizioni sul registro degli indagati. In caso le indagini siano particolarmente complicate, come per il terrorismo internazionale, il pm può chiedere altri sei mesi. Qui, le previsioni sembrano di buon senso, ma sono le omissioni a indicare la qualità ben poco coraggiosa e garantista della mediazione Draghi-Grillo-Cartabia. Ovvero, non è stata introdotta l'inutilizzabilità in processo delle indagini tardive condotte dal pm. Non è stato consentito al giudice delle indagini preliminari di verificare in concreto che l'iscrizione dell'indagato sia stata tempestiva e neppure di retrodatare «d'ufficio» le iscrizioni furbette. Ci si è dimenticati di obbligare il pm, quando chiede una proroga d'indagini, almeno a depositare gli atti compiuti fino a quel momento, per consentire alla difesa di prenderne visione e farne copia.
Se poi si vuole toccare con mano come lo scandalo Palamara venga inghiottito e digerito dal «sistema giustizia», basta andare a vedere alla voce «obbligatorietà dell'azione penale». Com'è noto, si tratta di una grande ipocrisia, ma è pur sempre in Costituzione. E allora ecco che nella riforma, dove non si spettinano minimamente le correnti dei magistrati e il loro strapotere nel Consiglio superiore della magistratura, spetta alle varie Procure individuare le priorità in modo trasparente e predeterminato, in modo da organizzare gli uffici e sottoporne il funzionamento al Csm. Il Parlamento quindi non individuerà le priorità nella lotta ai vari reati, ma solo dei «criteri generali» per individuarle. Come si vede, è un'evidente finzione al quadrato. Si limita in parte l'obbligatorietà della repressione penale, ma demandando la faccenda alle toghe e alle loro correnti, anziché alle Camere (soluzione sicuramente più trasparente e democratica).
Certo, bisognerà vedere con attenzione il testo definitivo, ma non sembra che si siano fatti molti progressi rispetto allo scadente piano Bonafede. Se si fosse voluto veramente limitare la durata dei processi in generale, e delle vie crucis dei singoli in particolare, si sarebbe dovuto accogliere almeno alcune delle richieste di buon senso del'Unione camere penali, come l'ampliamento dei patteggiamenti e della possibilità di chiedere l'abbreviato, e una responsabilità disciplinare vera per il pm che «dorme» su un fascicolo senza prendere alcuna decisione. Ma i diversi protagonisti del processo sembrano destinati a rimanere a dignità (e responsabilità) variabile.
Sgambetto al referendum leghista
«La riforma della giustizia approvata in Consiglio dei ministri è un primo passo, va bene. Noi siamo al governo con Draghi per riformare rivoluzionare e ammodernare questo Paese. Ma la vera e sostanziale definitiva e importante riforma della giustizia la fanno gli italiani firmando nelle piazze e nei Comuni». Non ha dubbi il leader della Lega, Matteo Salvini, sulla portata storica dei sei referendum sulla giustizia, per cambiare volto alla magistratura e ai processi italiani, promossi dal Carroccio insieme al Partito radicale, e sottoscritti dal nostro direttore Maurizio Belpietro, che definisce «un'occasione persa» la riforma messa a punto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvata giovedì in consiglio dei ministri ma che di fatto «non cambia nulla».
E a pochi giorni dal via alla raccolta firme sui sei quesiti, Salvini ieri ha scritto al ministero dell'Interno e all'Anci, l'Associazione nazionale dei Comuni, per sottolineare alcuni problemi oggettivi della campagna referendaria: difficoltà a reperire i moduli vidimati, lentezze burocratiche, mancanza di personale. «Scrivo in qualità di presidente del Comitato promotore dei referendum», ha specificato l'ex ministro dell'Interno, che da Viminale e Comuni si aspetta massimo impegno «per aiutare i cittadini» a esercitare un diritto come quello del voto. Salvini nella lettera alla responsabile del Viminale, Luciana Lamorgese, e al presidente dell'Anci, Antonio Decaro, ha spiegato di aver riscontrato «ritardi nella vidimazione dei moduli», che in alcuni casi «sono stati chiusi e archiviati anche con poche firme agli atti, con la necessità di reperirne subito di nuovi». Lo scorso weekend, infatti, i moduli erano finiti in poche ore a Milano città e in Friuli Venezia Giulia, Umbria e Puglia. Difficoltà che si sommano al poco personale presente nei municipi durante il weekend.
In attesa della risposta di Viminale e Anci, la raccolta firme prosegue. Nelle ultime ore ha aderito il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, nonché i figli di Giulio Andreotti, Stefano e Serena, che hanno firmato i quesiti in piazza davanti al tribunale di Perugia, dove hanno partecipato alla presentazione del libro I diari segreti di Giulio Andreotti.
Adesioni trasversali che fanno clamore come quella di Sergio Staino, il disegnatore satirico di sinistra che però ha detto con la sua amara ironia: «Salvini passa, i magistrati restano». A confermare l'adesione alla campagna anche Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm, Pierluigi Battista, Paolo Mieli, Mauro Corona e il candidato sindaco di Torino Paolo Damilano».
Come ha ribadito ieri Salvini a margine dell'incontro dei giovani di Confindustria a Genova ,«dopo 30 anni di chiacchiere, di mancate riforme, questi referendum saranno un aiuto a Draghi per correre nel suo processo riformatore e la garanzia che se qualcuno si metterà di traverso in Parlamento, e penso ai 5 stelle, saranno gli italiani con la firma e col voto per il referendum a dare veramente tempi certi certezza della pena e giustizia giusto».
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Riduci
La riforma Cartabia tratta diversamente reati puniti allo stesso modo: si rischia l'incostituzionalità. Troppa discrezionalità su indagini preliminari e azione penale. E sono saltate le misure utili a velocizzare i processi.Sgambetto al referendum leghista. Matteo Salvini scrive a Viminale e Anci denunciando «lentezze burocratiche» e pasticci con i moduli nei Comuni. Intanto arrivano altre adesioni Vip: Giovanni Toti e i figli di Giulio Andreotti.Lo speciale comprende due articoli. La confusione tra processo rapido e processo giusto. La mancanza di coraggio sulle impugnazioni dei pm per mero puntiglio. L'ipocrisia dell'azione penale «obbligatoria» ma lasciata all'arbitrio delle Procure. Il cavillo diabolico di inserire l'associazione a delinquere semplice (contestata su reati tenui solo per mettere cimici e trojan) tra le scuse per allungare la prescrizione. L'evidente incostituzionalità di trattare più duramente i sospettati di corruzione, pur di soddisfare le esigenze della propaganda grillina. Altro che «Italia patria del diritto». Anche questa volta, nella riforma approvata giovedì dal Consiglio dei ministri, il catalogo degli orrori giudiziari è lungo.Che un processo debba durare «il giusto», non per un'esigenza di rapidità della macchina giudiziaria o di economia dello Stato sui tempi, ma per non infierire sull'imputato è un principio che ancora una volta è rimasto fuori dalla porta. Anche con il Guardasigilli Marta Cartabia, che pure aspira alla presidenza della Repubblica e a un ruolo da supremo garante della Costituzione e della democrazia. Le nuove norme fissano in due anni i tempi di durata massima del giudizio di appello e di un anno per la Cassazione. Se i termini vengono sforati, la sanzione è di natura processuale ed è la improcedibilità, che non estingue il reato ma blocca la macchina giudiziaria. Se però i reati sono contro la Pubblica amministrazione, i termini salgono a tre anni per il secondo grado e a un anno e mezzo per il giudizio di legittimità. Così, gli imputati di reati come la corruzione vengono di fatto trattati con maggiore severità rispetto a quelli di altri reati puniti allo stesso modo. Il rischio di incostituzionalità è fortissimo. Lo stesso ampliamento a quattro anni e mezzo di processo in totale (tra appello e Cassazione), scatta non solo per la corruzione, ma anche per i reati da ergastolo, di mafia, di traffico di stupefacenti, per le estorsioni, le rapine, i sequestri di persona e pure il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. In questo modo, devono aver ragionato in via Arenula, tutti i partiti di governo possono stare tranquilli. E invece, a leggere bene l'elenco, spunta perfino l'associazione a delinquere «semplice», che già di per sé è un reato fumoso, ma che in sede di indagini preliminari viene contestato a mani basse dai pm a caccia di notorietà perché consente di intercettare telefoni e computer anche per reati poco gravi e permette di andare avanti con le famose «intercettazioni a strascico», nella speranza di trovare qualcosa di più grave. Sempre sul fronte del giudizio di secondo grado, è saltata dalla riforma l'unica proposta sensata in tema di deflazione, ovvero l'impossibilità per il pm di fare appello di fronte a sentenze di assoluzione. Un mal costume spesso dettato solo dall'orgoglio di tenere il punto e perché tanto una nuova sconfitta, all'accusa, non costa nulla. Mentre il cittadino deve pagarsi altri avvocati.Facendo un passo indietro alla fase delle indagini preliminari, ecco altre delusioni e criticità. Le indagini possono durare, a seconda della gravità dei reati, fino a sei mesi, un anno, o un anno e mezzo. Il termine scatta dalle iscrizioni sul registro degli indagati. In caso le indagini siano particolarmente complicate, come per il terrorismo internazionale, il pm può chiedere altri sei mesi. Qui, le previsioni sembrano di buon senso, ma sono le omissioni a indicare la qualità ben poco coraggiosa e garantista della mediazione Draghi-Grillo-Cartabia. Ovvero, non è stata introdotta l'inutilizzabilità in processo delle indagini tardive condotte dal pm. Non è stato consentito al giudice delle indagini preliminari di verificare in concreto che l'iscrizione dell'indagato sia stata tempestiva e neppure di retrodatare «d'ufficio» le iscrizioni furbette. Ci si è dimenticati di obbligare il pm, quando chiede una proroga d'indagini, almeno a depositare gli atti compiuti fino a quel momento, per consentire alla difesa di prenderne visione e farne copia.Se poi si vuole toccare con mano come lo scandalo Palamara venga inghiottito e digerito dal «sistema giustizia», basta andare a vedere alla voce «obbligatorietà dell'azione penale». Com'è noto, si tratta di una grande ipocrisia, ma è pur sempre in Costituzione. E allora ecco che nella riforma, dove non si spettinano minimamente le correnti dei magistrati e il loro strapotere nel Consiglio superiore della magistratura, spetta alle varie Procure individuare le priorità in modo trasparente e predeterminato, in modo da organizzare gli uffici e sottoporne il funzionamento al Csm. Il Parlamento quindi non individuerà le priorità nella lotta ai vari reati, ma solo dei «criteri generali» per individuarle. Come si vede, è un'evidente finzione al quadrato. Si limita in parte l'obbligatorietà della repressione penale, ma demandando la faccenda alle toghe e alle loro correnti, anziché alle Camere (soluzione sicuramente più trasparente e democratica).Certo, bisognerà vedere con attenzione il testo definitivo, ma non sembra che si siano fatti molti progressi rispetto allo scadente piano Bonafede. Se si fosse voluto veramente limitare la durata dei processi in generale, e delle vie crucis dei singoli in particolare, si sarebbe dovuto accogliere almeno alcune delle richieste di buon senso del'Unione camere penali, come l'ampliamento dei patteggiamenti e della possibilità di chiedere l'abbreviato, e una responsabilità disciplinare vera per il pm che «dorme» su un fascicolo senza prendere alcuna decisione. Ma i diversi protagonisti del processo sembrano destinati a rimanere a dignità (e responsabilità) variabile.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/un-pastrocchio-sulla-prescrizione-e-agli-imputati-garanzie-farlocche-2653732147.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sgambetto-al-referendum-leghista" data-post-id="2653732147" data-published-at="1625856129" data-use-pagination="False"> Sgambetto al referendum leghista «La riforma della giustizia approvata in Consiglio dei ministri è un primo passo, va bene. Noi siamo al governo con Draghi per riformare rivoluzionare e ammodernare questo Paese. Ma la vera e sostanziale definitiva e importante riforma della giustizia la fanno gli italiani firmando nelle piazze e nei Comuni». Non ha dubbi il leader della Lega, Matteo Salvini, sulla portata storica dei sei referendum sulla giustizia, per cambiare volto alla magistratura e ai processi italiani, promossi dal Carroccio insieme al Partito radicale, e sottoscritti dal nostro direttore Maurizio Belpietro, che definisce «un'occasione persa» la riforma messa a punto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvata giovedì in consiglio dei ministri ma che di fatto «non cambia nulla». E a pochi giorni dal via alla raccolta firme sui sei quesiti, Salvini ieri ha scritto al ministero dell'Interno e all'Anci, l'Associazione nazionale dei Comuni, per sottolineare alcuni problemi oggettivi della campagna referendaria: difficoltà a reperire i moduli vidimati, lentezze burocratiche, mancanza di personale. «Scrivo in qualità di presidente del Comitato promotore dei referendum», ha specificato l'ex ministro dell'Interno, che da Viminale e Comuni si aspetta massimo impegno «per aiutare i cittadini» a esercitare un diritto come quello del voto. Salvini nella lettera alla responsabile del Viminale, Luciana Lamorgese, e al presidente dell'Anci, Antonio Decaro, ha spiegato di aver riscontrato «ritardi nella vidimazione dei moduli», che in alcuni casi «sono stati chiusi e archiviati anche con poche firme agli atti, con la necessità di reperirne subito di nuovi». Lo scorso weekend, infatti, i moduli erano finiti in poche ore a Milano città e in Friuli Venezia Giulia, Umbria e Puglia. Difficoltà che si sommano al poco personale presente nei municipi durante il weekend. In attesa della risposta di Viminale e Anci, la raccolta firme prosegue. Nelle ultime ore ha aderito il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, nonché i figli di Giulio Andreotti, Stefano e Serena, che hanno firmato i quesiti in piazza davanti al tribunale di Perugia, dove hanno partecipato alla presentazione del libro I diari segreti di Giulio Andreotti. Adesioni trasversali che fanno clamore come quella di Sergio Staino, il disegnatore satirico di sinistra che però ha detto con la sua amara ironia: «Salvini passa, i magistrati restano». A confermare l'adesione alla campagna anche Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm, Pierluigi Battista, Paolo Mieli, Mauro Corona e il candidato sindaco di Torino Paolo Damilano». Come ha ribadito ieri Salvini a margine dell'incontro dei giovani di Confindustria a Genova ,«dopo 30 anni di chiacchiere, di mancate riforme, questi referendum saranno un aiuto a Draghi per correre nel suo processo riformatore e la garanzia che se qualcuno si metterà di traverso in Parlamento, e penso ai 5 stelle, saranno gli italiani con la firma e col voto per il referendum a dare veramente tempi certi certezza della pena e giustizia giusto».
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Riduci
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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