2021-01-16
Un libro prova a sminuire foibe ed esodo istriano. «Non furono genocidio»
Il saggio di Erica Gobetti giustifica gli orrori dei titini. E l'attivista nero Ibram X. Kendi invita a «discriminare» i bianchi. Ma sono autori di sinistra e l'indignazione svanisceRaccolti 15.000 euro per identificare i marò della X Mas ammazzati dai soldati di TitoLo speciale contiene due articoli Da qualche anno l'Occidente intero - e dunque anche l'Europa e l'Italia – vive immerso in una sorta di isteria di massa. Il discorso pubblico e i mezzi di comunicazione sono in preda all'ossessione per le minoranze. Ogni gruppo sociale, piccolo o grande che sia, dà libero sfogo al narcisismo, dichiara di essere perseguitato e brama il riconoscimento, ovvero diritti che il più delle volte si rivelano privilegi. I migranti pretendono accoglienza, le coppie arcobaleno pretendono di avere figli… Opporsi a tali richieste è diventato pericoloso: chi osi avanzare dubbi sui «diritti» da concedere ai vari gruppi sociali viene guardato con sospetto e immediatamente bollato come omofobo, razzista, maschilista eccetera.Ci sono, tuttavia, delle lampanti eccezioni. Esistono gruppi sociali e minoranze a cui non viene riconosciuto il diritto di avanzare richieste. Sono i gruppi e le comunità non completamente riconducibili all'orbita progressista: non giovano alla causa, non portano guadagni, dunque sono un fastidio.Volete una prova? Allora date uno sguardo a un volumetto appena portato in libreria dall'editore Laterza. S'intitola E allora le foibe? e lo firma Eric Gobetti, che si presenta come «studioso di fascismo», autore di documentari e collaboratore diRai Storia. Scopo del suo libro è sminuire, ridimensionare e, in certi casi, persino negare il dramma delle foibe. Si capisce sin dalla premessa, laddove Gobetti afferma che, prima di esaminare lo sterminio degli italiani ad opera dei titini bisogna tenere presente che «esiste uno scarto profondo tra ciò che oggi consideriamo come violenza lecita e ciò che lo era allora». Come dire: in fondo ai massacri i nostri predecessori erano più abituati, siamo noi che ci scandalizziamo eccessivamente.Quel che segue è decisamente peggio. Prima Gobetti mette in dubbio l'identità italiana delle popolazioni di Istria e Dalmazia. Fa presente, ad esempio, che una grande qualità dei triestini era il loro carattere «meticcio». Inoltre nota che «gli italiani come li intendiamo oggi non esistevano prima dell'invenzione dell'idea di nazione». Detto questo, lo «studioso» prosegue descrivendo il contesto di «violenza quotidiana» che si viveva alle porte di Fiume, Trieste e Gorizia. Violenza scatenata ovviamente dal fascismo.Ed eccoci finalmente al punto. Secondo Gobetti, «le uccisioni commesse sul confine orientale nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 non possono essere in alcun modo considerate un tentativo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti a uno specifico popolo». Chiaro: i partigiani di Tito non uccidevano gli italiani in quanto italiani. Li ammazzavano perché li consideravano complici del regime fascista violento e oppressivo. Certo, tra i presunti oppressori da giustiziare venivano annoverati anche funzionari pubblici, commercianti, proprietari terrieri, lavoratori delle poste… Ma la colpa non è dei titini, che non erano certo «bestie assetate di sangue e accecate dall'odio, come vengono spesso rappresentate». La colpa è ovviamente dei fascisti, perché furono loro a stabilire l'equazione fra italianità e fascismo, dunque se poi gli jugoslavi hanno considerato tutti gli italiani dei fascisti da uccidere non c'è da stupirsi.Gobetti cerca di ridimensionare il numero dei morti. Spiega che furono uccise pochissime donne, che non si massacrarono bambini (solo due o tre casi, «episodi isolati»). Insinua dubbi anche sulla povera Norma Cossetto (e sulla medaglia a lei conferita anni fa), ragazza ventenne torturata e gettata in una foiba. «Viene arrestata dai partigiani comunisti», dice l'autore, «non perché italiana, ma perché è una fascista convinta, figlia di un federale». Questi particolari non «giustificano» ma «spiegano le motivazioni del fermo», aggiunge Gobetti. Egli arriva a mettere in dubbio anche le violenze sessuali ai danni delle italiane, cosa che sarebbe inconcepibile in qualsiasi altro contesto. Se invece di una «italiana fascista» ci trovassimo davanti a una pasionaria del Me Too, nessuno oserebbe fiatare.Persino sull'esodo dei giuliano dalmati Gobetti ha da ridire. Esso non fu «il prodotto di un'espulsione formale». Anzi, a queste popolazioni fu data «la possibilità di scegliere legalmente l'espatrio». Evviva: non fu una tragedia, ma un'opportunità!Gobetti finge di voler smontare i falsi miti costruiti dai politici di destra, ma ciò che fa è fin troppo chiaro: egli è il primo a sovrapporre italianità e fascismo, e in questo modo giustifica i massacri. Tutto pur di «non far passare i fascisti per vittime». Per esser chiari: non vogliamo ribaltare l'ossessione per le minoranze difendendone alcune a discapito di altre. La ricerca storica dev'essere libera, ovvio. Ma un conto è mettere in fila i fatti, un conto è fare dell'ideologia sulla pelle di vittime innocenti. In ogni caso, sui martiri delle foibe possono uscire libri come quello di Gobetti che, se fossero dedicati a qualunque altro gruppo sociale, avrebbero il marchio d'infamia.Possiamo fare un discorso analogo per il saggio di Ibram X. Kendi appena pubblicato da Mondadori. S'intitola Come essere antirazzista, e la tesi è sostanzialmente identica a quella di altri testi firmati da attivisti neri: i bianchi sono praticamente tutti razzisti solo per il fatto di godere del «privilegio bianco». Come si fa dunque a non essere razzisti? Sentite qua: «L'unico rimedio alla discriminazione razzista è la discriminazione antirazzista. L'unico rimedio alla discriminazione passata è la discriminazione presente. L'unico rimedio alla discriminazione presente è la discriminazione futura». Insomma, per essere antirazzisti bisogna approvare la discriminazione dei bianchi: il manuale di antirazzismo teorizza il razzismo.Questa è la realtà: discriminazioni e violenze ai danni di minoranze e gruppi sociali sono lecite e perfino apprezzabili. L'importante è che a subire persecuzioni siano i cattivi, cioè gli europei bianchi oppressori e fascisti. Gente che, dopo tutto, si può anche sterminare senza pentirsene troppo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/un-libro-prova-a-sminuire-foibe-ed-esodo-istriano-non-furono-genocidio-2649953771.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-caduti-ignoti-di-ossero-avranno-un-nome" data-post-id="2649953771" data-published-at="1610742458" data-use-pagination="False"> I «caduti ignoti» di Ossero avranno un nome Mentre non si fermano i tentativi di minimizzare, con fantasiose contestualizzazioni, e anche di negare gli eccidi delle foibe da parte dei partigiani titini, c'è anche chi non vuole chiudere gli occhi davanti alla storia dei nostri connazionali trucidati e anzi, cerca di dare un nome e una degna sepoltura ai loro resti. È questo l'obiettivo della campagna lanciata dalla Comunità italiana degli esuli di Lussino e sostenuta da Panorama, che fino al 13 gennaio ha raccolto donazioni per 14.772 euro, destinati all'identificazione dei marò di Ossero e dei volontari della Tramontana di Cherso. I fatti risalgono al 1945: dopo l'ultima battaglia a Neresine (oggi territorio croato) del 20 aprile per fermare l'avanzata degli jugoslavi nel Quarnero, i soldati italiani si arresero al nemico. Un loro compagno, per non cadere prigioniero, si suicidò. I 27 sopravvissuti, dopo la resa, furono torturati e portati a Ossero, scalzi e seminudi. Il giorno successivo, il 21 aprile, vennero fucilati e sepolti nelle due fosse comuni adiacenti. I loro resti sono stati riesumati il 9 maggio 2019 e sono custoditi nel sacrario dei caduti d'oltremare di Bari, in 27 cassette di legno, avvolte dal tricolore, ognuna con su scritto «caduto ignoto». Grazie all'impegno dei familiari e degli esperti resisi disponibili all'identificazione, ora quei resti avranno un nome. Ciò sarà reso possibile dagli esami del Dna svolti con metodi innovativi, per i quali si è sin da subito messo al lavoro Paolo Fattorini, esperto di identificazione genetica dell'Università di Trieste. L'unico problema era rappresentato dai costi dell'operazione, per reagenti, test, attività di laboratorio. Ma la raccolta fondi di Panorama ha raccolto il favore di altri esperti, tra cui Francesco Introna, cattedratico di Medicina legale a Bari ed esperto in antropologia forense, «per contribuire senza indugio in quest'opera di umanità e ricerca della verità storica» evidenzia Luigi Antonio Fino, medico che ha coinvolto Introna. La somma fin qui raccolta grazie alle donazioni di privati, quasi 15.000 euro, in tempi non certo favorevoli, dimostra la grande e profonda sensibilità di fronte al tema delle foibe da parte dell'opinione pubblica. Come racconta Maria Antonietta De Muru, nipote di Francesco, uno dei marò rimasto sepolto 75 anni in una fossa comune, «dopo anni di dolore, sarebbe un sogno deporre un fiore sulla tomba col nome di mio zio».