2020-01-19
Meghan e Harry, despoti della dittatura dell’io
La fuga di Meghan Markle e Harry, per far soldi con il proprio marchio, ferisce a morte importanti valori affettivi collettivi. Al contrario del campione, reinventatosi fratello maggiore per i compagni. Un gesto di generosità terapeutica.Non se ne può più di meschinità, invidie, avidità, gelosie, vanità. Tutti sentiamo un profondo bisogno, fisico prima ancora che spirituale, di persone generose, attente agli altri, magari anche coraggiose, che trovino la vita bellissima e non accettino che venga chiusa in ripostigli (o palazzi) pieni di cattivi sentimenti, ambizioni miserabili, vanità ridicole, ignoranze abissali. Oggi il «bello e buono» rischia di asfissiare soffocato da una valanga di eventi e immagini tristissime, dal sorrisetto carognesco di Meghan Markle allo sguardo improvvisamente svuotato del principe Harry, che ricorda da vicino quello che appariva negli occhi della sua sfortunata madre, nelle sue pericolose corse tra una mondanità e l'altra.Sono le pretese dell'Io a imprigionarci. «Io-Io-Io Meghan ha ora mostrato quale sia la sua bandiera e vuole monetizzare il suo stato Royal per seguire il suo Io-Io-Io programma», ha scritto di lei Alex Nino sul blog del londinese Daily Telegraph, di cui Boris Johnson è collaboratore. Sottrarsi all'impegno verso gli altri (a cominciare dalla famiglia) per fare soldi e non seguire regole e attenzioni fa parte dell'egoismo à la page. E di un divismo da quattro soldi, non adatto a Harry, la cui famiglia ha una storia e un compito che appartiene al suo Paese, prima che ai tabloid e alla tv. Preferire la promozione a pagamento del proprio marchio Royal Sussex, depositato dalla coppia ducale fin da giugno nell'ufficio brevetti inglesi, con previsioni di vendita per 400 milioni di vendite tra valige, articoli da toilette, bevande alcooliche etc, è magari legittimo. Ma precipita i Sussex e l'Inghilterra in vicende deprimenti, come la grana altoatesina con il designer austriaco-bolzanino Ui Kerbl, che avrebbe cercato nei giorni scorsi di depositare il marchio Royal Sussex all'autorità europea dei brevetti (dove è ancora libero), per produrre diversi beni, tra cui birre e gioielli. Si finisce in penose storie di avidità personali, distruggendo valori affettivi e simbolici collettivi, per dare denaro e visibilità a una coppia vanitosa.Le persone (ora Meghan e Harry) sono a loro volta i deludenti interpreti di un copione povero, antivitale, che gira attorno ai consumi improduttivi e di status, e da decenni viene propinato da media e poteri forti a noi e ai nostri figli e nipoti come quello giusto, glamour, di successo, che garantirà a chi lo segue ogni bene e felicità. Invece svela poi una vita da disgraziati che regolarmente esplode in tutto il suo orrore (come raccontano le storie dei vari miliardari da me too e simili), e fa star male tutti gli altri che le si avvicinano. In questo scenario di luccicante squallore però, sta accadendo anche qualcosa di nuovo e diverso, che sorprende e suscita sospiri di sollievo.Come per esempio la lezione di vita, umiltà e dedizione al proprio destino e dovere di trasmettere agli altri i propri talenti e capacità che Zlatan Ibrahimovic, campione trentottenne, sta impartendo allo star system in generale e al mondo del calcio in particolare. È appena rientrato al Milan dopo sette anni e mezzo, dopo aver stravinto il campionato 2019 della Major League Soccer, con 34 gol su 30 partite, da cui è uscito commentando un po' annoiato: «È come essere una Ferrari in mezzo alle Fiat». L'autostima infatti non gli manca, ma (come ai veramente grandi) neppure gli basta, perché sente il bisogno di passare agli altri le sue capacità e il suo talento. Così, sempre l'anno scorso, con un'operazione no profit (prevista dalla legge svedese) ha comprato il 23% della squadra giovanile Hammarby, di Stoccolma, concorrente di quella dei giovani di Malmö, la città dove lui è nato, ha giocato e che gli ha eretto una statua (più volte vandalizzata dopo l'acquisto dell'Hammarby). Vuol seguire questi giovani, e farne la prima squadra svedese. Al Milan dove lo ricordavano egocentrico e aggressivo, Ibra (oltre a segnare i gol di cui la squadra aveva bisogno come l'aria) si sta dimostrando un capo perfetto e un fratello premuroso per i compagni, finora traumatizzati da un campionato disastroso. Non urla, non tira pugni, non grida, è altruista e attento. In una città, Milano, nevrotizzata da ricchezza, competizione, droga e violenza, un campione generoso può fare cose anche più importanti che uno scudetto (al momento difficile). Del resto già tempo fa, sorprendendo tutti, in un'intervista a un giornale croato (Paese di origine di sua madre), Ibra lasciò tutti di stucco descrivendosi come «un cattolico, profondamente credente».Non è roba dappoco: il mondo diventerebbe migliore se i campioni e le star tornassero ad essere generosi e pronti al dono di sé per gli altri, come Gino Bartali o Valentino Mazzola.Sono cose così a ridare speranza e togliere armi alle depressioni. A farlo pensare non è un improvviso e inaspettato buonismo o la senilità dello scrivente ottuagenario, ma l'esperienza clinica, oltre naturalmente alla vita. Il fatto è che lo stile Sussex, l'avidità, esibizionismo e disprezzo per il gruppo e la storia cui appartieni, ferisce a morte importanti valori affettivi collettivi (non solo «sociali», ma anche storici, fisici, culturali), in cambio di molto meno del biblico «piatto di lenticchie» per il quale Esaù scambiò con il gemello Giacobbe la primogenitura di Isacco. È come tirare una coltellata ai tuoi fratelli, amici, compatrioti. Come tra i giuseppi dove lealtà l'è morta.È però interessante che la gente cominci ad averne abbastanza di questo stile di vita che brucia ogni fedeltà in nome del dio Consumo, e mostri riconoscenza e affetto per chi ha saputo darsi con generosità. Come è accaduto con una star della mia giovinezza, il cantante francese Johnny Halliday, morto due anni fa dopo aver battuto ogni record di produzione e vendita di dischi (110 milioni) di canzoni e tour di musica leggera, partendo dal rock di quando era ragazzo senza farsi mancare nulla di ciò che è seguito. E senza risparmiarsi nei confronti del suo pubblico neppure quando, negli ultimi appassionati anni, apparve il tumore. Assieme agli attentati terroristici, dai quali l'antico «blouson noir», amato simbolo della rivolta del rock, si lasciò commuovere senza risparmiarsi, tanto che dopo l'attentato di Nizza molti suoi spettacoli finirono con il pubblico che, coinvolto, spontaneamente intonava l'inno nazionale. E non l'abbandonò nella morte: al suo funerale, il 9 dicembre 2017, celebrato nella grande chiesa della Madeleine, a Parigi, parteciparono fra 800.000 e un milione di persone. E in molte centinaia vi ritornarono il 9 di ogni mese, per la messa celebrata per lui fino al dicembre scorso, riempendo più di 50 libri d'oro aperti nella chiesa a disposizione dei fedeli con i loro sentimenti e ricordi; ora raccolti nel libro dei sociologi Jean Francois Laé e Laetitia Overnay: Johnny, j'peux pas me passer de toi. Ecritures de séparation et mémoire, Fayard editore. Perché l'amore, come sa bene il parroco della Madeleine, chiesa di musicanti e menestrelli, lascia tracce profonde, che cambiano il mondo.