Tra 5 anni avremo macchine che agiscono come seconda mente ausiliaria di un individuo. Si potrà diffondere più conoscenza a più persone. Capendo e limitando le violazioni della privacy ma senza inaridire lo sviluppo.
Tra 5 anni avremo macchine che agiscono come seconda mente ausiliaria di un individuo. Si potrà diffondere più conoscenza a più persone. Capendo e limitando le violazioni della privacy ma senza inaridire lo sviluppo.Irrompe un salto di qualità dell’intelligenza artificiale. Il tema generale riguarda il governo della rivoluzione tecnologica. Il criterio promosso da chi scrive, dalla fine degli anni Novanta, è quello di incanalare tale rivoluzione entro argini che non la facciano esondare senza controllo, ma anche che ne impediscano l’inaridimento. Il tema particolare della «cibernetica tutoriale» sarà certamente un terreno di sperimentazione per questa formula di governo della tecnologia. Nel libro Futurizzazione del 2003 (Sperling) chi scrive invocò ed anticipò l’avvento della «cibernetica tutoriale» intesa come seconda mente ausiliaria che aiutasse il cervello di un individuo sia ad accedere istantaneamente a tutto il materiale informativo residente in piattaforme elettroniche - semplificando, su Internet - sia a selezionarlo in base ai propri scopi. I nuovi sistemi di Ia come ChatGpt, Bard e altri emersi recentemente o in fase di sviluppo fanno ipotizzare che siamo a circa 5 anni dalla possibilità di creare un robot individualizzabile che svolga tale servizio di cibernetica tutoriale. Negli anni Ottanta, giovane ricercatore, chi scrive volle interagire con l’Istituto internazionale di analisi dei sistemi (Vienna) che stava elaborando uno scenario di evoluzione della connettività nell’ambito dello sviluppo rapidissimo dei computer e delle connessioni che prefiguravano la creazione di una superficie elettronica nel pianeta. Da quell’esperienza lo scrivente abbozzò un’ipotesi condivisa con i ricercatori viennesi: l’ingegneria delle reti si sarebbe sviluppata prima di quella dei contenuti, ma quando la prima avesse raggiunto una diffusività sufficiente, la seconda avrebbe compiuto un salto discontinuo. Chi scrive - con mestiere di scenaristica previsiva - diede un nome all’epoca futura: l’età della «cibernazione». Nell’occasione, diede un piccolo contributo alla Teoria dei sistemi, elaborando un modello di «sistema chiudente»: si apre in base ad una istruzione tematica, raccoglie un ampio materiale e poi si chiude organizzando con supersintesi (guidata da un «criterio ordinatore») un testo o equivalente adattato a un utente. Dopo 40 anni vedere ChatGpt che fa un lavoro simile - in realtà ben più sofisticato perché caricato di capacità di autoapprendimento e di interattività adattiva - è un’emozione, ma anche la conferma di una linea di ricerca tecnologica ormai consolidata. Anche un lettore non specialista di settore può toccare con mano tale consolidamento proiettivo: da più di un decennio chi ha uno smartphone ha preso l’abitudine di andare a vedere subito su Internet un qualcosa che emerge in una discussione tra amici; l’acquisto di assistenti robotizzati che cercano canali televisivi o una strada sul navigatore via istruzione voce è sempre più frequente così come l’offerta da parte delle aziende sempre più evoluta, ecc. Questi sono precursori di «cibernetica tutoriale» che hanno convinto i produttori di Ia ad investire moltissimo per fare il grande salto. È iniziato. Chi scrive invocò lo sviluppo della cibernetica tutoriale in parallelo alla ricerca finalizzata alla riparazione del ciclo decrescente della ricchezza diffusa nelle democrazie (Lo Stato della crescita, Sperling, 1999; La riparazione del capitalismo democratico, Rubbettino, 2021). La base analitica riguardava la rivoluzione democratica come processo di trasferimento del potere dai pochi ai molti: prima quello politico, poi quello economico avviati nei secoli precedenti. Ma è stato finora insufficiente il trasferimento del potere cognitivo ai molti. E questo è una (con)causa fondamentale di mancato rinnovo del capitalismo di massa perché la conoscenza è tra i principali fattori di discriminazione tra ricchi e poveri. Pertanto a chi scrive sembrò ovvio proporre un trasferimento vero e sufficiente del potere cognitivo. Ma come? Un docente umano per ogni discente? Impossibile. Ed ecco la cibernetica tutoriale, finalmente possibile sul piano tecnologico: una seconda mente ausiliaria che ti aiuta a riparare un rubinetto come ad accedere a una lingua o alla descrizione della ricerca sulla fusione nucleare, più pragmaticamente ad addestrati per un nuovo lavoro, nel corso dell’apprendimento scolastico, universitario e poi per tutta le vita. Sarebbe un beneficio? Lo sarebbe, per tutti. Ma sarebbe anche un danno per tanti? L’impatto selettivo di ogni salto tecnologico è potenzialmente enorme. Ma per chi non si adatta alla novità. Alcuni devono cambiare mestiere, per esempio i tecnici riparatori delle macchine da scrivere elettriche quando emersero i computer con software di scrittura. Ma questi avrebbero potuto diventare riparatori di computer se avessero avuto una funzione tutoriale che facilitasse il compito. Tale piccolo pensiero indica la grande strategia di controllo della rivoluzione tecnologica sul piano dell’effetto disintermediante: ri-formare le persone caricandole di competenze adattive. Sul piano della privacy? Capire e limitare le violazioni. Sul piano dei contenuti eventualmente distorti intenzionalmente o meno? La ricerca è in corso, ma è pensabile un cibertutore con programma di controllo «veritista» diverso dal robot di quella o altra azienda. Con questo, chi scrive considera governabili i possibili effetti negativi dell’età della cibernazione affinché siano prevalenti quelli positivi. Pertanto possiamo immaginare un «welfare di investimento» dove grazie alla tecnologia possiamo diffondere più conoscenza a più individui, trasformandoli da deboli in forti grazie da una ricarica continua di potere cognitivo: per rilanciare il capitalismo di massa è necessaria una rivoluzione conoscitiva altrettanto di massa. www.carlopelanda.com
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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