2021-03-27
Un altro «Whatever it takes» contro la Germania
Giuro: quando l'altra sera, a giornale ormai chiuso, ho letto una notizia d'agenzia che riportava ciò che aveva detto il presidente del Consiglio intervenendo nella riunione del Consiglio europeo, ho strabuzzato gli occhi. Scorrendo le dichiarazioni rese da Mario Draghi di fronte ai leader della Ue non volevo credere che l'ex presidente della Bce fosse stato così esplicito. Soprattutto, mi pareva impossibile che avesse detto chiaro e tondo, senza girarci troppo intorno, ciò che i tedeschi e i cosiddetti Paesi frugali, cioè i rappresentanti della tirchieria e piccineria continentale, non si vogliono sentir dire. Vi chiedete che cosa il premier abbia dichiarato di tanto importante durante un incontro che era programmato per parlare della questione dei vaccini e della ripresa economica più che di geopolitica? Beh, ve lo spiego subito. Un po' come aveva fatto quand'era presidente della Banca centrale europea, Draghi ha dato una brusca scrollata all'albero Ue, facendo cadere qualche mela. All'epoca, nonostante la chiara ostilità della Bundesbank nei confronti di un intervento diretto della Bce a sostegno dell'euro e dei titoli di Stato europei attaccati dalla speculazione, il futuro presidente del Consiglio era andato dritto al problema, mettendo in fila tre paroline: «Whatever it takes», che tradotte in italiano suonano più o meno come un «costi quel che costi», vale dire faremo tutto ciò che serve. Insomma, se saremo costretti, se l'offensiva di chi scommette contro la moneta unica e le obbligazioni dei Paesi membri non si fermerà, noi agiremo di conseguenza, mettendo in campo tutte le risorse necessarie. Questo fu il messaggio che Draghi mandò al mercato nove anni fa, nel pieno della crisi del debito sovrano dell'Italia. Una frase poco diplomatica pronunciata durante la Global investment conference di Londra, un forum di investitori e dirigenti d'azienda, che ottenne il risultato sperato, costringendo gli speculatori ad allentare la presa.Oggi Draghi non è più alla Bce e non deve difendere l'euro o i titoli di Stato sotto attacco. Tuttavia, ciò che ha detto rompe un tabù, ovvero la condivisione del debito fra Paesi europei come passo obbligato per consentire l'internazionalizzazione della moneta unica. «Lo so che la strada è lunga, ma dobbiamo cominciare a incamminarci. È un obiettivo di lungo periodo, ma è importante avere un impegno politico». Un auspicio? Una raccomandazione? Qualche cosa di più, perché il premier ha invitato gli altri leader europei a prendere esempio dall'America, che sono sì una federazione, ma oltre alla moneta condividono un unico mercato dei capitali, hanno un'unione bancaria completa, un sistema fiscale comune e un debito condiviso. Solo così, secondo Draghi, l'Europa può affermare un ruolo internazionale dell'euro, proprio come il dollaro che è considerato un vero e proprio bene rifugio. Non basta consolarsi con il volume di scambi commerciali liquidato in euro: serve altro. In particolare, servono gli eurobond, cioè dei titoli emessi dall'Unione europea per finanziare i singoli Stati. Una bestemmia per Germania, Olanda, Finlandia e tutti gli altri Paesi germanofili a cui, solo a sentire parlare di debito in comune, viene l'orticaria. Figuratevi, ai leader dei Paesi del Nord va di traverso anche solo la faccenda del Recovery fund, prova ne sia che il piano concordato nel luglio scorso è in una specie di limbo, in attesa del via libera (la Corte costituzionale tedesca ieri ha sospeso il giudizio e la pausa non promette nulla di buono). Come potranno dire sì agli eurobond, a una Bce con un potere vero, come quello della Federal reserve americana, a un sistema fiscale unico, che nei Paesi Bassi e anche in altri significherebbe la fine della pacchia, cioè lo stop a una posizione di rendita che ha consentito di attrarre capitali e aziende? Certo, questa sarebbe una vera Unione europea e non quella rachitica che abbiamo oggi, incapace perfino di farsi valere nell'acquisto dei vaccini. Una Ue che non fosse finta, senza un governo né un'unità bancaria, sarebbe indigeribile per Berlino e per gli Stati satellite che ruotano intorno alla Germania.Dunque, il «Whatever it takes» rivolto da Draghi ai leader europei è destinato a cadere nel vuoto? Sì e no. Di sicuro, oggi il presidente del Consiglio non ha la possibilità di spingere gli alleati in questa direzione, ma la dichiarazione è un programma politico, qualche cosa di più di un obiettivo. A differenza di chi lo ha preceduto, Draghi non è in cerca di complimenti e non ha bisogno di legittimazione come protagonista internazionale: lo è già. Quindi punta in alto, a diventare artefice di una nuova Europa. Del resto, i leader scarseggiano: Angela Merkel è sul viale del tramonto, Emmanuel Macron ci verrà spedito presto, appena si terranno le elezioni. Perciò la partita dell'Europa si può giocare. E forse, con un po' di fortuna, anche vincere.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)