2025-03-01
L’Ue accusa i dazi Usa di minare l’economia per coprire gli errori che ha fatto da sola
Valdis Dombrovskis (Ansa)
Valdis Dombrovskis la spara grossa: «Il Pil mondiale crollerà del 7%». Ma la crisi dell’Unione va avanti da anni per colpa di Bruxelles.Arriva la previsione di Valdis Dombrovskis, commissario Ue agli Affari economici. I dazi Usa saranno una catastrofe per tutti. «Prendiamo atto e ci dispiace delle sue dichiarazioni sull’intenzione di introdurre dazi contro l’Unione europea», commenta a La Repubblica, «li consideriamo ingiustificati. Sarà un problema per la crescita economica. Ci sono stime del Fmi secondo cui a medio termine il Pil globale scenderà del 7%. È come perdere il Pil complessivo della Germania e della Francia», conclude con la stessa certezza con la quale la sua coalizione ha valutato gli impatti delle norme e della burocrazia sull’industria e il Pil negli ultimi anni. La Commissione Ue, attuale e precedente, ha spinto così tanto sulla transizione green da rendere questo continente un semi deserto industriale e soprattutto ha mantenuto un controllo ferreo della macchina di Bruxelles per oltre due decenni. Venti anni che ci hanno portato al crollo della ricchezza attuale. Nulla a che vedere con i dazi. Che, vale la pena ricordare, non sono certo una novità.Le fondamenta dell’economia Ue, infatti, sono costruite su un modello che integra apertura, concorrenza di mercato e un quadro giuridico per ridistribuire la ricchezza (e non per crearla), fondamenta che apparentemente hanno posizionato il continente come una potenza economica. L’Ue è riuscita a combinare alti livelli di sviluppo umano con una disuguaglianza relativamente bassa, creando un mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di aziende che insieme rappresentano circa il 17% del Pil globale. Si tratta di una struttura economica sostenuta da politiche progressiste, un elevato livello di istruzione e forti standard sanitari. Tolta la patina politica però vediamo che il divario tra il Pil Ue e quello Usa è aumentato dal 12% del 2002 al 30% del 2023. Il gap di produttività spiega circa il 70% di questa stagnazione. Tra il Duemila e il 2019, il commercio internazionale come quota del Pil è aumentato dal 30% al 43% nell’Ue, superando gli Stati Uniti, dove la quota del commercio sul Pil è aumentata solo marginalmente dal 25% al 26%. Questa apertura ha consentito all’Europa di mantenere un vantaggio competitivo in un’economia pienamente globalizzata e con catene di produzione lunghissime. Il problema è che il sistema commerciale multilaterale su cui l’Europa ha fatto affidamento è passato attraverso una crisi profonda e adesso è «kaputt». E non perché ora alla Casa Bianca è tornato Donald Trump. Lo era già prima, in particolare dopo la pandemia del Covid. Ci troviamo con un prezzo complessivo dell’energia che è circa quattro volte più alto rispetto a quello dei competitor americani e cinesi. Non solo, nel 2023 le aziende Ue hanno investito in ricerca e sviluppo 270 miliardi in meno rispetto alle cugine a stelle e strisce. Oggi non abbiamo il controllo delle materie prime, l’industria automotive è spiaggiata. Dopo la guerra in Ucraina non solo abbiamo perso la sovranità energetica e ci siamo accorti di non avere tecnologie proprietarie per temi delicati come il cloud o l’Intelligenza artificiale, ma abbiamo cominciato a rivolgerci fuori dal perimetro dei 27 per un sacco di approvvigionamenti. Molto più di quanto accadesse prima. Basti pensare al settore della Difesa. Se parliamo di transizione digitale dobbiamo inoltre dirci in tutta onestà che circa l’80% della produzione di chip è localizzata in Asia. E tralasciamo il tema auto elettrica... per non annoiare i lettori.Non abbiamo prodotto novità, figuriamoci scelte rivoluzionarie. Né in tema di lavoro, né in ambito digitale e nemmeno sociale. Al contrario l’Ue ha cercato di imporre regole persino agli altri, convinta che pure i Paesi concorrenti fossero assopiti. Basti pensare agli esempi perseguiti da Frans Timmermans. Invece crescevano e crescevano e sono diventati ricchi. Anzi più ricchi di noi. Non solo. Da almeno un anno si discute delle politiche di Trump. Come avrebbe stravolto i rapporti internazionali, che leve economiche avrebbe mosso e come sarebbe entrato a gamba tesa sulla Nato. A novembre è stato eletto, il 20 gennaio si è insediato. Eppure ad ascoltare i discorsi della gerarchia politica Ue sembra di assistere a una sorpresa. Il modello politico di Trump è chiaramente quello del commerciante levantino. Prima spara e poi chiede il permesso. È quindi comprensibile la difficoltà e lo smarrimento di molti politici europei che si sentono quasi ricattati. Il punto però è avere leve di forza da contrapporre. Per avviare un braccio di ferro. Sia che avvenga in maniera multilaterale che bilaterale. La realtà è che l’Ue non alcun punto di forza da frapporre. E quindi sembra troppo comodo ribaltare tutte le colpe sull’aggressività Usa che viene messa a terra tramite dazi. Un esempio semplice: in questi giorni si discute di Difesa comune e di utilizzo della presenza militare in Ucraina. Certo lì ci sono materie prime più che terre rare. Ma l’Ue dovrebbe aprire gli occhi e comprendere che l’invio di militari congiunti sarebbe da destinare almeno a una mezza dozzina di Paesi africani. Lì ci sono le vere riserve di materie prime e terre rare. Eppure abbiamo con estrema debolezza ceduto l’area all’influenza russa, turca e cinese. L’esercito di Emmanuel Macron in poco più di cinque anni ha perso un secolo di storia ed è stato sloggiato. Questo il tema da cui ripartire. Un tema molto più importante dei dazi.
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