2021-07-08
L’Ue ci impone di spendere 86 miliardi per clima e verde. Ma non ne abbiamo bisogno
Bruxelles sfrutta il Recovery per rendere obbligatoria la transizione ecologica e svena gli Stati con 282 miliardi di tasse. Anche se l'Europa emette solo l'8% di CO2 globale.Opportunità storica o «bagno di sangue», come affermato in una recente intervista dal ministro Roberto Cingolani? Il tema della transizione ecologica divide esperti, economisti e politici, anche se Bruxelles lo ritiene oramai un processo di fatto ineluttabile. In principio era il Green deal europeo (ora congelato), il pantagruelico piano da 1.000 miliardi di euro varato prima dello scoppio della pandemia dal presidente della Commissione Ursula von der Leyen con l'obiettivo di trasformare «l'Unione Europea in una società giusta e prospera, con un'economia di mercato moderna e dove le emissioni di gas serra saranno azzerate, e la crescita sarà sganciata dall'utilizzo delle risorse naturali». Poi lo scorso ottobre è arrivato Fit for 55, un pacchetto di 12 provvedimenti specifici con cui il governo dell'Ue si propone di ridurre le emissioni di gas serra del 55% al 2030. Nel mezzo, la lunga e complessa vicenda di Next generation Eu, meglio noto come Recovery fund, declinato poi a livello nazionale nei vari Piani nazionali per la ripresa e la resilienza (Pnrr). Almeno il 37% dei fondi del Next generation Eu (complessivamente da 806,9 miliardi) dovranno essere destinati a investimenti e riforme nel clima, ovvero 267,8 miliardi potenziali a cui aggiungere 14,4 miliardi di euro del budget Ue, per un totale di 282,2 miliardi.Piano che, nel caso dell'Italia, alloca il 42% degli investimenti sulla transizione ecologica, vale a dire circa 86 miliardi incluso il capitolo sulla (mobilità sostenibile) su 205 complessivi, a cui si aggiunge il fondo complementare da 30 miliardi stanziato dal governo guidato da Mario Draghi, portando il totale a 235 miliardi.Sfortunatamente, mentre si celebra l'intento salvifico di questo passaggio se ne nasconde accuratamente il risvolto economico. Già, perché passare da un mondo basato sui combustibili fossili a uno in cui saranno le fonti rinnovabili a fornire l'energia necessaria alle attività umane sarà, al netto della pomposa retorica che ammanta le iniziative della Commissione, un processo lungo, complesso e soprattutto molto, molto dispendioso. E il rapporto tra benefici e costi tutt'altro che scontato a favore dei primi.Secondo l'ultimo rapporto Global carbon project, l'Unione europea emette in un anno 2,6 miliardi di tonnellate di CO2 per uso di fossili. Questa cifra rappresenta l'8% del totale delle emissioni mondiali ed equivale a circa un quarto delle emissioni della sola Cina. Su 10 miliardi di tonnellate emesse dalla Cina, ben 7,2 sono causate dalla combustione di carbone nelle centrali elettriche. Qui emerge una delle contraddizioni fondamentali del Green deal rispetto alla globalizzazione: aver fatto della Cina la fabbrica del mondo, trasferendo in quel Paese la produzione di massa senza stringenti regole ambientali, ha alimentato lo squilibrio ambientale portandolo a livelli parossistici. La Cina da sola, infatti, emette più gas serra da fossili di Ue, Usa e India messi insieme. C'è di più, dal momento che le emissioni annuali di anidride carbonica da fossili nell'Unione europea sono in calo pressoché costante, in valore assoluto, dai primi anni Ottanta del secolo scorso, mentre dal 2000 in poi quelle cinesi sono schizzate verso l'alto. Cifre che dovrebbero spingere i governi, dando per vera la relazione diretta tra concentrazione dei gas serra nell'atmosfera e innalzamento delle temperature, a valutare meglio se e quanto il contributo dell'Ue sia determinante rispetto all'obiettivo di contenere le temperature terrestri.Un esempio classico è rappresentato dalla fortissima spinta verso l'adozione della mobilità privata elettrica, soprattutto da parte del settore automobilistico tedesco, al punto che l'Ue avrebbe intenzione di vietare la vendita di automobili con motore a combustione interna entro la fine del decennio. Ma quante sono le emissioni di CO2 dovute ai trasporti privati nell'Unione europea? Attualmente circa un quarto, delle quali il 70% dovuto ad automobili, camion e autobus, mentre la parte restante è attribuibile al trasporto marittimo e aereo. Ciò significa che le emissioni dovute al traffico terrestre ammontano a circa 500 milioni di tonnellate all'anno. Questo valore corrisponde a circa il 7% delle emissioni generate dalla Cina per far funzionare le proprie centrali a carbone. Vale la pena cambiare l'intero parco auto europeo in dieci anni quando per ottenere lo stesso risultato sarebbe sufficiente chiudere qualche centrale elettrica cinese?Non si tratta semplicemente di una questione di costi. In Germania, l'Associazione tedesca delle industrie energetiche e idriche (Bdew) ha stimato che la domanda elettrica nazionale al 2030 sarà di quasi il 30% superiore rispetto ad oggi (700 miliardi di kilowattora contro gli attuali 540). Il governo tedesco ha già stabilito da tempo di chiudere gli impianti a energia nucleare entro il 2022 e quelli a carbone e lignite entro il 2038. In sintesi, Berlino deve rimpiazzare 8.000 Mw di capacità nucleare, 15.000 Mw a carbone e 14.000 Mw a lignite, la gran parte entro il 2030. Facendo a meno, a conti fatti, di circa 37.000 Mw in pochi anni. L'Italia dal canto suo, secondo i piani del governo, deve installare 70.000 Mw di potenza a fonte rinnovabile entro il 2030. Senza impianti convenzionali in grado di intervenire istantaneamente per coprire la domanda e bilanciare la rete, il rischio blackout è sempre dietro l'angolo. Non è difficile immaginare che i prossimi saranno anni di passione per il sistema elettrico europeo, con prezzi alti, grande volatilità e stress della rete.Se davvero si pretende di far crescere i consumi elettrici, bisogna prendere atto che sono necessari grossi investimenti sulle infrastrutture, molto maggiori di quanto attualmente si sta ipotizzando. Il Pnrr italiano stanzia circa 4 miliardi di euro per il potenziamento e la digitalizzazione delle reti elettriche. Potrà sembrare una bella cifra, ma non è detto che sia sufficiente per avere una rete di distribuzione di qualità su tutto il territorio nazionale. E così, oltre al bagno di sangue, rischiamo anche di trovarci con un pugno di mosche in mano.(1. Continua)