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2022-03-29
«Ucraini gambizzano i prigionieri». Disastro a Mariupol, liberata Irpin
Ansa
Nella diatriba su chi siano i buoni e chi i cattivi in guerra e su quale delle parti in campo leda con maggiore frequenza la convenzione di Ginevra, spunta un video che ha già sollevato molti interrogativi. Nelle riprese si vedono quelli che sembrano essere soldati ucraini che sparano alle ginocchia di uomini - apparentemente prigionieri russi - durante un’operazione nella regione di Kharkiv. Sono quasi sei minuti di girato in cui i presunti soldati ucraini affermano di aver catturato un gruppo di ricognizione russo basato a Olkhovka, una cittadina vicino a Kharkiv, a una trentina di chilometri dal confine russo.
I soldati, a giudicare dall’audio, parlerebbero in un misto di ucraino e russo con forte accento ucraino. Il filmato non è ancora stato verificato da una fonte indipendente ma di certo ha sollevato un polverone ed è stato preso in considerazione da entrambi gli Stati belligeranti. Kiev vuole che non si gettino sospetti sul suo operato e dunque ha annunciato approfondimenti sulle immagini. «Il governo sta prendendo questo video molto seriamente e ci sarà un’indagine immediata. Siamo un esercito europeo e non deridiamo i nostri prigionieri. Se questo fosse vero, sarebbe un comportamento assolutamente inaccettabile», queste le parole di Oleksiy Arestovych, alto consigliere del presidente Zelensky. Arestovych ha dichiarato: «Trattiamo i prigionieri in conformità con la convenzione di Ginevra, qualunque siano le motivazioni emotive personali».Anche il capo delle forze armate, Valerii Zaluzhnyi, tenta di respingere le accuse piovute sull’esercito ucraino. «Per screditare le forze di difesa ucraine, il nemico filma e distribuisce video che mostrano il trattamento disumano da parte di presunti soldati ucraini nei confronti dei prigionieri russi. I militari delle forze armate ucraine e di altre legittime formazioni militari aderiscono rigorosamente alle norme del diritto umanitario internazionale», afferma Zaluzhnyi.
Ovviamente il Cremlino, da parte sua, respinge questa ricostruzione e descrive le immagini come «mostruose» prove di torture ai danni dei russi. Dunque, anche i russi hanno promesso che indagheranno a fondo. Proprio il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha spiegato che gli investigatori russi esamineranno il video e che coloro che hanno preso parte alla gambizzazione dei soldati catturati verranno individuati e ritenuti responsabili di tortura. Mentre le accuse reciproche si fanno sempre più pesanti, la situazione sul campo di battaglia non sembra essere molto favorevole per i russi.
Il ministero della Difesa ucraino ha comunicato la morte del generale russo Yakov Rezantsev, in un attacco vicino alla città di Kherson. Tra l’altro, sempre stando alle fonti ucraine, la città di Irpin, teatro di scontri serrati alle porte di Kiev, sarebbe stata completamente liberata dalla presenza dei militari russi. Nel suo ultimo rapporto operativo l’esercito dell’Ucraina sostiene, inoltre, che la Russia abbia ritirato le truppe che circondavano Kiev. Questo, dopo aver subito perdite che Mosca non si aspettava. Il ritiro avrebbe «significativamente ridotto» l’intensità dell’avanzata russa: Mosca, stando alle dichiarazioni del viceministro delle Difesa ucraino, Hanna Malyar, non avrebbe alcuna speranza di catturare la capitale. Ciò non toglie che Kiev sia stata sottoposta ad oltre quaranta bombardamenti nelle ultime 24 ore.
E l’allerta resta comunque alta intorno alla capitale, perché funzionari militari affermano che la Russia stia trasportando missili Iskander a Kalinkavichy, nel sudest della Bielorussia, non lontano quindi da Kiev. Mentre gli ucraini affermano di poter segnare dei punti a proprio favore, rimane sempre a un passo dalla catastrofe umanitaria Mariupol, la cui situazione attuale viene descritta dal sindaco, Vadym Boichenko: «La città deve essere completamente evacuata. Circa 160.000 persone sono intrappolate e senza energia elettrica». Secondo il primo cittadino, ci sono ventisei bus in attesa di evacuare i civili, ma le forze russe non avrebbero accettato di garantire loro un passaggio sicuro e dunque resta impossibile prendere dei provvedimenti per aiutarle. Insieme a Mariupol, a subire i combattimenti più pesanti sono le regioni di Donestk e Lugansk. «La Russia non smette di svolgere operazioni offensive in quel territorio, che costituisce l’obiettivo strategico di Putin», dice senza mezzi termini il portavoce della Difesa ucraino. Marinka e altre città vengono difese strenuamente, ma ci sarebbero centri già caduti in mano russa. Proprio nei combattimenti in Donbass ha perso la vita Volodymyr Kolesnyk, ex giocatore della squadra di calcio del Kryvbas. In questa situazione il governo insiste sulla legge marziale che impone agli ucraini dai 18 ai 60 anni di combattere per il Paese. Più di 1700 cittadini in età da combattimento sono stati fermati alla frontiera perché volevano lasciare l’Ucraina. Ad oggi sono già 340 i procedimenti penali in atto contro i disertori, di cui cento per tradimento e collaborazione.
Profughi, l’Ue dà ordini al Viminale
Con il contatore dei profughi ucraini a quota 3,8 milioni, in aumento al ritmo di 40.000 al giorno, l’Ue, dietro la spinta di Germania e Polonia, che vorrebbero evitare che gli sfollati si fermino sui loro territori troppo a lungo e puntano a favorire la libertà di movimento tra i Paesi, ha deciso di produrre un Piano in dieci punti per organizzare l’accoglienza. «Ma non ci sarà alcuna richiesta di reinsediamento», ha precisato la commissaria europea agli Affari Interni, Ylva Johansson.
La questione ovviamente deve aver creato più di qualche imbarazzo all’interno del Consiglio, visto che si tratterebbe di far fare un giro a 360 gradi all’Ue rispetto all’approccio mantenuto fino a questo momento sulle politiche migratorie. Da tempo Italia, Grecia, Spagna, Cipro e Malta chiedono di rivedere le posizioni sulle distribuzioni dopo il primo approdo. E finché la pressione dell’immigrazione non riguardava il Nord Europa tutti se ne sono fregati. Ora che si gioca a ruoli invertiti, questa poteva essere per i Paesi del Mediterraneo la carta negoziale da mettere sul tavolo per accettare le modifiche alle regole sulle migrazioni in generale. Rivedendo anche le questioni legate ai profughi che arrivano dai Paesi africani. Ma alla fine il Consiglio dei ministri dell’Interno se n’è uscito con i dieci punti. Partendo dalle misure per evitare che i trafficanti di esseri umani approfittino della situazione, si è pensato a una piattaforma per segnalare tutti coloro che godranno della protezione temporanea. Verrà creato un indice per monitorare quanti rifugiati sono presenti in ciascuno Stato membro, che sarà aggiornato su base settimanale. E sono stati previsti degli «incentivi» per i profughi che lasceranno la Polonia (che oggi ne ospita più di un milione) e per gli altri Paesi il cui il numero di ingressi peserebbe in modo sproporzionato. In parte, quindi, sono stati accolti i desiderata di Nancy Faeser, ministro dell’Interno tedesco, e del suo omologo polacco Mariusz Kaminski, che nei giorni scorsi avevano inviato ai due commissari Ue che si occupano dell’emergenza, il greco Margaritis Schinas e la svedese Ylva Johansson, una comunicazione, finita al primo punto dell’ordine del giorno del Consiglio di ieri. La questione, come posta dai due Paesi, però, è entrata subito in contrasto con la direttiva sulla protezione temporanea, resa operativa per la prima volta in 20 anni.
Le richieste spaziavano su vari ambiti: da quello economico (1.000 euro per ogni rifugiato ospitato), a quello giuridico (trasporti gratuiti per lasciare la nazione di primo approdo), a quello politico (rimettendo in gioco il Piano per l’asilo bloccato da oltre un anno proprio dalla Polonia). Tre punti abbastanza spinosi. Soprattutto il secondo, che è apparso subito come un incentivo alla redistribuzione di fatto. Lo status di rifugiato già consente di circolare liberamente in ogni Paese Ue. E l’ipotesi di redistribuzioni sono sempre cadute nel vuoto. La scelta degli «incentivi», oltre a sbugiardare quanto finora sostenuto, fa irritare soprattutto i Paesi che hanno sofferto maggiormente la pressione africana. L’Italia, però, sembra aver subito chinato il capo. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha fatto sapere di aver condiviso l’idea della piattaforma. E si è detta pronta a dare una mano ai 10.000 profughi attualmente in Moldavia, da ridistribuire sul territorio europeo: «Anche l’Italia farà la sua parte, perché noi abbiamo sempre detto che il principio della solidarietà deve andare a pari passo con quello della responsabilità». Ma sembra aver dimenticato i «niet» dell’Ue per l’immigrazione che arriva da Sud.
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Un video mostra soldati dell’esercito di Kiev che sparano alle ginocchia dei russi: ma è lite sull’attendibilità Il sindaco della città: bisogna evacuare 160.000 persone. Ex calciatore ucciso in combattimento nel Donbass.In Europa passa la linea che interessa a Germania e Polonia per la ridistribuzione dei profughi. Luciana Lamorgese incassa e l’Italia perde l’occasione di rinegoziare i patti di accoglienza.Lo speciale contiene due articoli.Nella diatriba su chi siano i buoni e chi i cattivi in guerra e su quale delle parti in campo leda con maggiore frequenza la convenzione di Ginevra, spunta un video che ha già sollevato molti interrogativi. Nelle riprese si vedono quelli che sembrano essere soldati ucraini che sparano alle ginocchia di uomini - apparentemente prigionieri russi - durante un’operazione nella regione di Kharkiv. Sono quasi sei minuti di girato in cui i presunti soldati ucraini affermano di aver catturato un gruppo di ricognizione russo basato a Olkhovka, una cittadina vicino a Kharkiv, a una trentina di chilometri dal confine russo. I soldati, a giudicare dall’audio, parlerebbero in un misto di ucraino e russo con forte accento ucraino. Il filmato non è ancora stato verificato da una fonte indipendente ma di certo ha sollevato un polverone ed è stato preso in considerazione da entrambi gli Stati belligeranti. Kiev vuole che non si gettino sospetti sul suo operato e dunque ha annunciato approfondimenti sulle immagini. «Il governo sta prendendo questo video molto seriamente e ci sarà un’indagine immediata. Siamo un esercito europeo e non deridiamo i nostri prigionieri. Se questo fosse vero, sarebbe un comportamento assolutamente inaccettabile», queste le parole di Oleksiy Arestovych, alto consigliere del presidente Zelensky. Arestovych ha dichiarato: «Trattiamo i prigionieri in conformità con la convenzione di Ginevra, qualunque siano le motivazioni emotive personali».Anche il capo delle forze armate, Valerii Zaluzhnyi, tenta di respingere le accuse piovute sull’esercito ucraino. «Per screditare le forze di difesa ucraine, il nemico filma e distribuisce video che mostrano il trattamento disumano da parte di presunti soldati ucraini nei confronti dei prigionieri russi. I militari delle forze armate ucraine e di altre legittime formazioni militari aderiscono rigorosamente alle norme del diritto umanitario internazionale», afferma Zaluzhnyi. Ovviamente il Cremlino, da parte sua, respinge questa ricostruzione e descrive le immagini come «mostruose» prove di torture ai danni dei russi. Dunque, anche i russi hanno promesso che indagheranno a fondo. Proprio il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha spiegato che gli investigatori russi esamineranno il video e che coloro che hanno preso parte alla gambizzazione dei soldati catturati verranno individuati e ritenuti responsabili di tortura. Mentre le accuse reciproche si fanno sempre più pesanti, la situazione sul campo di battaglia non sembra essere molto favorevole per i russi. Il ministero della Difesa ucraino ha comunicato la morte del generale russo Yakov Rezantsev, in un attacco vicino alla città di Kherson. Tra l’altro, sempre stando alle fonti ucraine, la città di Irpin, teatro di scontri serrati alle porte di Kiev, sarebbe stata completamente liberata dalla presenza dei militari russi. Nel suo ultimo rapporto operativo l’esercito dell’Ucraina sostiene, inoltre, che la Russia abbia ritirato le truppe che circondavano Kiev. Questo, dopo aver subito perdite che Mosca non si aspettava. Il ritiro avrebbe «significativamente ridotto» l’intensità dell’avanzata russa: Mosca, stando alle dichiarazioni del viceministro delle Difesa ucraino, Hanna Malyar, non avrebbe alcuna speranza di catturare la capitale. Ciò non toglie che Kiev sia stata sottoposta ad oltre quaranta bombardamenti nelle ultime 24 ore. E l’allerta resta comunque alta intorno alla capitale, perché funzionari militari affermano che la Russia stia trasportando missili Iskander a Kalinkavichy, nel sudest della Bielorussia, non lontano quindi da Kiev. Mentre gli ucraini affermano di poter segnare dei punti a proprio favore, rimane sempre a un passo dalla catastrofe umanitaria Mariupol, la cui situazione attuale viene descritta dal sindaco, Vadym Boichenko: «La città deve essere completamente evacuata. Circa 160.000 persone sono intrappolate e senza energia elettrica». Secondo il primo cittadino, ci sono ventisei bus in attesa di evacuare i civili, ma le forze russe non avrebbero accettato di garantire loro un passaggio sicuro e dunque resta impossibile prendere dei provvedimenti per aiutarle. Insieme a Mariupol, a subire i combattimenti più pesanti sono le regioni di Donestk e Lugansk. «La Russia non smette di svolgere operazioni offensive in quel territorio, che costituisce l’obiettivo strategico di Putin», dice senza mezzi termini il portavoce della Difesa ucraino. Marinka e altre città vengono difese strenuamente, ma ci sarebbero centri già caduti in mano russa. Proprio nei combattimenti in Donbass ha perso la vita Volodymyr Kolesnyk, ex giocatore della squadra di calcio del Kryvbas. In questa situazione il governo insiste sulla legge marziale che impone agli ucraini dai 18 ai 60 anni di combattere per il Paese. Più di 1700 cittadini in età da combattimento sono stati fermati alla frontiera perché volevano lasciare l’Ucraina. Ad oggi sono già 340 i procedimenti penali in atto contro i disertori, di cui cento per tradimento e collaborazione.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ucraini-gambizzano-prigionieri-mariupol-irpin-2657054440.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="profughi-lue-da-ordini-al-viminale" data-post-id="2657054440" data-published-at="1648511458" data-use-pagination="False"> Profughi, l’Ue dà ordini al Viminale Con il contatore dei profughi ucraini a quota 3,8 milioni, in aumento al ritmo di 40.000 al giorno, l’Ue, dietro la spinta di Germania e Polonia, che vorrebbero evitare che gli sfollati si fermino sui loro territori troppo a lungo e puntano a favorire la libertà di movimento tra i Paesi, ha deciso di produrre un Piano in dieci punti per organizzare l’accoglienza. «Ma non ci sarà alcuna richiesta di reinsediamento», ha precisato la commissaria europea agli Affari Interni, Ylva Johansson. La questione ovviamente deve aver creato più di qualche imbarazzo all’interno del Consiglio, visto che si tratterebbe di far fare un giro a 360 gradi all’Ue rispetto all’approccio mantenuto fino a questo momento sulle politiche migratorie. Da tempo Italia, Grecia, Spagna, Cipro e Malta chiedono di rivedere le posizioni sulle distribuzioni dopo il primo approdo. E finché la pressione dell’immigrazione non riguardava il Nord Europa tutti se ne sono fregati. Ora che si gioca a ruoli invertiti, questa poteva essere per i Paesi del Mediterraneo la carta negoziale da mettere sul tavolo per accettare le modifiche alle regole sulle migrazioni in generale. Rivedendo anche le questioni legate ai profughi che arrivano dai Paesi africani. Ma alla fine il Consiglio dei ministri dell’Interno se n’è uscito con i dieci punti. Partendo dalle misure per evitare che i trafficanti di esseri umani approfittino della situazione, si è pensato a una piattaforma per segnalare tutti coloro che godranno della protezione temporanea. Verrà creato un indice per monitorare quanti rifugiati sono presenti in ciascuno Stato membro, che sarà aggiornato su base settimanale. E sono stati previsti degli «incentivi» per i profughi che lasceranno la Polonia (che oggi ne ospita più di un milione) e per gli altri Paesi il cui il numero di ingressi peserebbe in modo sproporzionato. In parte, quindi, sono stati accolti i desiderata di Nancy Faeser, ministro dell’Interno tedesco, e del suo omologo polacco Mariusz Kaminski, che nei giorni scorsi avevano inviato ai due commissari Ue che si occupano dell’emergenza, il greco Margaritis Schinas e la svedese Ylva Johansson, una comunicazione, finita al primo punto dell’ordine del giorno del Consiglio di ieri. La questione, come posta dai due Paesi, però, è entrata subito in contrasto con la direttiva sulla protezione temporanea, resa operativa per la prima volta in 20 anni. Le richieste spaziavano su vari ambiti: da quello economico (1.000 euro per ogni rifugiato ospitato), a quello giuridico (trasporti gratuiti per lasciare la nazione di primo approdo), a quello politico (rimettendo in gioco il Piano per l’asilo bloccato da oltre un anno proprio dalla Polonia). Tre punti abbastanza spinosi. Soprattutto il secondo, che è apparso subito come un incentivo alla redistribuzione di fatto. Lo status di rifugiato già consente di circolare liberamente in ogni Paese Ue. E l’ipotesi di redistribuzioni sono sempre cadute nel vuoto. La scelta degli «incentivi», oltre a sbugiardare quanto finora sostenuto, fa irritare soprattutto i Paesi che hanno sofferto maggiormente la pressione africana. L’Italia, però, sembra aver subito chinato il capo. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha fatto sapere di aver condiviso l’idea della piattaforma. E si è detta pronta a dare una mano ai 10.000 profughi attualmente in Moldavia, da ridistribuire sul territorio europeo: «Anche l’Italia farà la sua parte, perché noi abbiamo sempre detto che il principio della solidarietà deve andare a pari passo con quello della responsabilità». Ma sembra aver dimenticato i «niet» dell’Ue per l’immigrazione che arriva da Sud.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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