
Un esperto giurista ravvisa forzature nella decisione presa dal giudice per le indagini preliminari: Carola Rackete non era in stato di necessità e la sua condotta verso la Gdf è stata violenta.La dottoressa Alessandra Vella, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Agrigento e autrice dell'ordinanza con la quale è stata respinta la richiesta della locale Procura volte ad ottenere la convalida dell'arresto della«capitana» della Sea watch 3, dev'essere indubbiamente dotata di una robusta conoscenza di cose marinaresche. Ha infatti magistralmente applicato, nella motivazione del suo provvedimento, un noto stratagemma difensivo, usato nelle battaglie navali del passato e costituito dall'emissione, da parte della nave che cerchi di sottrarsi ad un impari confronto con unità avversarie, di una densa cortina fumogena che valga a sottrarla alla vista dei nemici e a consentirle la fuga. Nulla più che una cortina fumogena si rivela, infatti, il sovrabbondante richiamo, sul quale in gran parte si basa l'ordinanza in questione, ad una serie di norme, tanto interne quanto derivanti da convenzioni internazionali, che, in estrema sintesi, impongono ad ogni comandante di nave il dovere di prestare soccorso a quanti corrano pericolo di naufragio e di condurli nel più vicino «porto sicuro». Secondo il gip di Agrigento la condotta di resistenza e violenza culminata nell'urto volontariamente provocato dalla «capitana» fra la nave al suo comando e la motovedetta della Guardia di finanza che cercava di impedirle l'approdo nel porto di Lampedusa, sarebbe stata priva di rilievo penale perché giustificata, ai sensi dell'articolo 51 del codice penale, proprio dall'intento di adempiere al suddetto dovere. Non è qui il caso di addentrarsi in disquisizioni circa quella che dovrebbe essere la corretta nozione di «porto sicuro» e circa la legittimità o meno della pretesa della «capitana» di volerlo identificare proprio nel porto di Lampedusa, ad esclusione degli altri che pure sarebbero stati più vicini. A confutazione, infatti, della suddetta ricostruzione giuridica (e senza voler in alcun modo suggerire o anticipare le linee dell'eventuale impugnazione che la Procura di Agrigento dovesse decidere di proporre avverso il provvedimento del gip), appare sufficiente osservare che:1 Il dovere di salvataggio e conduzione dei naufraghi nel porto ritenuto «più sicuro» non implica anche quello di entrare a forza nel porto medesimo, ignorando i divieti posti dalle legittime autorità, quando il pericolo per la vita e la salute dei naufraghi sia comunque venuto meno; condizione, questa, che implicitamente trova conferma proprio nell'ordinanza del gip, non facendosi in essa menzione alcuna del preteso «stato di necessità», originariamente invocato proprio dalla «capitana» a sua giustificazione e determinato, a suo dire, proprio dal progressivo, grave deteriorarsi delle condizioni di salute dei naufraghi a causa del protrarsi dell'attesa dell'autorizzazione allo sbarco. 2 Del tutto privo di rilievo appare il richiamo, contenuto nell'ordinanza del gip, all'articolo 18 della Convenzione di Montego Bay sul «diritto del mare», nella parte in cui stabilisce la legittimità della «fermata» e dell'«ancoraggio» di una nave nel mare territoriale di un altro Stato quando essi siano «finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo»; ciò in quanto, in primo luogo, la «fermata» e l'«ancoraggio» di una nave in mare sono, all'evidenza, cose ben diverse dall'ingresso della stessa in porto; in secondo luogo, non esisteva, nel caso, alcuna necessità di «soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo». 3 Parimenti fuori luogo appare il richiamo, pure contenuto nell'ordinanza, all'articolo 10 ter del Testo unico sull'immigrazione, nella parte in cui stabilisce che lo straniero «giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi», di cui è prevista l'istituzione in base a talune norme successivamente indicate; adempimento, questo che, secondo quanto si afferma testualmente nella stessa ordinanza, fa carico soltanto «alle autorità statali», per cui non si vede a quale titolo potesse sentirne investita la comandante della Sea Watch. A quella che dovrebbe a questo punto apparire l'assoluta inconsistenza delle argomentazioni poste a base della decisione del gip fa poi riscontro la sostanziale ammissione, da parte del medesimo gip (sia pure con espressioni alquanto involute e contorte), della volontarietà della condotta di violenza e resistenza nei confronti della motovedetta della Guardia di finanza per la quale la «capitana» era stata tratta in arresto. Si legge, infatti, nell'ordinanza in questione, che l'avere ella «posto in essere una manovra pericolosa nei confronti dei pubblici ufficiali a bordo della motovedetta della Guardia di finanza, senz'altro costituente il portato di una scelta volontaria seppure calcolata, permette di ritenere sussistente il coefficiente soggettivo necessario ai fini della configurabilità concettuale del reato in discorso». Una parola va poi detta, da ultimo, anche con riguardo al fatto che il gip ha ammesso soltanto l'astratta configurabilità del generico reato di resistenza a pubblico ufficiale e non di quello, assai più grave, di resistenza o violenza contro nave da guerra, previsto dall'articolo 1100 del Codice della navigazione, sostenendo che non sarebbe da qualificare come «nave da guerra» la motovedetta della Guardia di Finanza. Ho già ricordato, in un mio precedente articolo, che analogo convincimento, espresso da un noto parlamentare, ex ufficiale di marina, è risultato in netto contrasto con quanto a suo tempo affermato e mai più contraddetto dalla Cassazione, secondo cui dev'essere invece considerata «nave da guerra», ai fini che qui interessano, anche «una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima» (Cassazione, sez. III, 30 giugno-22 settembre 1987 n° 9978). L'ordinanza del gip ignora totalmente questa pronuncia ma si richiama ad una sentenza della Corte costituzionale (la n° 35 del 2000) dalla quale si desumerebbe che le motovedette della Guardia di Finanza sono da considerare «navi da guerra» soltanto quando «operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare». Non si fa caso, però, nella medesima ordinanza, al fatto che nella stessa sentenza della Corte si afferma, subito dopo, che nei confronti delle motovedette della Guardia di Finanza «sono applicabili gli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione»; e ciò, con ogni evidenza, indipendentemente dal fatto che esse operino fuori delle acque territoriali, dal momento che è sempre la Corte ad aggiungere poi che i detti articoli sono richiamati anche dagli articoli 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n° 1409, recante «norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi»; vigilanza, quella anzidetta, che si effettua, normalmente, proprio nelle acque territoriali.
Massimiliano Fedriga (Ansa)
Come in Emilia, pure il Friuli ha pensato alle rinnovabili anziché alla gestione dei fiumi.
Credo che uno degli errori in democrazia sia trasformare in tifoserie da stadio le diverse visioni che stanno a fondamento delle diverse gestioni della cosa pubblica. La propria squadra ha sempre ragione e l’altra sempre torto e, siccome non si è infallibili, i leader non sbagliano mai perché, ove sbagliano, o nessuno li critica oppure le critiche non fanno testo perché «vengono dall’altra parte»: e che volete che dica l’altra parte? Il risultato è che l’elettore - incapace di obiettare alla propria parte - smette di andare a votare. Se ne avvantaggia la sinistra, i cui elettori votano anche se la loro parte propone loro uno spaventapasseri. Tutto sto giro di parole ci serve perché ci tocca dire che il presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, ha sbagliato tutto sulla politica energetica in Regione.
(IStock)
Riparte l’allarme sulle difficoltà di migliorare la propria condizione. Eppure il dato rivela una tendenza positiva: il superamento dell’ossessione della carriera, dei soldi e della superiorità, specie tra le nuove generazioni.
Oltre 3.000 professionisti, club, aziende e istituzioni sportive hanno partecipato all’ottava edizione del Social Football Summit a Torino. Tra talk, workshop e premi internazionali, focus su tecnologia, intelligenza artificiale, infrastrutture e leadership femminile nello sport, con la Start Up Competition vinta da Wovlabs.
2025-11-19
Colpevolizzare tutti i maschi per la violenza sulle donne creerà solo giovani più fragili
Gino Cecchettin (Ansa)
Etichettare gli uomini bianchi come potenziali criminali non fermerà i femminicidi. La condanna generalizzata, ora perfino a scuola, provoca invece angoscia nei ragazzi.
Ci parlano di femminicidi. In realtà ci assordano. Il signor Gino Cecchettin, padre di una figlia brutalmente assassinata, chiede corsi di prevenzione scolastica. Abbiamo una cinquantina di cosiddetti femminicidi l’anno su una popolazione di 60 milioni di abitanti. Ogni anno le donne assassinate sono poco più di cento, a fronte di 400 omicidi di maschi di cui non importa un accidente a nessuno. Abbiamo circa tre morti sul lavoro al giorno, al 98% maschi: anche di questi importa poco a tutti, a cominciare dal sindacalista Maurizio Landini, troppo impegnato in politica estera fantastica per occuparsi di loro. I suicidi sono circa 4.000 l’anno, e di questi 800 circa sono donne e 3.200 uomini. Il numero dei suicidi dei maschi è approssimato per difetto, perché molti maschi non dichiarano nulla e simulano l’incidente.






