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2018-05-16
Tutti gli interessi stranieri per far fallire la trattativa Lega-5 stelle
ANSA
C'è un modo di guardare alla complicata trattativa tra Lega e 5 stelle che non esce dalla dialettica interna: le differenze ideologiche, gli scontri di potere, la battaglia sul premier e dei ministri. Ce n'è un altro, non necessariamente opposto ma complementare, che apre lo sguardo alla politica estera, e spiega uno scontro in atto che si allarga al Quirinale e vede l'Italia come terreno di scontro di forze maggiori rispetto a quelle che il perimetro nazionale, e un certo pregiudizio morale espresso da quasi tutti i commentatori, permettono di cogliere.
Un assaggio evidente viene dalla cronaca di ieri, con le istituzioni comunitarie che hanno fatto capire chiaramente cosa si aspettino da qualunque governo italiano. Curiosamente, i due nodi esplicitati dai commissari europei ieri mattina sono tra quelli citati da Matteo Salvini come più delicati della trattativa con i grillini: i vincoli economici europei e i flussi migratori. Maastricht e Schengen. I due cardini del «vincolo esterno» sono le vere morse ai garretti del governo Lega-grillini. E anche il balletto sul corpaccione politicamente defunto del professor Giulio Sapelli viene danzato sulle stesse note. «Il veto su di me è arrivato dall'asse Mattarella-Di Maio», scandisce il loquace docente, che in radio a Massimo Giannini spiega: «Lo stop non è arrivato dal Quirinale ma sul Quirinale, dalle oligarchie europee. E il Quirinale ha recepito». «Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha posto alcun veto o diniego sul professor Sapelli per la semplice circostanza che nessuno, né prima né durante le consultazioni, gli ha mai proposto, direttamente o indirettamente, il suo nome». Ormai il corto circuito logico è totale. Perché se è verissimo che l'incarico è una prerogativa del Colle, poi non si può rimproverare ai leader di partito di non averla esercitata. Ma dietro il battibecco c'è la sostanza: spogliato da un linguaggio che presta il fianco ad accuse di complottismo, Sapelli parla di influenza esterna, tesa a impedire che l'Italia metta in discussione i vincoli di bilancio: «Ho letto il programma della Lega e dei grillini, mi è sembrato molto ragionevole. E aveva come inizio la conditio sine qua non per salvare questo Paese dalla catastrofe: rinegoziare i trattati europei. Una rinegoziazione senza strappi unilaterali, per eliminare il fiscal compact o almeno attutirne le conseguenze. Su questo punto sono d'accordo non al cento ma al mille per cento». Sapelli ha scodellato anche un'immagine efficace non da poco, che illumina la contrattazione tra Lega e 5 stelle: il Carroccio è a suo dire «un partito», i grillini un «movimento peristaltico», che non riesce a reggere a questo pressing di «eurocrati non eletti da nessuno» (copyright Di Maio, ieri).
Quando, pochi giorni fa, i grillini hanno rassicurato sul rispetto dell'1,5% nel rapporto deficit/Pil (forse non percependone l'impatto reale), Salvini è andato su tutte le furie. Ieri mattina Claudio Borghi, responsabile economico della Lega e tra gli estensori materiali del contratto con Di Maio e i suoi, ha ribadito lo stesso concetto espresso dal suo leader: o si mettono in discussione i parametri europei, o non ha senso parlare di nulla, perché nessuna politica (di destra, di sinistra, di sgravi fiscali, di investimenti, di copertura sociale) sarà mai attuabile finché le manovre sono scritte da Bruxelles. «Se partiamo, deve essere chiarissimo che abbiamo le risorse per fare le cose, che i soldi ci devono essere e che i trattati Ue vanno ridiscussi. Se su questo la posizione del Movimento combaciasse con la nostra, non avremmo punti rossi. Ma deve essere chiaro che serve accordo anche sui metodi, e i metodi passano anche per la revisione dei trattati».
In questo senso, dunque, sta ai partiti imboccare un primo bivio. Non a caso, Giorgia Meloni ha spiegato: «Penserò a un ingresso in questo governo se rompe con gli schemi del passato, con i diktat dell'Europa». A valle di questo bivio, ci sono poi le influenze dei singoli Paesi per i quali, vivaddio, l'Italia non è una mera espressione geografica abitata da dissoluti appesantiti dal fardello del debito pubblico, ma una nazione ben più ricca, strategica e interessante di quanto molta nostra classe politica paia intenzionata a far credere. Il pressing degli altri Paesi (che si riscontra facilmente sulle pagine del Financial Times di ieri, con l'editoriale sui «nuovi barbari»), oltre che quello delle élite europee, sta entrando anche in queste trattative, ed è uno degli elementi più netti di distinzione tra i due «contraenti» attuali.
L'establishment dei 5 stelle è in sintonia con la City di Londra, dove Gianroberto Casaleggio ha lavorato (alla Logica), e dove ha sposato una linguista. Qui Di Maio ha incontrato in campagna elettorale un nutrito gruppo di fondi detentori del debito pubblico italiano. Primo problema: da quando alla Casa Bianca c'è Donald Trump, essere anglofili non si porta molto con l'essere vicini a questa amministrazione Usa. La partecipazione di Theresa May all'asse con Emmanuel Macron e Angela Merkel contro i dazi americani rende plasticamente l'idea (così come la sberla all'Ue da parte del Wto, arrivata giusto ieri sull'affare Airbus). Gli occhieggiamenti grillini con lo stesso Macron, poi, sono storia recente, con il più volte sbandierato tentativo di aggregare la delegazione degli europarlamentari grillini a quella della formazione macroniana a Strasburgo.
A fronte di questo la Lega è, semplificando molto, con Trump e non condivide la percezione della Russia come nemico (sul tema, per esempio, cade l'equazione che allinea tutti i «populismi»), il che rende altamente problematica la trattazione di alcuni punti geopoliticamente strategici (difesa, nodo F35, dazi, Finmeccanica, Fincantieri, posizionamento rispetto a Francia e Germania).
Questi nodi, che sfuggono alla narrativa media dei due pasticcioni populisti al tavolo incapaci di concludere alcunché, rappresenta forse una chiave di lettura più interessante. Di sicuro, pone alla ribalta un quesito completamente obliterato negli ultimi sette anni, se non forse di più: il dogma del «vincolo esterno» è compatibile con l'interesse nazionale? E chi viene eletto, quale è tenuto a perseguire?
Martino Cervo
C'è un raduno di grillini macroniani
Mentre Lega e Movimento 5 stelle sudano per cercare di trovare una quadra a programmi che in realtà sembrano sempre più distanti, le influenze esterne e le pressioni dall'estero per formare un governo che sia il più possibile simile a quello «neutro» d'impronta mattarelliana si fanno sempre più forti. Soprattutto il M5s dimostra di possedere diverse anime. Una molto attenta al patto atlantico e agli equilibri americani (anche se non incline al trumpismo) e l'altra molto vicina alle forze e all'intellighenzia filofrancese. Quest'ultima si è data appuntamento il prossimo 30 maggio alla Luiss, probabilmente per fare il punto della situazione. L'appuntamento si chiama «Dialoghi italofrancesi per l'Europa» e si concentra su tre temi principali: comunicazione, editoria e telecomunicazioni.
Tra i partecipanti spiccano i nomi di Emma Marcegaglia, Paola Severino, Enrico Letta, Giampiero Massolo e Fabio Corsico sul fronte italiano. Poi c'è la schiera delle Gallie riunite che comprende figure come Xavier Niel, Gilles Pecout (rettore dell'Academie de Paris), Arnaud de Puyfontaine (presidente di Vivendi), Monunir Mahjuobi (segretario di Stato) e il politilogo Jean-Paul Fitoussi. Non è tra l'altro difficile immaginare che cosa dirà Fitoussi, visto che l'economista francese si è già espresso chiaramente in una intervista al Quotidiano nazionale. «Un governo gialloverde in Italia non piace né a me, né a Emmanuel Macron, né ad Angela Merkel, né all'Europa. Ma se nascerà, sarà un governo legittimo e l'Europa dovrà rispettarlo. Di una cosa comunque sono certo», ha proseguito il politologo, «qualunque cosa succeda, l'Italia non uscirà dall'Ue: è interesse suo e della stessa Europa. Il nuovo governo italiano, sovranista o no, non potrà sottrarsi a questa evidenza». Fitoussi ha tenuto a spiegare che prima di tutto dovrebbe venire la democrazia: «La nascita di un governo in Italia è un affare che riguarda l'Italia e basta. E anche se altri avrebbero preferito una soluzione diversa, dovranno rispettare la scelta del popolo italiano. Il nuovo governo dovrà essere accolto degnamente in seno al Consiglio europeo: è la regola democratica. Il che non impedisce che ci poniamo delle domande: questo governo sarà in grado di governare? Con quale programma? In quali condizioni? Per quanto tempo?».
Il messaggio è chiaro. Il governo Lega-M5s va bene a determinate condizioni, ovvero purché non rompa l'equilibrio prestabilito. Un equilibrio su cui la Francia ha investito molto e per il quale non vorrebbe feroci cambi di rotta. Già la finanza bretone nelle ultime settimane è stata vittima del riassetto politico a Roma. Una vicenda su tutte è quella che tocca Tim. Non a caso il tema dell'incontro di fine maggio riguarda pure le telecomunicazioni. La presenza dell'ex presidente di Tim e ora consigliere rappresentante di Vivendi riporta al futuro della banda larga in Italia ma soprattutto ai rapporti con il fondo americano Elliott, che dalla data del 4 maggio scorso ha preso il controllo relativo dell'azienda. Restano da definire le mosse dell'azionista «di minoranza» così come il ruolo di Cassa depositi e prestiti all'interno dell'azienda di telecomunicazioni. La riunione in massa alla Luiss dimostra che i colpi ricevuti possono rivelarsi una moda estemporanea. Le partite europee più importanti per l'Ue passano ancora per Parigi e molte riguardano la Difesa comune e la nostra industria bellica, come conferma la presenza in prima fila del presidente di Fincantieri, Giampiero Massolo, per diversi giorni candidato premier almeno prima di ricevere il niet di Matteo Salvini.
Claudio Antonelli
I falchi di Bruxelles ci attaccano su immigrazione e conti pubblici
Proprio come gli indovini dell'antica Roma, che si sforzavano di predire il futuro studiando il volo degli uccelli o - in modo più macabro - esaminando le viscere di qualche animale sacrificato, allo stesso modo troppi «esperti» (veri, presunti e aspiranti) cercano di intuire i destini dell'Italia attraverso una lettura febbrile dei media internazionali, dei grandi giornali stranieri, o più spesso selezionando furbescamente ciò che conferma i loro pregiudizi, i loro desideri, i loro schemini precostituiti.
Ieri mattina, ce n'era per tutti i gusti, in un senso e nell'altro. Da un lato, un articolo feroce sul Financial Times: Matteo Salvini e Luigi Di Maio descritti come i «barbari alle porte», anzi già dentro le mura di Roma.
Inutile girarci intorno: una stroncatura di rara durezza. Dall'altro, esattamente all'opposto, un commento positivo sul Telegraph: sì, i populisti saranno pure quello che saranno, ma l'Italia è da anni bloccata tra disoccupazione alta e crescita bassa, e quindi non possono esserne incolpati i nuovi protagonisti, che invece andrebbero incoraggiati. Morale del commento: non è affatto detto che i mercati si rivelino pregiudizialmente ostili a Lega-M5s, ammesso che il loro tentativo vada in porto.
Forse, proprio a partire dall'analisi più dubbiosa e equilibrata del Telegraph, è il caso di riflettere in modo adulto e meno irrazionale sui fantomatici «mercati». È ovvio che, con il terzo debito pubblico del mondo, non possiamo permetterci di «fare i fenomeni». I numeri parlano fin troppo chiaro: 2.300 miliardi di stock complessivo di debito (il 130% del Pil), oltre 400 miliardi l'anno di titoli da rinnovare, un conto di interessi annuali da circa 70 miliardi. È evidente che chiunque sia a Palazzo Chigi non possa trascurare i ragionamenti e gli umori di chi quei titoli dovrà acquistarli.
E questo è indubbiamente un argomento forte per il vecchio establishment italiano, abituatosi da anni all'«usato sicuro» dei governi tecnici, degli esecutivi «neutrali», per non dire dei viceré italiani di Parigi e Berlino. Tutta gente che da anni ha rinunciato perfino alla speranza di un'Italia forte, protagonista, competitiva: nella migliore delle ipotesi, si tratta di dignitosi gestori del declino italiano.
Ai quali ieri mattina è giunto come un balsamo l'avvertimento del vicepresidente della Commissione europea con delega all'euro Valdis Dombrovskis (seguito a ruota dal collega, con delega al Lavoro, Jyrki Katainen) che, citando esplicitamente il presidente Sergio Mattarella e facendo sponda con lui, ha sollecitato l'Italia a mantenere gli impegni finanziari con l'Ue: «Il prossimo governo deve continuare a ridurre deficit e debito». Katainen, tanto per dare un altro segnale di ostilità, ha aggiunto: «Le regole del Patto di stabilità si applicano a tutti gli Stati membri e non ho segnali che la Commissione concederà eccezioni a chiunque». Tra parentesi, è bastata un'altra mezz'ora da queste dichiarazioni per trovare sulle agenzie anche l'immancabile Dimistris Avramopoulos, il Commissario Ue per l'immigrazione, che si è affrettato ad augurarsi che «l'Italia non cambi la sua politica sui migranti».
A tutti costoro però va contrapposta una replica forte e argomentata, senza timori reverenziali. I mercati, al di là di inevitabili momenti di emotività, sono estremamente razionali, e considerano freddamente due elementi. Primo: il governo che si insedierà sarà stabile o invece durerà lo spazio di un mattino? Secondo (fattore decisivo): ci sarà o non ci sarà un ritorno sostenuto alla crescita? In caso positivo, allora si potrà anche chiudere un occhio su un qualche sforamento, su un po' di deficit, su una forzatura delle regole brussellesi. In quel caso, cioè con una crescita vibrante e un ritorno a tassi di occupazione più rassicuranti, nessuno oserà dire una parola contro Roma. Se invece non ci sarà un vero ritorno alla crescita, allora è scontato che anche i mercati finiscano per ritenere che il male minore sia rappresentato dalla solita minestrina preparata da anni nelle cucine del Quirinale: un governicchio con il pilota automatico, un'Italia ingabbiata nella prigione degli «zero virgola», tra manovrine e piccole concessioni della Commissione Ue, solo per tirare avanti e garantire l'emissione regolare dei titoli.
Ecco perché, comunque la si pensi, occorrerebbe insistere su misure capaci di riportarci a tassi di crescita adeguati, a partire da un taglio-shock delle tasse per tutti, individui e famiglie, imprese e lavoratori, proprietà immobiliare e risparmio. È su questo che Salvini e Di Maio farebbero bene a riflettere, per dare luce rossa o luce verde al loro tentativo.
Ed è ovviamente ancora su questo, se naufragasse il tentativo M5S-Lega, che dovrebbe concentrarsi il centrodestra nella prossima campagna elettorale. Il resto conta molto meno.
Daniele Capezzone
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A negoziare non sono solo due partiti distinti ma due diverse visioni della collocazione dell'Italia nel mondo. I grillini sono più vicini alla filiera anglo-francese, il Carroccio a quella americana. Le frizioni sul rispetto dei trattati Ue e i nodi geopolitici nascono da questo.Quella orientata verso Parigi è tra le correnti più solide nel M5s. Il 30 maggio un summit nel quale si parlerà degli interessi francesi nelle nostre telecomunicazioni e industrie.Con sincronia inquietante, ben tre commissari europei lanciano avvertimenti e minacce al Paese. Sull'economia: «Tagliare debito e deficit, nessuna deroga al Patto di stabilità». E chiedono di continuare a subire gli sbarchi.Lo speciale contiene tre articoli.C'è un modo di guardare alla complicata trattativa tra Lega e 5 stelle che non esce dalla dialettica interna: le differenze ideologiche, gli scontri di potere, la battaglia sul premier e dei ministri. Ce n'è un altro, non necessariamente opposto ma complementare, che apre lo sguardo alla politica estera, e spiega uno scontro in atto che si allarga al Quirinale e vede l'Italia come terreno di scontro di forze maggiori rispetto a quelle che il perimetro nazionale, e un certo pregiudizio morale espresso da quasi tutti i commentatori, permettono di cogliere.Un assaggio evidente viene dalla cronaca di ieri, con le istituzioni comunitarie che hanno fatto capire chiaramente cosa si aspettino da qualunque governo italiano. Curiosamente, i due nodi esplicitati dai commissari europei ieri mattina sono tra quelli citati da Matteo Salvini come più delicati della trattativa con i grillini: i vincoli economici europei e i flussi migratori. Maastricht e Schengen. I due cardini del «vincolo esterno» sono le vere morse ai garretti del governo Lega-grillini. E anche il balletto sul corpaccione politicamente defunto del professor Giulio Sapelli viene danzato sulle stesse note. «Il veto su di me è arrivato dall'asse Mattarella-Di Maio», scandisce il loquace docente, che in radio a Massimo Giannini spiega: «Lo stop non è arrivato dal Quirinale ma sul Quirinale, dalle oligarchie europee. E il Quirinale ha recepito». «Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha posto alcun veto o diniego sul professor Sapelli per la semplice circostanza che nessuno, né prima né durante le consultazioni, gli ha mai proposto, direttamente o indirettamente, il suo nome». Ormai il corto circuito logico è totale. Perché se è verissimo che l'incarico è una prerogativa del Colle, poi non si può rimproverare ai leader di partito di non averla esercitata. Ma dietro il battibecco c'è la sostanza: spogliato da un linguaggio che presta il fianco ad accuse di complottismo, Sapelli parla di influenza esterna, tesa a impedire che l'Italia metta in discussione i vincoli di bilancio: «Ho letto il programma della Lega e dei grillini, mi è sembrato molto ragionevole. E aveva come inizio la conditio sine qua non per salvare questo Paese dalla catastrofe: rinegoziare i trattati europei. Una rinegoziazione senza strappi unilaterali, per eliminare il fiscal compact o almeno attutirne le conseguenze. Su questo punto sono d'accordo non al cento ma al mille per cento». Sapelli ha scodellato anche un'immagine efficace non da poco, che illumina la contrattazione tra Lega e 5 stelle: il Carroccio è a suo dire «un partito», i grillini un «movimento peristaltico», che non riesce a reggere a questo pressing di «eurocrati non eletti da nessuno» (copyright Di Maio, ieri).Quando, pochi giorni fa, i grillini hanno rassicurato sul rispetto dell'1,5% nel rapporto deficit/Pil (forse non percependone l'impatto reale), Salvini è andato su tutte le furie. Ieri mattina Claudio Borghi, responsabile economico della Lega e tra gli estensori materiali del contratto con Di Maio e i suoi, ha ribadito lo stesso concetto espresso dal suo leader: o si mettono in discussione i parametri europei, o non ha senso parlare di nulla, perché nessuna politica (di destra, di sinistra, di sgravi fiscali, di investimenti, di copertura sociale) sarà mai attuabile finché le manovre sono scritte da Bruxelles. «Se partiamo, deve essere chiarissimo che abbiamo le risorse per fare le cose, che i soldi ci devono essere e che i trattati Ue vanno ridiscussi. Se su questo la posizione del Movimento combaciasse con la nostra, non avremmo punti rossi. Ma deve essere chiaro che serve accordo anche sui metodi, e i metodi passano anche per la revisione dei trattati». In questo senso, dunque, sta ai partiti imboccare un primo bivio. Non a caso, Giorgia Meloni ha spiegato: «Penserò a un ingresso in questo governo se rompe con gli schemi del passato, con i diktat dell'Europa». A valle di questo bivio, ci sono poi le influenze dei singoli Paesi per i quali, vivaddio, l'Italia non è una mera espressione geografica abitata da dissoluti appesantiti dal fardello del debito pubblico, ma una nazione ben più ricca, strategica e interessante di quanto molta nostra classe politica paia intenzionata a far credere. Il pressing degli altri Paesi (che si riscontra facilmente sulle pagine del Financial Times di ieri, con l'editoriale sui «nuovi barbari»), oltre che quello delle élite europee, sta entrando anche in queste trattative, ed è uno degli elementi più netti di distinzione tra i due «contraenti» attuali.L'establishment dei 5 stelle è in sintonia con la City di Londra, dove Gianroberto Casaleggio ha lavorato (alla Logica), e dove ha sposato una linguista. Qui Di Maio ha incontrato in campagna elettorale un nutrito gruppo di fondi detentori del debito pubblico italiano. Primo problema: da quando alla Casa Bianca c'è Donald Trump, essere anglofili non si porta molto con l'essere vicini a questa amministrazione Usa. La partecipazione di Theresa May all'asse con Emmanuel Macron e Angela Merkel contro i dazi americani rende plasticamente l'idea (così come la sberla all'Ue da parte del Wto, arrivata giusto ieri sull'affare Airbus). Gli occhieggiamenti grillini con lo stesso Macron, poi, sono storia recente, con il più volte sbandierato tentativo di aggregare la delegazione degli europarlamentari grillini a quella della formazione macroniana a Strasburgo. A fronte di questo la Lega è, semplificando molto, con Trump e non condivide la percezione della Russia come nemico (sul tema, per esempio, cade l'equazione che allinea tutti i «populismi»), il che rende altamente problematica la trattazione di alcuni punti geopoliticamente strategici (difesa, nodo F35, dazi, Finmeccanica, Fincantieri, posizionamento rispetto a Francia e Germania). Questi nodi, che sfuggono alla narrativa media dei due pasticcioni populisti al tavolo incapaci di concludere alcunché, rappresenta forse una chiave di lettura più interessante. Di sicuro, pone alla ribalta un quesito completamente obliterato negli ultimi sette anni, se non forse di più: il dogma del «vincolo esterno» è compatibile con l'interesse nazionale? E chi viene eletto, quale è tenuto a perseguire?Martino Cervo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutti-gli-interessi-stranieri-nella-trattativa-2569128259.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ce-un-raduno-di-grillini-macroniani" data-post-id="2569128259" data-published-at="1764967510" data-use-pagination="False"> C'è un raduno di grillini macroniani Mentre Lega e Movimento 5 stelle sudano per cercare di trovare una quadra a programmi che in realtà sembrano sempre più distanti, le influenze esterne e le pressioni dall'estero per formare un governo che sia il più possibile simile a quello «neutro» d'impronta mattarelliana si fanno sempre più forti. Soprattutto il M5s dimostra di possedere diverse anime. Una molto attenta al patto atlantico e agli equilibri americani (anche se non incline al trumpismo) e l'altra molto vicina alle forze e all'intellighenzia filofrancese. Quest'ultima si è data appuntamento il prossimo 30 maggio alla Luiss, probabilmente per fare il punto della situazione. L'appuntamento si chiama «Dialoghi italofrancesi per l'Europa» e si concentra su tre temi principali: comunicazione, editoria e telecomunicazioni. Tra i partecipanti spiccano i nomi di Emma Marcegaglia, Paola Severino, Enrico Letta, Giampiero Massolo e Fabio Corsico sul fronte italiano. Poi c'è la schiera delle Gallie riunite che comprende figure come Xavier Niel, Gilles Pecout (rettore dell'Academie de Paris), Arnaud de Puyfontaine (presidente di Vivendi), Monunir Mahjuobi (segretario di Stato) e il politilogo Jean-Paul Fitoussi. Non è tra l'altro difficile immaginare che cosa dirà Fitoussi, visto che l'economista francese si è già espresso chiaramente in una intervista al Quotidiano nazionale. «Un governo gialloverde in Italia non piace né a me, né a Emmanuel Macron, né ad Angela Merkel, né all'Europa. Ma se nascerà, sarà un governo legittimo e l'Europa dovrà rispettarlo. Di una cosa comunque sono certo», ha proseguito il politologo, «qualunque cosa succeda, l'Italia non uscirà dall'Ue: è interesse suo e della stessa Europa. Il nuovo governo italiano, sovranista o no, non potrà sottrarsi a questa evidenza». Fitoussi ha tenuto a spiegare che prima di tutto dovrebbe venire la democrazia: «La nascita di un governo in Italia è un affare che riguarda l'Italia e basta. E anche se altri avrebbero preferito una soluzione diversa, dovranno rispettare la scelta del popolo italiano. Il nuovo governo dovrà essere accolto degnamente in seno al Consiglio europeo: è la regola democratica. Il che non impedisce che ci poniamo delle domande: questo governo sarà in grado di governare? Con quale programma? In quali condizioni? Per quanto tempo?». Il messaggio è chiaro. Il governo Lega-M5s va bene a determinate condizioni, ovvero purché non rompa l'equilibrio prestabilito. Un equilibrio su cui la Francia ha investito molto e per il quale non vorrebbe feroci cambi di rotta. Già la finanza bretone nelle ultime settimane è stata vittima del riassetto politico a Roma. Una vicenda su tutte è quella che tocca Tim. Non a caso il tema dell'incontro di fine maggio riguarda pure le telecomunicazioni. La presenza dell'ex presidente di Tim e ora consigliere rappresentante di Vivendi riporta al futuro della banda larga in Italia ma soprattutto ai rapporti con il fondo americano Elliott, che dalla data del 4 maggio scorso ha preso il controllo relativo dell'azienda. Restano da definire le mosse dell'azionista «di minoranza» così come il ruolo di Cassa depositi e prestiti all'interno dell'azienda di telecomunicazioni. La riunione in massa alla Luiss dimostra che i colpi ricevuti possono rivelarsi una moda estemporanea. Le partite europee più importanti per l'Ue passano ancora per Parigi e molte riguardano la Difesa comune e la nostra industria bellica, come conferma la presenza in prima fila del presidente di Fincantieri, Giampiero Massolo, per diversi giorni candidato premier almeno prima di ricevere il niet di Matteo Salvini.Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutti-gli-interessi-stranieri-nella-trattativa-2569128259.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-falchi-di-bruxelles-ci-attaccano-su-immigrazione-e-conti-pubblici" data-post-id="2569128259" data-published-at="1764967510" data-use-pagination="False"> I falchi di Bruxelles ci attaccano su immigrazione e conti pubblici Proprio come gli indovini dell'antica Roma, che si sforzavano di predire il futuro studiando il volo degli uccelli o - in modo più macabro - esaminando le viscere di qualche animale sacrificato, allo stesso modo troppi «esperti» (veri, presunti e aspiranti) cercano di intuire i destini dell'Italia attraverso una lettura febbrile dei media internazionali, dei grandi giornali stranieri, o più spesso selezionando furbescamente ciò che conferma i loro pregiudizi, i loro desideri, i loro schemini precostituiti. Ieri mattina, ce n'era per tutti i gusti, in un senso e nell'altro. Da un lato, un articolo feroce sul Financial Times: Matteo Salvini e Luigi Di Maio descritti come i «barbari alle porte», anzi già dentro le mura di Roma. Inutile girarci intorno: una stroncatura di rara durezza. Dall'altro, esattamente all'opposto, un commento positivo sul Telegraph: sì, i populisti saranno pure quello che saranno, ma l'Italia è da anni bloccata tra disoccupazione alta e crescita bassa, e quindi non possono esserne incolpati i nuovi protagonisti, che invece andrebbero incoraggiati. Morale del commento: non è affatto detto che i mercati si rivelino pregiudizialmente ostili a Lega-M5s, ammesso che il loro tentativo vada in porto. Forse, proprio a partire dall'analisi più dubbiosa e equilibrata del Telegraph, è il caso di riflettere in modo adulto e meno irrazionale sui fantomatici «mercati». È ovvio che, con il terzo debito pubblico del mondo, non possiamo permetterci di «fare i fenomeni». I numeri parlano fin troppo chiaro: 2.300 miliardi di stock complessivo di debito (il 130% del Pil), oltre 400 miliardi l'anno di titoli da rinnovare, un conto di interessi annuali da circa 70 miliardi. È evidente che chiunque sia a Palazzo Chigi non possa trascurare i ragionamenti e gli umori di chi quei titoli dovrà acquistarli. E questo è indubbiamente un argomento forte per il vecchio establishment italiano, abituatosi da anni all'«usato sicuro» dei governi tecnici, degli esecutivi «neutrali», per non dire dei viceré italiani di Parigi e Berlino. Tutta gente che da anni ha rinunciato perfino alla speranza di un'Italia forte, protagonista, competitiva: nella migliore delle ipotesi, si tratta di dignitosi gestori del declino italiano. Ai quali ieri mattina è giunto come un balsamo l'avvertimento del vicepresidente della Commissione europea con delega all'euro Valdis Dombrovskis (seguito a ruota dal collega, con delega al Lavoro, Jyrki Katainen) che, citando esplicitamente il presidente Sergio Mattarella e facendo sponda con lui, ha sollecitato l'Italia a mantenere gli impegni finanziari con l'Ue: «Il prossimo governo deve continuare a ridurre deficit e debito». Katainen, tanto per dare un altro segnale di ostilità, ha aggiunto: «Le regole del Patto di stabilità si applicano a tutti gli Stati membri e non ho segnali che la Commissione concederà eccezioni a chiunque». Tra parentesi, è bastata un'altra mezz'ora da queste dichiarazioni per trovare sulle agenzie anche l'immancabile Dimistris Avramopoulos, il Commissario Ue per l'immigrazione, che si è affrettato ad augurarsi che «l'Italia non cambi la sua politica sui migranti». A tutti costoro però va contrapposta una replica forte e argomentata, senza timori reverenziali. I mercati, al di là di inevitabili momenti di emotività, sono estremamente razionali, e considerano freddamente due elementi. Primo: il governo che si insedierà sarà stabile o invece durerà lo spazio di un mattino? Secondo (fattore decisivo): ci sarà o non ci sarà un ritorno sostenuto alla crescita? In caso positivo, allora si potrà anche chiudere un occhio su un qualche sforamento, su un po' di deficit, su una forzatura delle regole brussellesi. In quel caso, cioè con una crescita vibrante e un ritorno a tassi di occupazione più rassicuranti, nessuno oserà dire una parola contro Roma. Se invece non ci sarà un vero ritorno alla crescita, allora è scontato che anche i mercati finiscano per ritenere che il male minore sia rappresentato dalla solita minestrina preparata da anni nelle cucine del Quirinale: un governicchio con il pilota automatico, un'Italia ingabbiata nella prigione degli «zero virgola», tra manovrine e piccole concessioni della Commissione Ue, solo per tirare avanti e garantire l'emissione regolare dei titoli. Ecco perché, comunque la si pensi, occorrerebbe insistere su misure capaci di riportarci a tassi di crescita adeguati, a partire da un taglio-shock delle tasse per tutti, individui e famiglie, imprese e lavoratori, proprietà immobiliare e risparmio. È su questo che Salvini e Di Maio farebbero bene a riflettere, per dare luce rossa o luce verde al loro tentativo. Ed è ovviamente ancora su questo, se naufragasse il tentativo M5S-Lega, che dovrebbe concentrarsi il centrodestra nella prossima campagna elettorale. Il resto conta molto meno. Daniele Capezzone
Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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Ecco #DimmiLaVerità del 5 dicembre 2025. Il senatore Gianluca Cantalamessa della Lega commenta il caso dossieraggi e l'intervista della Verità alla pm Anna Gallucci.