Tutti gli interessi stranieri per far fallire la trattativa Lega-5 stelle

- A negoziare non sono solo due partiti distinti ma due diverse visioni della collocazione dell'Italia nel mondo. I grillini sono più vicini alla filiera anglo-francese, il Carroccio a quella americana. Le frizioni sul rispetto dei trattati Ue e i nodi geopolitici nascono da questo.
- Quella orientata verso Parigi è tra le correnti più solide nel M5s. Il 30 maggio un summit nel quale si parlerà degli interessi francesi nelle nostre telecomunicazioni e industrie.
- Con sincronia inquietante, ben tre commissari europei lanciano avvertimenti e minacce al Paese. Sull'economia: «Tagliare debito e deficit, nessuna deroga al Patto di stabilità». E chiedono di continuare a subire gli sbarchi.
Lo speciale contiene tre articoli.
C'è un modo di guardare alla complicata trattativa tra Lega e 5 stelle che non esce dalla dialettica interna: le differenze ideologiche, gli scontri di potere, la battaglia sul premier e dei ministri. Ce n'è un altro, non necessariamente opposto ma complementare, che apre lo sguardo alla politica estera, e spiega uno scontro in atto che si allarga al Quirinale e vede l'Italia come terreno di scontro di forze maggiori rispetto a quelle che il perimetro nazionale, e un certo pregiudizio morale espresso da quasi tutti i commentatori, permettono di cogliere.
Un assaggio evidente viene dalla cronaca di ieri, con le istituzioni comunitarie che hanno fatto capire chiaramente cosa si aspettino da qualunque governo italiano. Curiosamente, i due nodi esplicitati dai commissari europei ieri mattina sono tra quelli citati da Matteo Salvini come più delicati della trattativa con i grillini: i vincoli economici europei e i flussi migratori. Maastricht e Schengen. I due cardini del «vincolo esterno» sono le vere morse ai garretti del governo Lega-grillini. E anche il balletto sul corpaccione politicamente defunto del professor Giulio Sapelli viene danzato sulle stesse note. «Il veto su di me è arrivato dall'asse Mattarella-Di Maio», scandisce il loquace docente, che in radio a Massimo Giannini spiega: «Lo stop non è arrivato dal Quirinale ma sul Quirinale, dalle oligarchie europee. E il Quirinale ha recepito». «Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha posto alcun veto o diniego sul professor Sapelli per la semplice circostanza che nessuno, né prima né durante le consultazioni, gli ha mai proposto, direttamente o indirettamente, il suo nome». Ormai il corto circuito logico è totale. Perché se è verissimo che l'incarico è una prerogativa del Colle, poi non si può rimproverare ai leader di partito di non averla esercitata. Ma dietro il battibecco c'è la sostanza: spogliato da un linguaggio che presta il fianco ad accuse di complottismo, Sapelli parla di influenza esterna, tesa a impedire che l'Italia metta in discussione i vincoli di bilancio: «Ho letto il programma della Lega e dei grillini, mi è sembrato molto ragionevole. E aveva come inizio la conditio sine qua non per salvare questo Paese dalla catastrofe: rinegoziare i trattati europei. Una rinegoziazione senza strappi unilaterali, per eliminare il fiscal compact o almeno attutirne le conseguenze. Su questo punto sono d'accordo non al cento ma al mille per cento». Sapelli ha scodellato anche un'immagine efficace non da poco, che illumina la contrattazione tra Lega e 5 stelle: il Carroccio è a suo dire «un partito», i grillini un «movimento peristaltico», che non riesce a reggere a questo pressing di «eurocrati non eletti da nessuno» (copyright Di Maio, ieri).
Quando, pochi giorni fa, i grillini hanno rassicurato sul rispetto dell'1,5% nel rapporto deficit/Pil (forse non percependone l'impatto reale), Salvini è andato su tutte le furie. Ieri mattina Claudio Borghi, responsabile economico della Lega e tra gli estensori materiali del contratto con Di Maio e i suoi, ha ribadito lo stesso concetto espresso dal suo leader: o si mettono in discussione i parametri europei, o non ha senso parlare di nulla, perché nessuna politica (di destra, di sinistra, di sgravi fiscali, di investimenti, di copertura sociale) sarà mai attuabile finché le manovre sono scritte da Bruxelles. «Se partiamo, deve essere chiarissimo che abbiamo le risorse per fare le cose, che i soldi ci devono essere e che i trattati Ue vanno ridiscussi. Se su questo la posizione del Movimento combaciasse con la nostra, non avremmo punti rossi. Ma deve essere chiaro che serve accordo anche sui metodi, e i metodi passano anche per la revisione dei trattati».
In questo senso, dunque, sta ai partiti imboccare un primo bivio. Non a caso, Giorgia Meloni ha spiegato: «Penserò a un ingresso in questo governo se rompe con gli schemi del passato, con i diktat dell'Europa». A valle di questo bivio, ci sono poi le influenze dei singoli Paesi per i quali, vivaddio, l'Italia non è una mera espressione geografica abitata da dissoluti appesantiti dal fardello del debito pubblico, ma una nazione ben più ricca, strategica e interessante di quanto molta nostra classe politica paia intenzionata a far credere. Il pressing degli altri Paesi (che si riscontra facilmente sulle pagine del Financial Times di ieri, con l'editoriale sui «nuovi barbari»), oltre che quello delle élite europee, sta entrando anche in queste trattative, ed è uno degli elementi più netti di distinzione tra i due «contraenti» attuali.
L'establishment dei 5 stelle è in sintonia con la City di Londra, dove Gianroberto Casaleggio ha lavorato (alla Logica), e dove ha sposato una linguista. Qui Di Maio ha incontrato in campagna elettorale un nutrito gruppo di fondi detentori del debito pubblico italiano. Primo problema: da quando alla Casa Bianca c'è Donald Trump, essere anglofili non si porta molto con l'essere vicini a questa amministrazione Usa. La partecipazione di Theresa May all'asse con Emmanuel Macron e Angela Merkel contro i dazi americani rende plasticamente l'idea (così come la sberla all'Ue da parte del Wto, arrivata giusto ieri sull'affare Airbus). Gli occhieggiamenti grillini con lo stesso Macron, poi, sono storia recente, con il più volte sbandierato tentativo di aggregare la delegazione degli europarlamentari grillini a quella della formazione macroniana a Strasburgo.
A fronte di questo la Lega è, semplificando molto, con Trump e non condivide la percezione della Russia come nemico (sul tema, per esempio, cade l'equazione che allinea tutti i «populismi»), il che rende altamente problematica la trattazione di alcuni punti geopoliticamente strategici (difesa, nodo F35, dazi, Finmeccanica, Fincantieri, posizionamento rispetto a Francia e Germania).
Questi nodi, che sfuggono alla narrativa media dei due pasticcioni populisti al tavolo incapaci di concludere alcunché, rappresenta forse una chiave di lettura più interessante. Di sicuro, pone alla ribalta un quesito completamente obliterato negli ultimi sette anni, se non forse di più: il dogma del «vincolo esterno» è compatibile con l'interesse nazionale? E chi viene eletto, quale è tenuto a perseguire?
Martino Cervo
C'è un raduno di grillini macroniani
I falchi di Bruxelles ci attaccano su immigrazione e conti pubblici
Proprio come gli indovini dell'antica Roma, che si sforzavano di predire il futuro studiando il volo degli uccelli o - in modo più macabro - esaminando le viscere di qualche animale sacrificato, allo stesso modo troppi «esperti» (veri, presunti e aspiranti) cercano di intuire i destini dell'Italia attraverso una lettura febbrile dei media internazionali, dei grandi giornali stranieri, o più spesso selezionando furbescamente ciò che conferma i loro pregiudizi, i loro desideri, i loro schemini precostituiti.
Ieri mattina, ce n'era per tutti i gusti, in un senso e nell'altro. Da un lato, un articolo feroce sul Financial Times: Matteo Salvini e Luigi Di Maio descritti come i «barbari alle porte», anzi già dentro le mura di Roma.
Inutile girarci intorno: una stroncatura di rara durezza. Dall'altro, esattamente all'opposto, un commento positivo sul Telegraph: sì, i populisti saranno pure quello che saranno, ma l'Italia è da anni bloccata tra disoccupazione alta e crescita bassa, e quindi non possono esserne incolpati i nuovi protagonisti, che invece andrebbero incoraggiati. Morale del commento: non è affatto detto che i mercati si rivelino pregiudizialmente ostili a Lega-M5s, ammesso che il loro tentativo vada in porto.
Forse, proprio a partire dall'analisi più dubbiosa e equilibrata del Telegraph, è il caso di riflettere in modo adulto e meno irrazionale sui fantomatici «mercati». È ovvio che, con il terzo debito pubblico del mondo, non possiamo permetterci di «fare i fenomeni». I numeri parlano fin troppo chiaro: 2.300 miliardi di stock complessivo di debito (il 130% del Pil), oltre 400 miliardi l'anno di titoli da rinnovare, un conto di interessi annuali da circa 70 miliardi. È evidente che chiunque sia a Palazzo Chigi non possa trascurare i ragionamenti e gli umori di chi quei titoli dovrà acquistarli.
E questo è indubbiamente un argomento forte per il vecchio establishment italiano, abituatosi da anni all'«usato sicuro» dei governi tecnici, degli esecutivi «neutrali», per non dire dei viceré italiani di Parigi e Berlino. Tutta gente che da anni ha rinunciato perfino alla speranza di un'Italia forte, protagonista, competitiva: nella migliore delle ipotesi, si tratta di dignitosi gestori del declino italiano.
Ai quali ieri mattina è giunto come un balsamo l'avvertimento del vicepresidente della Commissione europea con delega all'euro Valdis Dombrovskis (seguito a ruota dal collega, con delega al Lavoro, Jyrki Katainen) che, citando esplicitamente il presidente Sergio Mattarella e facendo sponda con lui, ha sollecitato l'Italia a mantenere gli impegni finanziari con l'Ue: «Il prossimo governo deve continuare a ridurre deficit e debito». Katainen, tanto per dare un altro segnale di ostilità, ha aggiunto: «Le regole del Patto di stabilità si applicano a tutti gli Stati membri e non ho segnali che la Commissione concederà eccezioni a chiunque». Tra parentesi, è bastata un'altra mezz'ora da queste dichiarazioni per trovare sulle agenzie anche l'immancabile Dimistris Avramopoulos, il Commissario Ue per l'immigrazione, che si è affrettato ad augurarsi che «l'Italia non cambi la sua politica sui migranti».
A tutti costoro però va contrapposta una replica forte e argomentata, senza timori reverenziali. I mercati, al di là di inevitabili momenti di emotività, sono estremamente razionali, e considerano freddamente due elementi. Primo: il governo che si insedierà sarà stabile o invece durerà lo spazio di un mattino? Secondo (fattore decisivo): ci sarà o non ci sarà un ritorno sostenuto alla crescita? In caso positivo, allora si potrà anche chiudere un occhio su un qualche sforamento, su un po' di deficit, su una forzatura delle regole brussellesi. In quel caso, cioè con una crescita vibrante e un ritorno a tassi di occupazione più rassicuranti, nessuno oserà dire una parola contro Roma. Se invece non ci sarà un vero ritorno alla crescita, allora è scontato che anche i mercati finiscano per ritenere che il male minore sia rappresentato dalla solita minestrina preparata da anni nelle cucine del Quirinale: un governicchio con il pilota automatico, un'Italia ingabbiata nella prigione degli «zero virgola», tra manovrine e piccole concessioni della Commissione Ue, solo per tirare avanti e garantire l'emissione regolare dei titoli.
Ecco perché, comunque la si pensi, occorrerebbe insistere su misure capaci di riportarci a tassi di crescita adeguati, a partire da un taglio-shock delle tasse per tutti, individui e famiglie, imprese e lavoratori, proprietà immobiliare e risparmio. È su questo che Salvini e Di Maio farebbero bene a riflettere, per dare luce rossa o luce verde al loro tentativo.
Ed è ovviamente ancora su questo, se naufragasse il tentativo M5S-Lega, che dovrebbe concentrarsi il centrodestra nella prossima campagna elettorale. Il resto conta molto meno.
Daniele Capezzone






