
La Casa Bianca cerca da mesi di ribaltare gli equilibri sciiti. Con l'appoggio dell'Arabia Saudita e Israele prova cresce l'opposizione al regime di Teheran. Il primo punto sull'agenda di Washington è l'addio al patto nucleare con gli ayatollah. Tutti gli indicatori geopolitici fanno ritenere che Donald Trump stia davvero meditando di tentare il colpaccio con l'Iran. È dalla campagna elettorale che Trump nega l'efficacia dell'accordo (Jcpoa) sul nucleare sottoscritto dai cinque membri permanenti delle Nazioni Unite e dalla Germania con l'Iran nel 2015, premendo affinché s'inaspriscano le limitazioni temporali e le sanzioni al programma missilistico di Teheran. In vista del 12 maggio, giorno in cui la Casa Bianca dovrebbe decidere in maniera definitiva sul suo sostegno all'accordo, qualora Francia, Germania e Gran Bretagna non presentino delle proposte di modifica accettabili, lo scenario che si sta delineando lascia presagire novità importanti. Dopo la disastrosa gestione Obama del Medioriente, che ha scatenato l'instabilità della regione, il presidente americano sta riportando ordine strategico. Rassicurando da mesi gli alleati storici, Donald Trump sta riposizionato gli Usa all'interno dei suoi caratteristici schemi di gestione globale. In tal senso la rinnovata amicizia con l'Arabia Saudita coronata dai recenti, fruttuosi incontri con il principe ereditario Mohammad Bin Salman, la confermata vicinanza a Israele e l'avvicinamento strategico della Francia alle posizioni di Washington, culminato nel ricevimento di Emmanuel Macron, avvenuto con i massimi onori, alla Casa Bianca a cui è seguito il disastroso colloquio di Trump con Angela Merkel, delineano le linee guida del presidente americano. Angela Merkel è oramai l'anti Trump. Essa, oltre a rappresentare per gli Usa il temuto egemone europeo, è vicina a Teheran in quanto l'accordo Jcpoa ha permesso alla Germania di ricatapultarsi in Medioriente. Macron comprendendo l'opportunità di porsi come futuro alleato di riferimento nell'Unione europea, scavalcando la leadership tedesca menomata anche dall'impossibilità di presentarsi come potenza militare a causa della sua storia, si è definitivamente avvicinato a Trump sostenendolo nel recente bombardamento della Siria e lasciando intendere durante la visita a Washington che i dispositivi del trattato con l'Iran potrebbero essere ridiscussi. Il percorso di preparazione alla fase finale dello scontro è stata puntellata dalla fine del 2017 da diversi eventi tatticamente fondamentali per arrivare al completo accerchiamento di Teheran. Innanzitutto, come confermato dall'incontro tra Kim Jong Un e Moon Jae In, Trump è riuscito a isolare la Corea del Nord, sospettata d'essere il vero implementatore del programma nucleare militare dell'Iran di Hassan Rouhani, e con il recente bombardamento della Siria - durante il quale sono stati uccisi decine di soldati iraniani e abbattute le loro difese antiaeree - a ritrovare l'obbedienza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha perfino pubblicamente plaudito all'azione. Nel vuoto creato da Barack Obama, Erdogan ha tentato, avvicinandosi alla Russia, di ritagliarsi una propria autonomia dalla cornice dell'Alleanza atlantica nella quale sta però ora lentamente rientrando constatando la fermezza d'intenti degli Stati Uniti. A tutto ciò si deve aggiungere il sostegno americano all'Arabia Saudita nella lotta contro gli sciiti dello Yemen, i chiari segnali di indisponibilità al compromesso inviati a Vladimir Putin con l'uccisione a febbraio di almeno 200 paramilitari russi armati di artiglieria pesante e carri armati avvenuta in Siria e candidamente ammessa addirittura dal segretario alla Difesa, James Mattis, affinché servisse di monito a chiunque pensasse di provocare gli interessi del suo Paese. Leggi anche: La minaccia di nuove sanzioni da parte di Trump fa crollare la moneta iraniana La nomina del falco John Bolton, vicino a Israele e da sempre nemico dell'Iran, a consigliere per la sicurezza nazionale e a segretario di Stato di Mike Pompeo, ex capo della Cia che in passato ha definito Obama un musulmano comunista e che a Pasqua ha fatto visita al dittatore della Nord Corea convincendolo a passare di fronte, rientrano perfettamente nel quadro di riassestamento in corso. A conferma di ciò, a poche ore dalla sua nomina il nuovo segretario di Stato è volato in Medioriente a far visita alle capitali amiche, ma soprattutto a rassicurare il leader israeliano Benjamin Netanyahu che gli Usa sostengono i bombardamenti portati innanzi nelle ultime settimane da Israele in Siria contro le postazioni iraniane e sul fatto che condividono la preoccupazione sulle ambizioni egemoniche del'Iran. Un punto di vista da sempre sostenuto dall'uomo che Trump tante volte ha incontrato in passato e di cui sta seguendo alla lettera i pensieri palesati nei suoi libri, Henry Kissinger. Il passaggio di Pompeo da Israele e la contemporanea dichiarazione di Nethanyahu sul fatto che questi sia in possesso di documenti segreti comprovanti il fatto che Teheran non abbia mai interrotto il proprio programma d'arricchimento dell'uranio a scopi militari certamente non può interpretarsi come un caso. Tra Washington e Teheran i conti sono aperti dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979. L'opposizione alla Repubblica islamica è un tema che accomuna democratici, repubblicani e gran parte degli apparati di sicurezza e intelligence. Il presidente americano sta certamente rinsaldando le file in politica interna e in politica estera la sua asprezza retorica, tanto invisa al mondo diplomatico europeo, unita all'inflessibilità delle decisioni politiche sta dando i frutti sperati. Certamente non è un caso che dalla fine del 2017 le proteste contro il regime degli ayatollah guidati da Ali Khamenei, nonostante il silenzio dei media, siano in esponenziale aumento. Quasi sempre negli ultimi 30 anni tali manifestazioni nel Paese sciita sono state preparate dai servizi americani divenendo il preludio a qualche tentativo di destabilizzazione. Per ora il successo non ha arriso agli States, ma a questo punto è chiaro che Washington, Gerusalemme, Riad e, anche se a rimorchio, Parigi hanno un piano. Se il piano prevede anche l'opzione estrema del cambio di regime l'unico momento in cui Trump può tentarlo è ora, prima di passare la linea rossa della metà del mandato presidenziale. Servirebbe solo una buona scusa.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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