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2024-07-26
Dazi sulle auto prodotte in Messico. Trump «vuole» le fabbriche cinesi
Donald Trump (Getty Images)
Alla convention del Partito repubblicano della settimana scorsa, che lo ha designato quale candidato alle elezioni per la Casa Bianca, Donald Trump ha parlato di nuovo di dazi sulle importazioni di automobili, ma ha aperto alla possibilità di investimenti cinesi negli Stati Uniti. «Grandi fabbriche vengono costruite oltre confine in Messico» dalla Cina per produrre auto da vendere negli Stati Uniti, ha detto Trump. «Quegli impianti saranno costruiti negli Stati Uniti e la nostra gente gestirà quegli impianti», ha detto, aggiungendo che, altrimenti, avrebbe imposto tariffe fino al 200% su ogni auto per impedirne l’ingresso nel Paese. Concetti già espressi nel marzo scorso durante un comizio in Ohio, la cui sintesi era: metterò forti dazi sull’import, ma se i cinesi vogliono aprire qui le loro fabbriche, sono i benvenuti.
La cosa può risultare sorprendente e in effetti lo è, in un certo senso. L’eventualità di fabbriche appartenenti ad aziende cinesi in territorio statunitense solleva a Washington molti dubbi sul tema della sicurezza nazionale, ad esempio. A parte ciò, esiste anche la possibilità che si tratti solo di una boutade elettorale, estratta dal cilindro per accaparrarsi i voti dei colletti blu della cosiddetta rust belt, cuore (malato) dell’industria americana. C’è dietro altro? È possibile che la proposta di Trump non sia poi così peregrina?
Per capirlo occorre guardare alla situazione del mercato americano dell’auto e agli scambi internazionali. Nel settore auto, gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale che, nel 2022, era di 103 miliardi di dollari. «L’arrivo di auto low cost prodotte in Messico da aziende cinesi, che costano poco perché finanziate dal governo di Pechino, rischia di portare il settore automotive americano all’estinzione», aveva scritto pochi mesi fa la Alliance for american manufacturing (Aam), l’associazione degli industriali dell’auto statunitense. La Aam ha chiesto al governo di bloccare l’importazione delle auto cinesi dal Messico, che sono «una backdoor commerciale per le importazioni cinesi».
Oggi negli Usa le «big three» di Detroit (General Motors, Ford e Stellantis) hanno una quota del 40%, mentre il resto del mercato è in gran parte in mano a costruttori giapponesi, coreani ed europei. L’import americano di auto dalla Cina, a oggi, è del tutto trascurabile. Su 12,3 milioni di veicoli immatricolati negli Usa nel 2023, circa 2,6 milioni sono stati, invece, importati dal vicino Messico, che risulta essere il maggior fornitore del mercato statunitense (seguono Giappone, Canada, Sud Corea e Germania). Il trattato di libero scambio del Nord America consente di esportare negli Usa senza diritti di dogana, ragion per cui quasi tutti i maggiori marchi automobilistici mondiali impegnati sul mercato statunitense hanno aperto in Messico le proprie fabbriche, per avvantaggiarsi dei costi del lavoro più bassi e della fitta rete di accordi di libero scambio messicana.
Altrettanto sta facendo la Cina, con Byd intenzionata ad aprire una fabbrica di assemblaggio delle proprie auto da vendere poi negli Stati Uniti (e non solo). Rispetto a questa situazione, Trump intende cambiare le cose, imponendo un dazio del 200% sulle auto cinesi alla frontiera con il Messico. Per farlo, però, dovrebbe applicare un dazio specifico, poiché anche i marchi americani (e gli altri marchi stranieri) importano negli Usa dalle proprie fabbriche delocalizzate in Messico.
A meno che il disegno sia di far rimpatriare anche le case automobilistiche statunitensi, cosa che, pur irta di difficoltà politiche, avrebbe senso. Ciò detto, un dazio al 200% renderebbe praticamente impossibile competere sul mercato americano per qualunque casa automobilistica. Dall’altra parte, l’apertura di fabbriche d’auto cinesi in territorio americano porterebbe almeno tre vantaggi: creare lavoro per gli operai americani, portare profitti alle banche americane che forniscono gli investimenti e, in condizioni normali, far crescere il Pil statunitense.
Tutto ciò è ancora più vero se fossero costrette allo stesso iter anche le altre aziende asiatiche ed europee. Gli investimenti diretti all’estero (Ide), quali questi sarebbero, darebbero luogo a profitti che entrerebbero con segno meno nella bilancia dei pagamenti Usa, appesantendo il saldo negativo. Ma il ragionamento di Trump (o, più probabilmente, di Robert Lighthizer, consigliere dell’ex presidente) probabilmente è questo: gli Usa hanno un saldo pesantemente negativo della bilancia commerciale sia con la con la Cina sia con il Messico (rispettivamente di -279 e -152 miliardi di dollari nel 2023). Spostare la voce «automobili» dal conto delle partite correnti (dove è la bilancia commerciale delle merci) al conto capitale e finanziario (dove transitano i profitti verso l’estero) avrebbe un effetto positivo sulla bilancia dei pagamenti. Anziché pesare a valore pieno sulla bilancia commerciale dei beni importati, vi sarebbe solo un deflusso dei profitti finanziari generati negli Usa verso l’estero. In estrema sintesi, qualche americano in più lavora (e qualche cinese in meno), il Pil americano cresce, le entrate fiscali americane anche e il disavanzo commerciale degli Usa si riduce.
L’operazione è certo complessa, con diverse incognite e con qualche possibile conseguenza, però non è affatto impossibile. Rimpatriare dal Messico capacità produttiva darebbe spinta al Pil degli Usa e creerebbe lavoro. Non è detto che tutto ciò sia solo campagna elettorale, potrebbe diventare il new normal nel caso di una vittoria di Trump il prossimo novembre.
«Sono il migliore, quindi mi ritiro»
Ha avuto un che di surreale il discorso con cui Joe Biden ha parlato per la prima volta della sua decisione di ritirarsi dalla campagna elettorale. Pensiamo innanzitutto alla tempistica. Dopo aver annunciato la sua decisione domenica con un comunicato stringato, il presidente ha aspettato fino a mercoledì sera per affrontare la questione: ovviamente senza ricorrere a una conferenza stampa, dove i giornalisti avrebbero potuto metterlo sotto pressione.In secondo luogo, Biden non ha chiarito granché le motivazioni del suo gesto. «Credo che il mio curriculum da presidente, la mia leadership nel mondo, la mia visione del futuro dell’America meritassero tutti un secondo mandato, ma niente può ostacolare la salvezza della nostra democrazia e questo include l’ambizione personale», ha detto, per poi aggiungere: «Ho deciso che il modo migliore per procedere è passare il testimone a una nuova generazione: è il modo migliore per unire la nostra nazione». Insomma, prima ha detto di essersi sentito in grado di reggere un secondo mandato. Poi però ha aggiunto che, in nome dell’unità nazionale, ha deciso di «passare il testimone». Peccato che non abbia esplicitato il perché della sua scelta.Non è d’altronde un mistero che Biden abbia cercato di resistere in tutti i modi alle pressioni di chi voleva un suo passo indietro. Trasparenza avrebbe voluto che il presidente chiarisse apertamente la motivazione che lo ha spinto a cambiare idea. Ma non l’ha fatto. Il che aumenta l’opacità con cui il Partito democratico ha gestito il suo siluramento. Il terzo aspetto problematico è che, nel suo discorso, Biden ha reso noto di voler portare a termine il proprio mandato presidenziale. Ma allora, nuovamente, per quale motivo si è ritirato dalla campagna elettorale? Il paragone con Lyndon Johnson non regge. In primis, Johnson, nel 1968, si ritirò a marzo e non a fine luglio. Inoltre, fece un passo indietro per ll’impopolarità che lo perseguitava a causa della guerra in Vietnam e giustificò il proprio addio elettorale dicendo di voler avere le mani libere per occuparsi di quel conflitto.Biden, invece, è finito sotto pressione a causa delle sue precarie condizioni psicofisiche. Condizioni che tuttavia, nel suo discorso, il diretto interessato non ha citato. I casi sono due. O Biden ritiene di essere sano (e allora perché si tira indietro? oppure sa di essere malato (e allora perché rifiuta di dimettersi da presidente?).Nel suo discorso ha parlato anche di «difesa della democrazia». Eppure ha appena ceduto a una manovra di palazzo che ha bellamente bypassato le primarie. Primarie che, in una lettera scritta tre settimane fa ai parlamentari dem, il presidente rivendicava di aver vinto, respingendo le richieste di un passo indietro. «Gli elettori del Partito democratico hanno votato. Mi hanno scelto come candidato del partito», scrisse. Adesso si è rimangiato tutto. Si è ritirato dalla campagna senza spiegare il motivo e, anziché invocare un processo aperto per la scelta del sostituto, ha dato l’endorsement a Kamala Harris, spianando così la strada a una sorta di successione dinastica. Né vale parlare di «emergenza». Qui non c’è nessuna emergenza. C’è un presidente che, fino a una manciata di giorni fa, non ne voleva sapere di fare un passo indietro e che poi, a seguito di pressioni opache, ha improvvisamente deciso di lasciare a tre mesi dal voto.Del resto, che Biden avesse problemi di lucidità era noto fin dal 2020. Per quale ragione non ha allora dovuto affrontare alcuna sfida seria alle primarie? Probabilmente perché l’establishment dem, a partire da Barack Obama, sperava in un suo ritiro «spontaneo» per avviare la cosiddetta «successione ordinata» (vale a dire: una successione in barba al voto della base). Quello che Obama non aveva previsto è stata la resistenza di Biden (e dei famigliari) a mollare: una situazione, che ha finito con l’allungare i tempi.Resta comunque l’inquietante opacità della sostituzione del presidente. E meno male che l’Asinello continua a presentarsi come il baluardo della democrazia.
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Riduci
Fa discutere il piano del tycoon di tassare del 200% le vetture costruite oltre confine per «costringere» le case del Dragone a traslocare negli States. Così crescerebbero i posti di lavoro, i profitti delle banche e anche il Pil.Alla convention del Partito repubblicano della settimana scorsa, che lo ha designato quale candidato alle elezioni per la Casa Bianca, Donald Trump ha parlato di nuovo di dazi sulle importazioni di automobili, ma ha aperto alla possibilità di investimenti cinesi negli Stati Uniti. «Grandi fabbriche vengono costruite oltre confine in Messico» dalla Cina per produrre auto da vendere negli Stati Uniti, ha detto Trump. «Quegli impianti saranno costruiti negli Stati Uniti e la nostra gente gestirà quegli impianti», ha detto, aggiungendo che, altrimenti, avrebbe imposto tariffe fino al 200% su ogni auto per impedirne l’ingresso nel Paese. Concetti già espressi nel marzo scorso durante un comizio in Ohio, la cui sintesi era: metterò forti dazi sull’import, ma se i cinesi vogliono aprire qui le loro fabbriche, sono i benvenuti.La cosa può risultare sorprendente e in effetti lo è, in un certo senso. L’eventualità di fabbriche appartenenti ad aziende cinesi in territorio statunitense solleva a Washington molti dubbi sul tema della sicurezza nazionale, ad esempio. A parte ciò, esiste anche la possibilità che si tratti solo di una boutade elettorale, estratta dal cilindro per accaparrarsi i voti dei colletti blu della cosiddetta rust belt, cuore (malato) dell’industria americana. C’è dietro altro? È possibile che la proposta di Trump non sia poi così peregrina? Per capirlo occorre guardare alla situazione del mercato americano dell’auto e agli scambi internazionali. Nel settore auto, gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale che, nel 2022, era di 103 miliardi di dollari. «L’arrivo di auto low cost prodotte in Messico da aziende cinesi, che costano poco perché finanziate dal governo di Pechino, rischia di portare il settore automotive americano all’estinzione», aveva scritto pochi mesi fa la Alliance for american manufacturing (Aam), l’associazione degli industriali dell’auto statunitense. La Aam ha chiesto al governo di bloccare l’importazione delle auto cinesi dal Messico, che sono «una backdoor commerciale per le importazioni cinesi».Oggi negli Usa le «big three» di Detroit (General Motors, Ford e Stellantis) hanno una quota del 40%, mentre il resto del mercato è in gran parte in mano a costruttori giapponesi, coreani ed europei. L’import americano di auto dalla Cina, a oggi, è del tutto trascurabile. Su 12,3 milioni di veicoli immatricolati negli Usa nel 2023, circa 2,6 milioni sono stati, invece, importati dal vicino Messico, che risulta essere il maggior fornitore del mercato statunitense (seguono Giappone, Canada, Sud Corea e Germania). Il trattato di libero scambio del Nord America consente di esportare negli Usa senza diritti di dogana, ragion per cui quasi tutti i maggiori marchi automobilistici mondiali impegnati sul mercato statunitense hanno aperto in Messico le proprie fabbriche, per avvantaggiarsi dei costi del lavoro più bassi e della fitta rete di accordi di libero scambio messicana. Altrettanto sta facendo la Cina, con Byd intenzionata ad aprire una fabbrica di assemblaggio delle proprie auto da vendere poi negli Stati Uniti (e non solo). Rispetto a questa situazione, Trump intende cambiare le cose, imponendo un dazio del 200% sulle auto cinesi alla frontiera con il Messico. Per farlo, però, dovrebbe applicare un dazio specifico, poiché anche i marchi americani (e gli altri marchi stranieri) importano negli Usa dalle proprie fabbriche delocalizzate in Messico. A meno che il disegno sia di far rimpatriare anche le case automobilistiche statunitensi, cosa che, pur irta di difficoltà politiche, avrebbe senso. Ciò detto, un dazio al 200% renderebbe praticamente impossibile competere sul mercato americano per qualunque casa automobilistica. Dall’altra parte, l’apertura di fabbriche d’auto cinesi in territorio americano porterebbe almeno tre vantaggi: creare lavoro per gli operai americani, portare profitti alle banche americane che forniscono gli investimenti e, in condizioni normali, far crescere il Pil statunitense.Tutto ciò è ancora più vero se fossero costrette allo stesso iter anche le altre aziende asiatiche ed europee. Gli investimenti diretti all’estero (Ide), quali questi sarebbero, darebbero luogo a profitti che entrerebbero con segno meno nella bilancia dei pagamenti Usa, appesantendo il saldo negativo. Ma il ragionamento di Trump (o, più probabilmente, di Robert Lighthizer, consigliere dell’ex presidente) probabilmente è questo: gli Usa hanno un saldo pesantemente negativo della bilancia commerciale sia con la con la Cina sia con il Messico (rispettivamente di -279 e -152 miliardi di dollari nel 2023). Spostare la voce «automobili» dal conto delle partite correnti (dove è la bilancia commerciale delle merci) al conto capitale e finanziario (dove transitano i profitti verso l’estero) avrebbe un effetto positivo sulla bilancia dei pagamenti. Anziché pesare a valore pieno sulla bilancia commerciale dei beni importati, vi sarebbe solo un deflusso dei profitti finanziari generati negli Usa verso l’estero. In estrema sintesi, qualche americano in più lavora (e qualche cinese in meno), il Pil americano cresce, le entrate fiscali americane anche e il disavanzo commerciale degli Usa si riduce.L’operazione è certo complessa, con diverse incognite e con qualche possibile conseguenza, però non è affatto impossibile. Rimpatriare dal Messico capacità produttiva darebbe spinta al Pil degli Usa e creerebbe lavoro. Non è detto che tutto ciò sia solo campagna elettorale, potrebbe diventare il new normal nel caso di una vittoria di Trump il prossimo novembre.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-vuole-la-fabbriche-cinesi-2668820037.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sono-il-migliore-quindi-mi-ritiro" data-post-id="2668820037" data-published-at="1722000884" data-use-pagination="False"> «Sono il migliore, quindi mi ritiro» Ha avuto un che di surreale il discorso con cui Joe Biden ha parlato per la prima volta della sua decisione di ritirarsi dalla campagna elettorale. Pensiamo innanzitutto alla tempistica. Dopo aver annunciato la sua decisione domenica con un comunicato stringato, il presidente ha aspettato fino a mercoledì sera per affrontare la questione: ovviamente senza ricorrere a una conferenza stampa, dove i giornalisti avrebbero potuto metterlo sotto pressione.In secondo luogo, Biden non ha chiarito granché le motivazioni del suo gesto. «Credo che il mio curriculum da presidente, la mia leadership nel mondo, la mia visione del futuro dell’America meritassero tutti un secondo mandato, ma niente può ostacolare la salvezza della nostra democrazia e questo include l’ambizione personale», ha detto, per poi aggiungere: «Ho deciso che il modo migliore per procedere è passare il testimone a una nuova generazione: è il modo migliore per unire la nostra nazione». Insomma, prima ha detto di essersi sentito in grado di reggere un secondo mandato. Poi però ha aggiunto che, in nome dell’unità nazionale, ha deciso di «passare il testimone». Peccato che non abbia esplicitato il perché della sua scelta.Non è d’altronde un mistero che Biden abbia cercato di resistere in tutti i modi alle pressioni di chi voleva un suo passo indietro. Trasparenza avrebbe voluto che il presidente chiarisse apertamente la motivazione che lo ha spinto a cambiare idea. Ma non l’ha fatto. Il che aumenta l’opacità con cui il Partito democratico ha gestito il suo siluramento. Il terzo aspetto problematico è che, nel suo discorso, Biden ha reso noto di voler portare a termine il proprio mandato presidenziale. Ma allora, nuovamente, per quale motivo si è ritirato dalla campagna elettorale? Il paragone con Lyndon Johnson non regge. In primis, Johnson, nel 1968, si ritirò a marzo e non a fine luglio. Inoltre, fece un passo indietro per ll’impopolarità che lo perseguitava a causa della guerra in Vietnam e giustificò il proprio addio elettorale dicendo di voler avere le mani libere per occuparsi di quel conflitto.Biden, invece, è finito sotto pressione a causa delle sue precarie condizioni psicofisiche. Condizioni che tuttavia, nel suo discorso, il diretto interessato non ha citato. I casi sono due. O Biden ritiene di essere sano (e allora perché si tira indietro? oppure sa di essere malato (e allora perché rifiuta di dimettersi da presidente?).Nel suo discorso ha parlato anche di «difesa della democrazia». Eppure ha appena ceduto a una manovra di palazzo che ha bellamente bypassato le primarie. Primarie che, in una lettera scritta tre settimane fa ai parlamentari dem, il presidente rivendicava di aver vinto, respingendo le richieste di un passo indietro. «Gli elettori del Partito democratico hanno votato. Mi hanno scelto come candidato del partito», scrisse. Adesso si è rimangiato tutto. Si è ritirato dalla campagna senza spiegare il motivo e, anziché invocare un processo aperto per la scelta del sostituto, ha dato l’endorsement a Kamala Harris, spianando così la strada a una sorta di successione dinastica. Né vale parlare di «emergenza». Qui non c’è nessuna emergenza. C’è un presidente che, fino a una manciata di giorni fa, non ne voleva sapere di fare un passo indietro e che poi, a seguito di pressioni opache, ha improvvisamente deciso di lasciare a tre mesi dal voto.Del resto, che Biden avesse problemi di lucidità era noto fin dal 2020. Per quale ragione non ha allora dovuto affrontare alcuna sfida seria alle primarie? Probabilmente perché l’establishment dem, a partire da Barack Obama, sperava in un suo ritiro «spontaneo» per avviare la cosiddetta «successione ordinata» (vale a dire: una successione in barba al voto della base). Quello che Obama non aveva previsto è stata la resistenza di Biden (e dei famigliari) a mollare: una situazione, che ha finito con l’allungare i tempi.Resta comunque l’inquietante opacità della sostituzione del presidente. E meno male che l’Asinello continua a presentarsi come il baluardo della democrazia.
Ursula von der Leyen (Ansa)
Per quanto riguarda, invece, la direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (Csrd), che impone alle aziende di comunicare il proprio impatto ambientale e sociale, l’accordo prevede si applichi solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo di 450 milioni di euro.
Con le modifiche decise due giorni fa, l’80% delle aziende che sarebbero state soggette alla norma saranno ora liberate dagli obblighi. Festeggia Ursula von der Leyen: «Accolgo con favore l’accordo politico sul pacchetto di semplificazione Omnibus I. Con un risparmio fino a 4,5 miliardi di euro ridurrà i costi amministrativi, taglierà la burocrazia e renderà più semplice il rispetto delle norme di sostenibilità», ha detto il presidente della Commissione.
In un comunicato stampa, la Commissione dice: «Le misure proposte per ridurre l’ambito di applicazione della Csrd genereranno notevoli risparmi sui costi per le aziende. Le modifiche alla Csddd eliminano inutili complessità e, in ultima analisi, riducono gli oneri di conformità, preservando al contempo gli obiettivi della direttiva».
Dunque, ricapitolando, la revisione libera dall’obbligo di conformità l’80% dei soggetti obbligati dalla vecchia norma, il che significa evidentemente che per l’80% dei casi quella norma era inutile, anzi dannosa, visto che comportava costi ingenti per il suo rispetto e nessuna utilità pratica. Se vi fosse stata una qualche utilità la norma sarebbe rimasta anche per questi, è chiaro.
Non solo. Von der Leyen si rallegra di avere fatto risparmiare 4,5 miliardi di euro, come se a scaricare quella montagna di costi sulle aziende fosse stato qualcun altro o il destino cinico e baro, e non la norma che lei stessa e la sua maggioranza hanno voluto. La Commissione si rallegra di aver semplificato cose che essa stessa ha complicato, di avere tolto burocrazia dopo averla messa.
In questa commedia si potrebbe sospettare una regia di Eugène Ionesco, se fosse ancora vivo. La verità è che già la scorsa primavera, Germania e Francia avevano chiesto l’abrogazione completa delle norme. Nelle dichiarazioni a seguito dell’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento, con la benedizione della Commissione, non è da meno il sagace ministro danese dell’Industria, Morten Bodskov (la Danimarca ha la presidenza di turno del Consiglio Ue): «Non stiamo rimuovendo gli obiettivi green, stiamo rendendo più semplice raggiungerli. Pensavamo che legislazione verde più complessa avrebbe creato più posti di lavoro green, ma non è così: anzi, ha generato lavoro per la contabilità». C’è da chiedersi se da quelle parti siano davvero sorpresi dell’effetto negativo generato dall’imposizione di inutile burocrazia sulle aziende. Sul serio a Bruxelles qualcuno pensa che complicare la vita alle imprese generi posti di lavoro? Sono dichiarazioni ben più che preoccupanti.
Fine di un incubo per migliaia di aziende europee, dunque, ma i problemi restano, essendo la norma di difficile applicazione pratica anche per le multinazionali. Sulla revisione delle due direttive hanno giocato certamente un ruolo le pressioni degli Stati Uniti, dopo che Donald Trump a più riprese ha sottolineato come vi siano barriere non di prezzo all’ingresso nel mercato europeo che devono essere eliminate. Due di queste barriere sono proprio le direttive Csrd e Csddd, che restano in vigore per le grandi aziende. Non a caso, il portavoce dell’azienda americana del petrolio Exxon Mobil ha fatto notare che si tratta di norme extraterritoriali, definendole «inaccettabili», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder ha detto che le norme rendono difficile la fornitura all’Europa dell’energia di cui ha bisogno.
La sensazione è che si vada verso un regime di esenzioni ad hoc, si vedrà. Ma i lamenti arrivano anche dalla parte opposta. La finanza green brontola perché teme un aumento dei rischi, senza i piani climatici delle aziende, che però nessuno sinora ha mai visto. Misteri degli algoritmi Esg.
Ora le modifiche, che fanno parte del pacchetto Omnibus I presentato lo scorso febbraio dalla Commissione, dovranno essere approvate dal Consiglio Ue, dove votano i ministri e dove non dovrebbe incontrare ostacoli, e dal Parlamento europeo, dove invece è possibile qualche sorpresa nel voto. La posizione del Parlamento che ha portato all’accordo di martedì è frutto di una intesa tra i popolari del Ppe e la destra dei Patrioti e di Ecr. Il gruppo dei Patrioti esulta, sottolineando come l’accordo sia frutto di una nuova maggioranza di centrodestra che rende superata la maggioranza attuale tra Ppe, Renew e Socialisti.
Il risvolto politico della vicenda è che si è rotto definitivamente il «cordone sanitario» steso a Bruxelles attorno al gruppo che comprende il Rassemblement national francese di Marine Le Pen, il partito ungherese Fidesz e la Lega di Matteo Salvini.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Bce, pur riconoscendo «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi», continua ad avere «dubbi sulla finalità della norma». Con la lettera, Giorgetti rassicura che l’emendamento non mira a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori del bilancio di Bankitalia e non contiene nessun escamotage per aggirare il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il ministro potrebbe inoltre fornire un ulteriore chiarimento direttamente alla presidente Lagarde, oggi, quando i due si incontreranno per i lavori dell’Eurogruppo. Se la Bce si riterrà soddisfatta delle precisazioni, il ministero dell’Economia darà indicazioni per riformulare l’emendamento.
Una nota informativa di Fdi, smonta i pregiudizi ideologici e le perplessità che sono dietro alla nota della Bce. «L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia è volto a specificare un concetto che dovrebbe essere condiviso da tutti: ovvero che le riserve auree sono di proprietà dei popoli che le hanno accumulate negli anni, e quindi», si legge, «si tratta di una previsione che tutti danno per scontata. Eppure non è mai stata codificata nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in altri Stati, anche membri dell’Ue. Affermare che la proprietà delle riserve auree appartenga al popolo non confligge, infatti, in alcun modo con i trattati e i regolamenti europei». Quindi ribadire un principio scontato, e cioè che le riserve auree sono di proprietà del popolo italiano, non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. «Già nel 2019 la Bce, allora guidata da Mario Draghi, aveva chiarito che la questione della proprietà legale e delle competenze del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), con riferimento alle riserve auree degli Stati membri, è definita in ultima istanza dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)». La nota ricorda che «il parere della Bce del 2019, analogamente a quello redatto lo scorso 2 dicembre, evidenziava che il Trattato non determina le competenze del Sebc e della Bce rispetto alle riserve ufficiali, usando il concetto di proprietà. Piuttosto, il Trattato interviene solo sulla dimensione della detenzione e gestione esclusiva delle riserve. Pertanto, dire che la proprietà delle riserve auree sia del popolo italiano non lede in alcun modo la prerogativa della Banca d’Italia di detenere e gestire le riserve».
Altro punto: Fdi spiega che «nel Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Ue) si parla di “riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”, quindi si prevede implicitamente che la proprietà delle riserve sia in capo agli Stati. L’emendamento di Fdi vuole esplicitare nell’ordinamento italiano questa previsione». C’è chi sostiene che affermare che la proprietà delle riserve auree di Bankitalia è del popolo italiano non serva a nulla. Ma Fdi dice che «l’Italia non può correre il rischio che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani. Per questo c’è bisogno di una norma che faccia chiarezza sulla proprietà».
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Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.
Christine Lagarde (Ansa)
Come accade, ad esempio, in quel carrozzone chiamato Unione europea dove tutti, a partire dalla lìder maxima, Ursula von der Leyen, non dimenticano mai di inserire nella lista delle priorità l’aumento del proprio stipendio. Ne ha parlato la Bild, il giornale più letto e venduto d’Europa, raccontando come la presidente della Commissione europea abbia aumentato il suo stipendio, e quello degli euroburocrati, due volte l’anno. E chiunque non sia allergico alla meritocrazia così come alle regole non scritte dell’accountability (l’onere morale di rispondere del proprio operato) non potrà non scandalizzarsi pensando che donna Ursula, dopo aver trasformato l’Ue in un nano economico, ammazzando l’industria europea con il folle progetto del Green deal, percepisca per questo capolavoro gestionale ben 35.800 euro al mese, contro i 6.700 netti che, ad esempio, guadagna il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Allo stesso modo funzionano le altre istituzioni dell’Unione europea. L’Ue impiega circa 60.000 persone all’interno delle sue varie istituzioni e organi, distribuiti tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Corte di giustizia dell’Unione europea e il Comitato economico e sociale). La funzione pubblica europea ha tre categorie di agenti: gli amministratori, gli assistenti e gli assistenti segretari. L’Ue contrattualizza inoltre molti agenti contrattuali. Secondo i dati della Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 2019, questi funzionari comunitari guadagnano tra 4.883 euro e 18.994 euro mensili (gradi da 5 a 16 del livello 1).
Il «vizietto» di alzarsi lo stipendio ha fatto scuola anche presso la Banca centrale europea (Bce), che ha sede a Francoforte, in Germania, ed è presieduta dalla francese, Christine Lagarde. Secondo quanto riassunto nel bilancio della Bce, lo stipendio base annuale della presidente è aumentato del 4,7 per cento, arrivando a 466.092 euro rispetto ai 444.984 euro percepiti nel 2023 (cui si aggiungono specifiche indennità e detrazioni fiscali comunitarie, diverse da quelle nazionali), ergo 38.841 euro al mese. Il vicepresidente Luis de Guindos, spagnolo, percepisce circa 400.000 euro (valore stimato in base ai rapporti precedenti, di solito corrispondente all’85-90% dello stipendio della presidente). Gli altri membri del comitato esecutivo guadagnano invece circa 330.000-340.000 euro ciascuno. Ai membri spettano anche le indennità di residenza (15% dello stipendio base), di rappresentanza e per figli a carico, che aumentano il netto effettivo. Il costo totale annuale del personale della Bce è di 844 milioni di euro, valore che include stipendi, indennità, contributi previdenziali e costi per le pensioni di tutti i dipendenti della banca. Il dato incredibile è che questa voce è aumentata di quasi 200 milioni in due anni: nel 2023, infatti, il costo totale annuale del personale era di 676 milioni di euro. Secondo una nota ufficiale della Bce, l’incremento del 2024 è dovuto principalmente a modifiche nelle regole dei piani pensionistici e ai benefici post impiego, oltre ai normali adeguamenti salariali legati all’inflazione, cresciuta del 2,4 per cento a dicembre dello scorso anno. La morale è chiara ed è la stessa riassunta ieri dal direttore, Maurizio Belpietro: per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, ma se si tratta dello stipendio dei funzionari Ue, il discorso non vale.
Stessa solfa alla Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo: gli stipendi variano notevolmente a seconda della posizione (avvocato, cancelliere, giudice, personale amministrativo), ma sono generalmente elevati, con giuristi principianti che possono guadagnare da 2.000 a 5.000 euro al mese e stipendi più alti per i magistrati, anche se cifre precise per i giudici non sono facilmente disponibili pubblicamente. Gli stipendi si basano sulle griglie della funzione pubblica europea e aumentano con l’anzianità, passando da 2.600 euro per il personale esecutivo a oltre 18.000 euro per alcuni alti funzionari.
Il problema, va precisato, non risiede nel fatto che le persone competenti siano pagate bene, com’è giusto che sia, ma che svolgano bene il proprio lavoro e soprattutto che ci sia trasparenza sui salari. Dei risultati delle politiche di Von der Leyen e Lagarde i giudici non sono esattamente entusiastici, ma il conto lo pagano, come al solito, i cittadini europei.
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