
Gli euroburocrati vogliono accelerare l’ingresso dei nove candidati, le cui pagelle sono tuttavia ancora poco lusinghiere. Ma per evitare la paralisi del Moloch comunitario intendono accoglierli come Stati di serie B.«Aspettando Godot» è diventata l’espressione preferita del primo ministro albanese Edi Rama nel descrivere il sentimento di alcuni Paesi - tra cui l’Albania - riguardo l’adesione all’Unione europea, di cui si discuterà oggi a Bruxelles in occasione della presentazione del pacchetto sull’allargamento ai nove Paesi candidati (Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina). La metafora indicata da Rama, in effetti, è plausibile: alcuni Stati stanno aspettando di entrare da più di 20 anni mentre altri - l’Ucraina e la Moldavia - hanno ottenuto lo statuto di «Paese candidato» in tempi record: quattro mesi. Da dossier dimenticato negli scaffali polverosi degli euroburocrati, l’allargamento, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, è assurto a strumento chiave di politica estera e priorità strategica dell’Ue, tanto che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, l’ha ribattezzato «riunificazione dell’Europa» nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione. L’atmosfera che si respira tra i corridoi del bâtiment Paul-Henri Spaak, il palazzo bruxellese che ospita l’emiciclo dove si tengono le sessioni plenarie dell’Europarlamento, è quella dei grandi eventi: la presentazione del pacchetto Allargamento coincide con un vertice, trasmesso da Euronews in diretta televisiva, che riunirà i leader dell’Unione e quelli dei Paesi candidati per discutere del futuro dell’integrazione europea; saranno presenti i presidenti della Moldavia e della Serbia, Maia Sandu e Aleksandar Vučić, tre primi ministri in rappresentanza dei Balcani occidentali - Edi Rama per l’Albania, Milojko Spajić per il Montenegro e Hristijan Mickoski per la Macedonia del Nord - e il commissario europeo per l’allargamento, Marta Kos. Tuttavia, la posta in gioco è inversamente proporzionale al poco entusiasmo che molti dei 27 Paesi membri stanno manifestando riguardo l’adesione, malcelato sotto l’ombrello di quel «sobrio ottimismo» confidato dai funzionari europei che stanno lavorando sul maxi-dossier. Il problema, infatti, è che molti Paesi (inclusa la stessa Ucraina) non sono ancora pronti, ma la Commissione vuole farli entrare a tutti i costi. Il Montenegro è in testa rispetto a tutti gli altri candidati con 33 (su 35) capitoli dell’acquis communautaire aperti (l’insieme dei diritti, degli obblighi e degli obiettivi politici che vincolano gli Stati membri dell’Unione europea). Il governo del primo ministro Spajić mira a completare i negoziati entro il 2026 e a ottenere l’adesione all’Ue entro il 2028. La Macedonia del Nord ha avuto il via libera su soli dieci capitoli e il sostegno dell’opinione pubblica all’adesione si è indebolito. Anche in Serbia (adempiente su 12 capitoli), che sta negoziando dal 2014 dopo aver presentato la sua candidatura nel 2009, il sostegno dell’opinione pubblica è diminuito, passando da oltre il 70% all’inizio degli anni 2000 a circa il 40% oggi. Bosnia-Erzegovina e Georgia sono candidati ufficiali, ma non hanno ancora soddisfatto i prerequisiti per poter iniziare i negoziati: la Bosnia fa piccoli passi avanti ma nessuno dei capitoli dell’acquis ha il via libera. L’Ucraina è passata miracolosamente da due soli capitoli a dieci in brevissimo tempo, così come la Moldavia. Quanto all’Albania (otto capitoli), ha registrato notevoli progressi negli ultimi tempi dopo la sua domanda di adesione nel 2009, ed è ora tra i primi candidati, con l’obiettivo ufficiale di aderire entro il 2030.A fronte di queste pagelle non proprio lusinghiere, gli attuali Stati membri sono preoccupati soprattutto sulla coesione: l’adesione di Paesi non ancora allineati agli standard democratici, giuridici ed economici dell’Unione europea rischia di comportare l’assorbimento di risorse preziose. L’Ue, tuttavia, ha fretta di concludere il processo anche a costo di mettere un cappio al collo dei nuovi arrivati, a cominciare dalla rinuncia al diritto di veto. Le prospettive di funzionamento di un’Unione europea a 36 membri, dunque, non sono rosee, perché l’Ue ha fatto i conti senza l’oste: quando nel 2022 aveva deciso di accelerare il processo di adesione per frapporre geopoliticamente questi Paesi tra l’Europa e la Russia e accentuare l’isolamento di Mosca, i dirigenti di allora contavano di riuscire a sopprimere il voto all’unanimità tanto voluto, in Italia, dai leader di sinistra come Romano Prodi ed Enrico Letta. Con le elezioni europee del 2024, tuttavia, il baricentro politico di Bruxelles si è spostato a destra e molti Paesi, tra i quali l’Italia, non intendono rinunciare al diritto di veto. Certo, Bruxelles potrebbe utilizzare le cosiddette «clausole passerella», meccanismi previsti dai Trattati Ue che consentono di modificare in modo semplificato le procedure decisionali, ad esempio passando dall’unanimità alla maggioranza qualificata su alcuni settori. Ma le clausole, introdotte per agevolare l’integrazione europea, non sono estendibili ai dossier più strategici, a cominciare dalla modifica dei Trattati, la difesa comune, la cittadinanza dell’Unione, l’estensione delle competenze nei settori in cui la sovranità degli Stati membri è (o dovrebbe essere) prevalente e altre. Quello che si sta ripetendo oggi, dunque, somiglia molto allo scenario del 2004, quando l’allora presidente della Commissione Jacques Santer promosse l’adozione della moneta comune, l’euro, sollecitando uno «choc fédérateur» che puntualmente si verificò sulla pelle dei cittadini europei. E, per quanto Bruxelles abbia impresso al processo una velocità da Formula Uno, quella verso il nuovo allargamento somiglia di più a una corsa nei sacchi, irta di ostacoli. A farci le spese, ovviamente, saranno i nuovi arrivati, penalizzati già all’ingresso dall’impossibilità di esercitare il diritto di veto, diventando di fatto Stati membri di serie B. Ma Ursula von der Leyen li vuole dentro, costi quel che costi.
Massimo Recalcati (Ansa)
Massimo Recalcati osa mettere in dubbio la battaglia per le lezioni di affettività e sessualità a scuola, tanto care all’universo progressista cui appartiene anche lui. E subito «Repubblica» rimette in riga il compagno che sbaglia: «La realtà non la decide Valditara».
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