
Donald Trump passa al contrattacco. Nel pieno della bufera mediatica sulla questione ucraina, il presidente americano, anziché limitarsi alla difesa, sta cercando di mettere Joe Biden sotto i riflettori.Come è noto, Trump è stato accusato di aver esercitato pressioni a luglio sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky, per spingerlo a mettere sotto inchiesta il figlio dell'attuale front runner democratico, Hunter. Costui nel 2016 faceva parte del consiglio d'amministrazione di Burisma Holding: una società energetica ucraina che era finita sotto indagine per corruzione da parte dell'allora procuratore generale ucraino, Viktor Shokin. Quello stesso Shokin di cui Biden, nel marzo del 2016, richiese e ottenne il licenziamento, minacciando l'allora presidente Petro Poroshenko di congelare un miliardo di dollari in aiuti che Washington stava per concedere a Kiev. L'episodio – ricordiamolo – fu reso noto dallo stesso Biden durante un evento pubblico, l'anno scorso. Quel Biden che – tra il 2014 e il 2016 – fu scelto da Barack Obama come figura di raccordo tra l'amministrazione americana e l'Ucraina. Negli ultimi giorni, è scoppiato un polverone mediatico. E, da più parti, sono piovute addosso a Trump accuse di abuso di potere: tanto che, dal Partito Democratico, circola sempre più insistentemente l'ipotesi di intentare contro l'inquilino della Casa Bianca un processo di impeachment. Per il momento, il presidente non sembra granché disposto a indietreggiare. E, soprattutto sui social network, è passato alla controffensiva, sostenendo che il problema principale risulterebbe costituito dal comportamento di Biden nel 2016. Effettivamente, se è deprecabile esercitare pressioni su un leader straniero per tornaconto personale, allora anche Biden dovrebbe essere coinvolto in quest'accusa, visto il suo ruolo nel siluramento di Shokin quando era vicepresidente. I difensori di Biden replicano che Shokin fosse una figura controversa e che molti ne chiedessero la destituzione. Ciò tuttavia non toglie che, nel momento in cui era procuratore generale, stesse indagando – come abbiamo visto – su una società in cui Hunter Biden ricopriva un incarico apicale. Che poi l'ex vicepresidente dica oggi di non aver mai interferito nella politica ucraina per scopi personali, non lo rende esente da eventuali indagini. Anche Trump, nel corso dell'inchiesta Russiagate, respingeva l'accusa di collusione con i russi: eppure l'indagine di Mueller si è svolta lo stesso.Insomma, non è escluso che, nei prossimi mesi, la questione ucraina possa rivelarsi un grattacapo politico soprattutto per Biden. Non sarà del resto un caso che, pur criticando Trump su questa vicenda, gli altri candidati alle primarie democratiche non abbiano apertamente preso le difese dell'ex vicepresidente. Un ex vicepresidente che – ricordiamolo – risulta da tempo inviso a buona parte dell'elettorato di sinistra. Per questa ragione, l'obiettivo di Trump è far deflagrare la questione nel pieno della campagna elettorale, sperando che possa avere delle ripercussioni negative per l'attuale front runner democratico. Una volta sopitosi (almeno in parte) il ciclone mediatico sul presidente, è infatti possibile che l'attenzione si concentri maggiormente su Biden. Anche perché, quello ucraino non è l'unico potenziale conflitto di interessi che aleggia sul capo dell'ex vicepresidente. E, in tutto questo, non bisogna dimenticare il ruolo decisivo che proprio l'accusa di conflitto di interessi giocò a sfavore della corsa elettorale di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016. In tal senso, non è affatto escludibile che già nel prossimo dibattito televisivo tra i candidati democratici (che si terrà a metà ottobre) alcuni rivali possano iniziare a chiedere conto della faccenda all'ex senatore del Delaware.Certo: è vero che – come accennato – si ricomincia a parlare di impeachment. Tuttavia, per il momento, la maggior parte dei deputati democratici che lo chiedono sono gli stessi che lo invocavano fino all'altro ieri per il caso Russiagate. Gli stessi che la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, sta continuando a cercare di tenere a bada, data la convinzione che un processo di messa in stato d'accusa possa rivelarsi un boomerang per l'Asinello. Non solo infatti i numeri parlamentari per arrivare a un verdetto di colpevolezza non ci sono (il Senato è in mano ai repubblicani). Ma, più in generale, la Pelosi teme che un impeachment potrebbe far guadagnare popolarità a Trump (come accadde a Bill Clinton nel 1999).Infine, fermo restando che l'impeachment attenga al potere legislativo e non a quello giudiziario, siamo veramente sicuri che la famosa telefonata di Trump a Zelensky – per quanto controversa – presenti degli oggettivi risvolti penali? Cerchiamo di entrare nel dettaglio. Un'accusa che oggi viene mossa al presidente americano è quella di "corruzione". Tuttavia, anche se Trump avesse offerto esplicitamente duecentocinquanta milioni di dollari in aiuti militari all'Ucraina in cambio di un'indagine sul figlio di Biden, ciò non si adatterebbe a quanto prescrive lo statuto federale sulla corruzione, che proibisce ai funzionari pubblici di prendere o sollecitare tangenti. In questo caso, Trump avrebbe "corrotto" gli ucraini, che non sono tuttavia definibili come "funzionari pubblici". Discorso analogo vale per l'accusa di "estorsione": secondo il codice, l'estorsione è definita come "l'estrazione di qualsiasi cosa di valore da un'altra persona minacciando o mettendo quella persona nel timore di lesioni a qualsiasi persona o rapimento di qualsiasi persona." Come è evidente, è abbastanza difficile che una corte federale possa applicare una simile fattispecie a un intero Stato (l'Ucraina). Da tutto questo si evince come Trump – una volta lasciata la Casa Bianca – risulterebbe ben difficilmente incriminabile per questa vicenda.Insomma, solo un impeachment potrebbe teoricamente agire contro Trump sulla faccenda. Il punto è che – al di là dei problemi di cui si diceva prima – il rischio per i democratici è quello di sprofondare nell'imbarazzo. Perché se è abuso di potere quello di Trump, allora lo è stato anche quello di Biden.In tutto questo, Trump ha appena annunciato di aver autorizzato la pubblicazione della trascrizione della telefonata avuta a luglio con Zelensky. Pubblicazione che dovrebbe aver luogo nella giornata di domani.
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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