2019-08-26
Trump sembra tendere la mano a Pechino. Ma deve fare attenzione
True
Spiragli di apertura alla Cina? Donald Trump ha lasciato intendere che Pechino sarebbe pronta a tornare al tavolo delle trattative e che i due rivali sarebbero pronti a riprendere i negoziati commerciali. In tal senso, il presidente americano - nel corso del G7 di Biarritz - ha dichiarato: «La Cina ha chiamato ieri sera i nostri più alti funzionari commerciali e ha detto "torniamo al tavolo", quindi torneremo al tavolo e penso che vogliono fare qualcosa. Sono stati feriti molto gravemente ma capiscono che questa è la cosa giusta da fare e ne ho molto rispetto. Questo è uno sviluppo molto positivo per il mondo».«Penso che avremo un accordo» ha proseguito. «Hanno catene di approvvigionamento incredibilmente intricate e la gente se ne sta andando e andranno in altri Paesi, compresi gli Stati Uniti, ne avremo anche molti». Già domenica Trump era sembrato manifestare qualche timido ripensamento sull'escalation tariffaria con la Cina, sebbene l'ufficio stampa della Casa Bianca fosse prontamente intervenuto per smentire, parlando di un fraintendimento da parte dei mass media.Del resto, la posizione di Washington sembra restare profondamente guardinga, come testimoniato dalle affermazioni del segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin: «Non abbiamo libero scambio con [i cinesi]. È una strada a senso unico: hanno l'ingresso gratuito nei nostri mercati, nei nostri investimenti, nelle nostre aziende e non abbiamo la stessa cosa lì. Questa è l'unica ragione per cui siamo in questa situazione con la Cina. Se la Cina accettasse un rapporto equo ed equilibrato, firmeremmo l'accordo in un secondo».Insomma, gli Stati Uniti sembrano oscillare tra apertura e chiusura. Un'alternanza tra il bastone e la carota che manifesta tuttavia l'intenzione di Washington a riaprire le trattative con la Repubblica Popolare. Parole così distensive, del resto, sarebbero state inimmaginabili la settimana scorsa, quando Pechino aveva proclamato nuovi dazi su settantacinque miliardi di dollari di importazioni americane. Una mossa che aveva mandato Trump su tutte le furie, portandolo ad annunciare ritorsioni tariffarie e ad intimare alle aziende statunitensi di abbandonare il territorio cinese, sula base dell'International Emergency Economic Powers Act del 1977. A questo punto, il presidente americano deve ponderare attentamente le sue scelte in vista delle elezioni del 2020.Da una parte, molti analisti stanno paventando sempre più i rischi di una recessione economica: un'eventualità che - qualora si verificasse nel corso della campagna elettorale - potrebbe rivelarsi fatale per Trump. In questo senso, il presidente americano sta accusando la Federal Reserve di non condurre una politica monetaria abbastanza espansiva, laddove il presidente della banca centrale Jerome Powell attribuisce la possibilità di un rallentamento economico proprio alla guerra commerciale con Pechino. Trump, dal canto suo, sa perfettamente che il raggiungimento di un buon accordo con la Repubblica Popolare risulterebbe più che auspicabile: non soltanto, infatti, rappresenterebbe una vittoria da sbandierare in campagna elettorale ma allontanerebbe, con ogni probabilità, le voci di una possibile recessione nei prossimi mesi.Dall'altra parte, il presidente americano è altrettanto consapevole della necessità di non poter siglare un'intesa a tutti i costi. La linea dura con la Cina ha sempre rappresentato una delle sue principali proposte programmatiche ai tempi della campagna elettorale del 2016. E proprio questa linea gli garantì all'epoca il sostegno della classe operaia impoverita della Rust Belt. Cedere o accontentarsi costituirebbe dunque un durissimo colpo di immagine per lui, che - notoriamente - ha sempre enfatizzato le sue doti di abile negoziatore. Per questa ragione, la via che Trump si trova a dover percorrere risulta particolarmente stretta. Anche perché su un eventuale processo di pace commerciale pesa l'incognita della strategia cinese. È fuor di dubbio che l'economia della Repubblica Popolare stia subendo tremendi contraccolpi dalla guerra tariffaria in atto (il settore manifatturiero fatica e la disoccupazione rischia di aumentare). Ciononostante non è affatto escludibile che il presidente cinese, Xi Jinping, punti a proseguire le tensioni nei prossimi dodici mesi, con la speranza di indebolire la posizione elettorale di Trump e - magari - ritrovarsi a trattare con un presidente statunitense più accondiscendente a partire dal 2021. L'inquilino della Casa Bianca sa quindi di non potersi completamente fidare della propria controparte cinese. E, in questa situazione, va da sé che lo scontro tariffario con Pechino rappresenti la scommessa più grande della presidenza Trump.In tal senso, non bisogna dimenticare che quella che da molti critici viene oggi considerata una guerra personale o una sterile mattana abbia in realtà delle causa un poco più profonde. Già Barack Obama aveva cercato di arginare la concorrenza sleale cinese, siglando - nel 2016 - la Trans Pacific Partnership: un trattato di libero scambio tra gli Stati Uniti e altri undici Paesi del Pacifico. Lo scopo era quello di isolare commercialmente Pechino. Peccato che quell'intesa avesse ricevuto numerose critiche in America per l'impatto negativo che avrebbe prodotto sui posti di lavoro statunitensi: critiche mosse non solo da Trump ma anche da Bernie Sanders e Hillary Clinton. Il magnate newyorchese ha quindi ereditato il problema cinese dall'amministrazione precedente e sta adesso cercando di affrontarlo attraverso una strategia opposta, improntata al protezionismo. Una strategia che, del resto, aveva già chiaramente esplicitato nel corso della campagna elettorale di tre anni fa. È certamente vero che Trump rischi di andare a sbattere (facendosi molto male) sul dossier cinese. Ma il problema esiste. E di esso qualcuno dovrà pure occuparsi.