2025-02-08
L’ordine liberale lo difende solo chi ci mangia
Trump le vuol dare il colpo di grazia, ma l’architettura globale era già in crisi: non promuoveva più gli interessi degli Usa egemoni, essendo esposta alle astuzie della Cina. A chiedere di tenerla in vita è un’élite di funzionari e miliardari che teme di essere sostituita.Parlano come se a Washington fosse comparso l’Anticristo. Donald Trump non è la Bestia; semmai, è la moglie che, dopo anni di liti e tradimenti, trova il coraggio di lasciare il marito. Nell’analogia, il «marito» equivale a quell’ordine internazionale liberale che si stava sgretolando già da molto prima che il tycoon ridiventasse presidente. Da prima che scendesse in politica. E che oggi viene difeso da chi, in quel piatto, ci si abbuffa. L’inquilino della Casa Bianca, dal canto suo, sta semplicemente traendo le logiche conseguenze del movimento della storia. La direzione è giusta o sbagliata? Vedremo. Ma se un mondo sta finendo è perché quel mondo non è più riformabile. Le crepe sono troppo profonde per essere riparate. È ora di raccontarsi le cose come stanno, mettendo sul tavolo tre verità.1 L’ordine globale liberale, specie per come si è definitivamente affermato dopo la guerra fredda, funziona con gli stessi criteri dei precedenti, benché avesse manifestato una pretesa di superiorità morale. L’hanno sostenuto una combinazione di autentica fede e opportunismo. Ma se si è imposto è perché serviva a promuovere gli interessi economici e politici della potenza egemone americana. A paragone con il passato, esso ha accresciuto lo iato tra i principi che venivano proclamati (i diritti umani, il diritto internazionale, la cooperazione, il disarmo) e la prassi. I freni all’esercizio della forza bruta sono stati rivendicati quando erano utili all’azionista di maggioranza, ma sono stati fatti saltare nei casi contrari. Pensateci: per le guerre di aggressione e le campagne di destabilizzazione a stelle e strisce, dall’Afghanistan all’Iraq al Nordafrica, sono stati trovati sempre pretesti coerenti con l’etica liberale. 2 L’ordine globale liberale è entrato in crisi quando ha cessato di favorire gli Stati Uniti. Era successo diverse volte che Paesi alleati degli Usa approfittassero della loro relazione speciale con il fondatore dell’impero. Ricordate gli anni Ottanta e il braccio di ferro con il Giappone per i processori? Altre questioni rimangono aperte: dal contributo degli europei alla Nato, agli squilibri import-export con la Germania. L’elemento dirompente, però, è stato un altro: il meccanismo si è inceppato quando anche le potenze concorrenti hanno imparato a sfruttare le possibilità offerte dalla globalizzazione. Il modo in cui la Cina è riuscita a manovrare e infiltrare le istituzioni multilaterali, dall’Organizzazione mondiale del commercio all’Oms, è emblematico. In più, il massimalismo della teoria liberale era destinato a rendere insostenibile quel modello. Quando i suoi valori, da mera copertura, diventano linee guida, conducono, come scrisse il politologo John Mearsheimer ne La grande illusione, a «una politica estera altamente interventista», che costringerà lo Stato egemone «a combattere e a fare un’intensa opera di ingegneria sociale in Paesi di tutto il mondo», pur di «ricostruire il sistema internazionale a propria immagine e somiglianza». «Al 2016», notava allarmato Stephen M. Walt in The hell of good intensions, L’inferno delle buone intenzioni, «gli Stati Uniti erano impegnati a difendere più Paesi di qualunque altro momento nella loro storia, mentre, al contempo, cercavano di pacificare numerose e distanti società lacerate da conflitti e di condurre violente operazioni antiterrorismo in molti altri luoghi. La “sfera d’influenza” dell’America non è mai stata più ampia, anche se quanta influenza effettivamente esercitassero gli Stati Uniti in quei luoghi è tutt’altro che chiaro». È chiaro, invece, che a Pechino sono stati bravissimi a utilizzare a loro vantaggio le possibilità offerte dal liberoscambismo e dalla globalizzazione.3 Chi presidia le rovine dell’ordine internazionale liberale, picconato dal ritorno della politica di potenza, cui fanno ricorso sempre più spregiudicato proprio le nazioni che le regole del mondo postsovietico avrebbero dovuto addomesticare, lo fa anche - forse, soprattutto - per tutelare le proprie rendite di posizione. Ieri abbiamo scritto dei 180.000 euro netti all’anno che intascano i giudici della Corte penale internazionale, doppione di dubbia utilità del tribunale dell’Aia che è espressione diretta dell’Onu. I privilegi che garantisce l’ingresso nella stanza dei bottoni del multilateralismo sono giganteschi. Inoltre, c’è il bonus «montiano»: dentro l’Ue, il Fondo monetario, la Banca mondiale, l’Ocse e compagnia cantante, si possono combinar danni rimanendo «al riparo dal processo democratico». Grandi poteri, grandi godimenti, zero responsabilità. Ora, il rullo compressore di Trump minaccia di falciare le vecchie classi dirigenti di funzionari e magnati, per sostituirle con le nuove. Il club di Davos, George Soros e la sua rete tentacolare, Bill Gates e i suoi piani per plasmare sanità e alimentazione, sfidati da una cordata di cui è divenuto il simbolo Elon Musk. Se Vilfredo Pareto aveva ragione e la storia è un cimitero di élite, The Donald è il tristo mietitore. Qualche resistenza era scontata.Precisiamolo: tutto ciò non significa che - per citarne una - la battaglia per i diritti umani sia stata solamente una foglia di fico. Non significa che, ad animarla, ci fossero torbidi profittatori anziché personalità di spiccata levatura etica. Non significa che, dopo gli orrori di due guerre mondiali, i tentativi di costruire un sistema in cui le controversie fossero risolvibili senza massacri siano stati una pantomima. Si può discutere se, per evitare un terzo conflitto tra grandi potenze, sia stato più utile il deterrente nucleare o l’Onu; di certo, le democrazie liberali, nonostante le colpe e le contraddizioni, possono permettersi meno brutalità immotivate delle autocrazie. Ma oggi il re è nudo. Sul serio gli vogliamo mettere in testa una corona di plastica?