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2018-12-09
Trump impara a fare il politico: usa Nancy Pelosi per spaccare i dem
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ANSA
Tanto che, nel 2007, è stata la prima donna della storia americana a essere eletta Speaker della Camera: un ruolo che ha ricoperto per anni, restando comunque capogruppo dei dem nei periodi di maggioranza repubblicana. Insomma, con il passare degli anni la Pelosi ha consolidato il proprio potere, attraverso un'abilità non indifferente che le ha permesso, come pochi altri, di conoscere e controllare i complessi meccanismi del Campidoglio. Astuta e pragmatica, Nancy non ha mai disdegnato una punta di machiavellismo, alternando sapientemente alte battaglie idealistiche a inciuci parlamentari. Cattolica di stampo kennediano (e quindi molto liberal su aborto e matrimoni omosessuali), si è intestata nel tempo numerose battaglie di frontiera che, se da una parte ne sottolineano la provenienza politica tipicamente californiana, dall'altra ne evidenziano anche una certa autoreferenzialità. Autoreferenzialità che l'ex Speaker ha comunque bilanciato creandosi un network parlamentare consistente e tendenzialmente bipartisan. Un fattore che, se vogliamo, la accomuna a un altro grande vecchio della politica statunitense: il senatore repubblicano, recentemente scomparso, John McCain. Il punto è che, proprio come per McCain, questa abilità tattica nei meandri del Campidoglio ha finito col cucire addosso a Nancy l'immagine (forse non del tutto errata) di figura dell'establishment. Un elemento politicamente abbastanza pericoloso, soprattutto in un contesto - quello americano - in cui da alcuni anni ormai i sentimenti anti-sistema pervadono sempre più in profondità l'elettorato. La vittoria di Barack Obama nel 2008 e di Donald Trump nel 2016 dimostrano, del resto, questo stato di cose.
Ed è stato così che, negli ultimi anni, la leadership di Nancy si è ritrovata sotto assedio. Non tanto dai repubblicani quanto da (alcuni) suoi stessi compagni di partito. Sia chiaro: il suo potere all'interno dell'Asinello è, ancora oggi, indiscusso. Anche perché, contrariamente a un altro satrapo del partito come Hillary Clinton, la Pelosi gode di una presa diretta sui banchi della Camera. Eppure qualcosa si è rotto. E la sua figura è finita additata nel calderone di quell'establishment che - piaccia o meno - sembra rifiutarsi categoricamente di rinnovare un partito - quello democratico - che avrebbe invece urgente bisogno di rivoluzionarsi radicalmente. È così che, durante la corsa per le ultime elezioni di metà mandato, alcuni candidati dem hanno fatto campagna elettorale, attaccando Nancy invece di Donald Trump. E, sempre in quest'ottica, la Pelosi sta incontrando qualche difficoltà nell'ottenere i voti necessari per essere rieletta Speaker della Camera. Un gruppo di deputati democratici sta infatti cercando di sbarrarle il passo, proprio perché la considera espressione di un mondo vecchio. Non solo in termini anagrafici (Nancy ha settantotto anni) ma soprattutto in termini di idee e strategie politiche da approntare per il futuro. Eppure, nonostante queste difficoltà, la capogruppo va avanti come un carro armato. Non solo ribadisce di essere la persona più titolata per fare la Speaker ma sta anche riuscendo a sfaldare la fronda democratica. Diversi dei deputati riottosi hanno improvvisamente cambiato idea. E, dallo scetticismo, sono passati al sostegno. Insomma, Nancy disporrebbe di una dote che ricorda molto il cosiddetto "trattamento Johnson": la capacità, cioè, che il presidente Lyondon Johnson aveva di persuadere gli avversari a sostenere le proprie proposte legislative. Capacità che oscillava costantemente dalla dolce carota all'inquietante bastone.
E comunque, anche qualora Nancy non dovesse riuscire a conquistarsi tutti i voti necessari per la rielezione, potrebbe arrivare la cavalleria. Donald Trump si è infatti detto disposto a far convergere su di lei alcuni voti repubblicani. E, a proposito di pragmatismo, la Pelosi non sembra particolarmente restia ad accettare (nonostante abbia detto al presidente di tutto in questi anni su Russiagate e affini). Resta semmai da capire per quale motivo Trump voglia sostenerla. E qui comincia il mistero. È possibile che, pragmaticamente, il presidente voglia un Asinello unito alla Camera per poter avviare un'agenda legislativa efficace che ottenga un supporto parlamentare bipartisan: una mossa sotto molti aspetti saggia, visto che il Congresso risulta attualmente spaccato in due. Oppure c'è un'astuzia più raffinata. Non è che per caso, con una Nancy Pelosi nuovamente Speaker, il Partito democratico finirebbe additato - ancora una volta - come partito dell'establishment? Non è che, insomma, finirebbe col darsi di nuovo la zappa sui piedi, come fece candidando Hillary alla Casa Bianca? Trump potrebbe insomma considerare la Pelosi una sorta di inconsapevole cavallo di Troia: un modo, cioè, per spaccare ulteriormente l'Asinello al suo interno. E - soprattutto - rinverdire il suo storico messaggio politico anti-sistema. Scommettendo magari tutto sul fatto che, questa volta, la Pelosi possa rivelarsi non una risorsa per i democratici. Ma il loro canto del cigno.
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Riduci
Charles-Maurice de Talleyrand e Giulio Andreotti dicevano che il potere logora chi non ce l'ha. Una massima nota, che, oltreoceano, si attaglia perfettamente a Nancy Pelosi. Entrata alla Camera dei Rappresentanti nell'ormai lontano 1987, è stata capace di scalare man mano il Partito democratico, fino a diventare una delle sue principali esponenti. Tanto che, nel 2007, è stata la prima donna della storia americana a essere eletta Speaker della Camera: un ruolo che ha ricoperto per anni, restando comunque capogruppo dei dem nei periodi di maggioranza repubblicana. Insomma, con il passare degli anni la Pelosi ha consolidato il proprio potere, attraverso un'abilità non indifferente che le ha permesso, come pochi altri, di conoscere e controllare i complessi meccanismi del Campidoglio. Astuta e pragmatica, Nancy non ha mai disdegnato una punta di machiavellismo, alternando sapientemente alte battaglie idealistiche a inciuci parlamentari. Cattolica di stampo kennediano (e quindi molto liberal su aborto e matrimoni omosessuali), si è intestata nel tempo numerose battaglie di frontiera che, se da una parte ne sottolineano la provenienza politica tipicamente californiana, dall'altra ne evidenziano anche una certa autoreferenzialità. Autoreferenzialità che l'ex Speaker ha comunque bilanciato creandosi un network parlamentare consistente e tendenzialmente bipartisan. Un fattore che, se vogliamo, la accomuna a un altro grande vecchio della politica statunitense: il senatore repubblicano, recentemente scomparso, John McCain. Il punto è che, proprio come per McCain, questa abilità tattica nei meandri del Campidoglio ha finito col cucire addosso a Nancy l'immagine (forse non del tutto errata) di figura dell'establishment. Un elemento politicamente abbastanza pericoloso, soprattutto in un contesto - quello americano - in cui da alcuni anni ormai i sentimenti anti-sistema pervadono sempre più in profondità l'elettorato. La vittoria di Barack Obama nel 2008 e di Donald Trump nel 2016 dimostrano, del resto, questo stato di cose. Ed è stato così che, negli ultimi anni, la leadership di Nancy si è ritrovata sotto assedio. Non tanto dai repubblicani quanto da (alcuni) suoi stessi compagni di partito. Sia chiaro: il suo potere all'interno dell'Asinello è, ancora oggi, indiscusso. Anche perché, contrariamente a un altro satrapo del partito come Hillary Clinton, la Pelosi gode di una presa diretta sui banchi della Camera. Eppure qualcosa si è rotto. E la sua figura è finita additata nel calderone di quell'establishment che - piaccia o meno - sembra rifiutarsi categoricamente di rinnovare un partito - quello democratico - che avrebbe invece urgente bisogno di rivoluzionarsi radicalmente. È così che, durante la corsa per le ultime elezioni di metà mandato, alcuni candidati dem hanno fatto campagna elettorale, attaccando Nancy invece di Donald Trump. E, sempre in quest'ottica, la Pelosi sta incontrando qualche difficoltà nell'ottenere i voti necessari per essere rieletta Speaker della Camera. Un gruppo di deputati democratici sta infatti cercando di sbarrarle il passo, proprio perché la considera espressione di un mondo vecchio. Non solo in termini anagrafici (Nancy ha settantotto anni) ma soprattutto in termini di idee e strategie politiche da approntare per il futuro. Eppure, nonostante queste difficoltà, la capogruppo va avanti come un carro armato. Non solo ribadisce di essere la persona più titolata per fare la Speaker ma sta anche riuscendo a sfaldare la fronda democratica. Diversi dei deputati riottosi hanno improvvisamente cambiato idea. E, dallo scetticismo, sono passati al sostegno. Insomma, Nancy disporrebbe di una dote che ricorda molto il cosiddetto "trattamento Johnson": la capacità, cioè, che il presidente Lyondon Johnson aveva di persuadere gli avversari a sostenere le proprie proposte legislative. Capacità che oscillava costantemente dalla dolce carota all'inquietante bastone. E comunque, anche qualora Nancy non dovesse riuscire a conquistarsi tutti i voti necessari per la rielezione, potrebbe arrivare la cavalleria. Donald Trump si è infatti detto disposto a far convergere su di lei alcuni voti repubblicani. E, a proposito di pragmatismo, la Pelosi non sembra particolarmente restia ad accettare (nonostante abbia detto al presidente di tutto in questi anni su Russiagate e affini). Resta semmai da capire per quale motivo Trump voglia sostenerla. E qui comincia il mistero. È possibile che, pragmaticamente, il presidente voglia un Asinello unito alla Camera per poter avviare un'agenda legislativa efficace che ottenga un supporto parlamentare bipartisan: una mossa sotto molti aspetti saggia, visto che il Congresso risulta attualmente spaccato in due. Oppure c'è un'astuzia più raffinata. Non è che per caso, con una Nancy Pelosi nuovamente Speaker, il Partito democratico finirebbe additato - ancora una volta - come partito dell'establishment? Non è che, insomma, finirebbe col darsi di nuovo la zappa sui piedi, come fece candidando Hillary alla Casa Bianca? Trump potrebbe insomma considerare la Pelosi una sorta di inconsapevole cavallo di Troia: un modo, cioè, per spaccare ulteriormente l'Asinello al suo interno. E - soprattutto - rinverdire il suo storico messaggio politico anti-sistema. Scommettendo magari tutto sul fatto che, questa volta, la Pelosi possa rivelarsi non una risorsa per i democratici. Ma il loro canto del cigno.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Riduci
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Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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