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2025-08-25
Tropico del crimine
Polizia nazionale di Haiti (Ansa)
Dietro l’immagine da cartolina dei Caraibi si nasconde un processo silenzioso ma implacabile: l’avanzata delle organizzazioni criminali che stanno trasformando le isole in un hub globale di narcotraffico, traffici d’armi e tratta di esseri umani. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga ed il crimine (Unodc), la regione, che rappresenta appena il 9% della popolazione mondiale, concentra circa un terzo degli omicidi registrati a livello planetario. È un dato che da solo misura la portata di una crisi che sta superando i confini locali per assumere dimensioni geopolitiche.
La geografia è il primo alleato dei clan. Le centinaia di isole disseminate tra l’Atlantico e il Mar dei Caraibi, i confini marittimi difficili da controllare, le rotte che collegano Sudamerica, Nordamerica ed Europa: tutto concorre a rendere questa fascia un corridoio perfetto per la cocaina colombiana e venezuelana diretta verso gli Stati Uniti. Secondo le stime di Dialogo Américas, oltre il 14% della droga prodotta in Sudamerica transita oggi attraverso i Caraibi, generando profitti miliardari che rafforzano gruppi locali e cartelli esterni. Non si tratta soltanto di narcotraffico. Il commercio di armi è diventato un moltiplicatore di violenza. Molti arsenali provengono dal contrabbando statunitense, altri dalle scorte residue di guerre civili africane o conflitti centroamericani. Il risultato è che le bande caraibiche, spesso composte da poche centinaia di uomini, dispongono di un potere di fuoco superiore a quello delle forze di polizia. L’Onu avverte che in molte aree le autorità statali si dichiarano «sopraffatte» dalla potenza di fuoco delle organizzazioni criminali, dotate di armi automatiche e lanciarazzi. A peggiorare il quadro, sottolinea il rapporto, è la corruzione diffusa tra funzionari pubblici a ogni livello, che indebolisce ulteriormente la capacità di risposta delle istituzioni.
La conseguenza diretta è l’aumento esponenziale degli omicidi. A Saint Lucia il tasso di assassinii ha raggiunto quota 42,8 ogni 100.000 abitanti, superiore a quello di Honduras ed El Salvador, Paesi storicamente associati alla violenza delle maras. Nelle Barbados, considerate per decenni un’isola sicura, il numero di reati violenti è triplicato in dieci anni. In Giamaica, secondo i dati ufficiali del 2024, sono stati registrati oltre 1.500 omicidi, quasi la metà dei quali collegati a conflitti tra bande rivali. Il caso più drammatico resta Haiti, epicentro di un collasso statale che ha assunto le proporzioni di una catastrofe. Port-au-Prince è ormai una città divisa tra gruppi armati. La coalizione di differenti gang, conosciuta come Viv Ansanm (vivere insieme), controlla più dell’80% della capitale, imponendo tasse illegali, sequestri e regolando persino l’accesso agli ospedali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, dall’inizio del 2025 sono stati uccisi più di 3.100 civili e 1,3 milioni di persone hanno abbandonato le proprie case. L’incendio che ha distrutto il leggendario Hotel Oloffson, icona della cultura haitiana, è diventato il simbolo della caduta di un Paese nelle mani delle gang.
La comunità internazionale osserva con crescente preoccupazione. La Comunità Caraibica, riunitasi a Montego Bay, ha definito la violenza ad Haiti «una minaccia esistenziale» per l’intera regione, chiedendo un’azione coordinata sul modello della lotta al terrorismo. Ma gli sforzi di sicurezza sono ancora frammentati. La missione multinazionale guidata dal Kenya, che avrebbe dovuto schierare oltre 2.500 uomini, a oggi ne ha dispiegati meno della metà. Nel frattempo, il vuoto è stato colmato da attori controversi: Erik Prince, ex fondatore della compagnia militare privata Blackwater, ha annunciato un accordo decennale con il governo haitiano attraverso la sua nuova società Vectus Global per inviare centinaia di contractors. Una scelta che ha sollevato critiche per il rischio di trasformare Haiti in un laboratorio di guerra privatizzata. Gli Stati Uniti hanno reagito con misure drastiche. Il Dipartimento di Stato ha inserito gli affiliati a Viv Ansanm nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere. Un gran giurì federale ha incriminato Jimmy «Barbecue» Chérizier, ex poliziotto divenuto capo gang, accusandolo di massacri di civili. Su di lui pende una taglia di cinque milioni di dollari. Washington accusa Chérizier di aver ordinato almeno tre stragi tra il 2021 e il 2024 e di gestire una rete di riciclaggio che passa attraverso le rimesse della diaspora haitiana negli Stati Uniti e in Canada. Il quadro umanitario è disastroso. L’appello delle Nazioni Unite per raccogliere 900 milioni di dollari destinati a cibo, acqua e assistenza sanitaria è stato finanziato solo al 9%, uno dei livelli più bassi al mondo. Programmi alimentari segnalano che almeno cinque milioni di haitiani soffrono di insicurezza alimentare acuta. La scarsità di fondi ha già costretto diverse Ong a sospendere le attività di distribuzione, lasciando interi quartieri senza sostegno.
Ma Haiti è solo il punto più visibile di una crisi più ampia. In tutta l’area caraibica, la criminalità organizzata si intreccia con la politica e con le fragilità istituzionali. In Trinidad e Tobago, il ministro della Sicurezza nazionale Fitzgerald Hinds ha ammesso che «i confini marittimi sono troppo estesi per essere controllati». A Porto Rico, secondo un’inchiesta dell’Fbi, clan locali collaborano direttamente con i cartelli messicani per la gestione delle spedizioni di droga. In Repubblica Dominicana, il presidente Luis Abinader ha dichiarato che «la stabilità della nazione è minacciata dal narcotraffico che penetra ovunque, anche nelle istituzioni pubbliche». Secondo la Banca Mondiale, la criminalità organizzata costa alla regione fino al 3% del Pil annuo, una cifra che equivale a decine di miliardi di dollari sottratti a investimenti in infrastrutture, scuola e sanità.
Il dato più preoccupante riguarda però la percezione della popolazione: un sondaggio condotto nel 2024 ha rivelato che oltre il 60% degli abitanti dei Caraibi non crede più che lo Stato sia in grado di proteggerli. È il segno di un’erosione della legittimità che rischia di consolidare il potere dei clan come alternativa alle istituzioni.
La crisi dei Caraibi non è dunque un problema periferico, ma un banco di prova globale. La regione è oggi il crocevia dove convergono le rotte della cocaina sudamericana, del traffico d’armi e della tratta di persone dirette verso Stati Uniti ed Europa. Se non verrà affrontata con risorse adeguate, cooperazione internazionale e strategie di sviluppo inclusivo, il rischio è che l’immagine di paradiso tropicale lasci spazio a un futuro dominato dalla violenza organizzata e dal collasso statale.
Da poliziotto a spietato capo gang. La parabola di «Barbecue» Chérizier
Il nome di Jimmy «Barbecue» Chérizier è ormai indissolubilmente legato alla crisi haitiana. Ex poliziotto, oggi capo della coalizione criminale Viv Ansanm, Chérizier incarna la trasformazione di un Paese in cui lo Stato ha perso il controllo e la violenza è diventata sistema di governo. La sua parabola, da agente della polizia nazionale a leader delle bande armate di Port-au-Prince, è la storia di un uomo che ha saputo sfruttare il caos per imporsi come arbitro della capitale.Cresciuto nei quartieri poveri della città, ha fatto carriera nella Brigata di intervento speciale, dove si è guadagnato una fama di uomo spietato, tanto che già allora veniva accusato di eccessi e brutalità. Diversi rapporti internazionali lo collegano a massacri in quartieri popolari, spesso a danno di comunità ostili al potere politico. Quando fu allontanato dalla polizia, aveva già costruito una rete che gli permise di passare dalla divisa allo status di capo criminale.Il soprannome «Barbecue», che lui attribuisce alla passione per il cibo alla griglia, evoca invece per molti haitiani le sue azioni violente: corpi carbonizzati, case date alle fiamme, intere comunità ridotte in cenere. Nel 2020 ha fondato la gang G9, alleanza di nove bande che controllano i principali quartieri di Port-au-Prince. Attraverso intimidazione e omicidi mirati, il gruppo ha imposto un dominio territoriale che tocca trasporti, commercio e persino l’accesso agli aiuti umanitari. Oggi è a capo della federazione di gang Viv Ansam, formatasi nel 2023 come coalizione delle due principali fazioni operanti a Port-au-Prince, G-9 e G-Pèp.Nelle sue apparizioni pubbliche, Chérizier indossa mimetiche, circondato da uomini armati, e si proclama rivoluzionario. Dice di voler difendere i poveri dalle élite corrotte, presentandosi come un leader politico più che come un criminale. Ma i fatti parlano chiaro: rapimenti, riscatti, estorsioni e traffici di armi e droga costituiscono l’ossatura del suo potere. Secondo le Nazioni Unite, le bande da lui guidate sono responsabili di migliaia di vittime e decine di migliaia di sfollati interni. La sua ascesa è stata favorita dal vuoto istituzionale seguito all’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021. Il governo provvisorio è apparso impotente, mentre la polizia, mal pagata e sotto organico, ha perso il controllo della capitale. In questo contesto Barbecue si è trasformato in una sorta di autorità parallela, capace di bloccare porti, strade e depositi di carburante per esercitare pressioni sui vertici politici. In più occasioni ha imposto condizioni al governo, mostrando di poter paralizzare il Paese.Sul piano internazionale, Chérizier è stato colpito da sanzioni da parte di Stati Uniti e Canada, che gli hanno congelato beni e vietato viaggi. L’Onu lo accusa di gravi violazioni dei diritti umani e ha chiesto misure per arrestarlo. Tuttavia, nonostante condanne e pressioni diplomatiche, continua a muoversi liberamente, protetto dalla fedeltà dei suoi uomini e dal sostegno di chi, nei quartieri più poveri, lo considera un difensore contro l’abbandono dello Stato.
«È un corridoio per la cocaina diretta in Europa»
Sandra Pellegrini, analista senior presso Acled, coordina l’analisi dei conflitti in America Latina e nei Caraibi.Quali sono le principali rotte del traffico di cocaina nei Caraibi oggi? «I Caraibi rimangono un hub fondamentale per il traffico di cocaina, con la maggior parte delle spedizioni che provengono dalla Colombia e transitano attraverso il Venezuela prima di raggiungere la regione. Da lì, la droga viene convogliata verso Usa e Europa. Questo corridoio è diventato sempre più importante dal 2010, quando l’intensificarsi della pressione statunitense lungo il Messico e l’America Centrale ha dirottato i flussi verso i Caraibi. I principali porti e aeroporti - Kingston, Caucedo, San Juan, Port of Spain - rimangono nodi centrali, ma i trafficanti si affidano a piccole imbarcazioni per sbarcare i carichi su coste meno sorvegliate. Una volta nei Caraibi, i carichi vengono spesso spostati all’interno dei paesi e da un paese all’altro prima di essere caricati su navi più grandi dirette verso gli Stati Uniti o l’Europa, dove i trafficanti sfruttano sempre più i legami di lunga data tra gli Stati europei e i loro territori d’oltremare. Anche Panama è emersa come punto di transito, con alcune spedizioni che passano attraverso i porti caraibici, come nel caso del sequestro nel 2024 a Santo Domingo di cocaina spedita da Panama e destinata ad Anversa, in Belgio».In quali Paesi la corruzione statale favorisce maggiormente i cartelli? «Sebbene l’Acled non monitori direttamente la corruzione, l’Indice di percezione della corruzione di Transparency International evidenzia punteggi costantemente bassi per Haiti, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago e Giamaica. Haiti è un caso eclatante: decenni di clientelismo politico e finanziamento diretto delle bande hanno alimentato l’acuta crisi di sicurezza che si sta verificando oggi. In tutta la regione, la collusione tra le forze dell’ordine e le bande facilita l’accesso alle armi e la protezione per le operazioni di traffico. La Giamaica e Trinidad e Tobago sono state oggetto di indagini per reati finanziari legati alla droga, mentre giurisdizioni offshore come le Isole Vergini Britanniche e le Isole Cayman sono sfruttate dai gruppi criminali per il riciclaggio di denaro».Qual è il ruolo della ‘ndrangheta e della mafia albanese? «All’Acled registriamo principalmente episodi di violenza, e le grandi organizzazioni internazionali come la ‘ndrangheta o la mafia albanese evitano generalmente la violenza aperta per proteggere le loro operazioni. La loro attività non è direttamente visibile nei nostri dati, ma la loro influenza è significativa. Il loro ruolo può essere inteso sia logistico che strategico. Sul fronte logistico, essi fanno ampio ricorso a bande locali che subappaltano per facilitare i trasferimenti, riducendo al minimo l’esposizione. Allo stesso tempo, la ‘ndrangheta in particolare è fondamentale per il finanziamento di grandi spedizioni, la definizione della domanda transatlantica e l’indirizzamento delle destinazioni finali in Europa. Le richieste rivolte a questi gruppi, e agli attori transnazionali in generale, contribuiscono ai flussi e aggravano la concorrenza tra i gruppi locali. La presenza della ‘ndrangheta è meglio documentata, in particolare nella Repubblica Dominicana, a Curaçao, a Sint Maarten e in Guyana. La mafia albanese, sebbene meno visibile nei Caraibi, è stata segnalata nella Repubblica Dominicana e mantiene una forte presenza in Colombia, dove è prodotta la cocaina».La presenza delle mafie europee influisce solo sui flussi di traffico o anche sulla violenza interna nei Caraibi? «L’attività delle mafie europee, così come quella di altri gruppi transnazionali dediti al traffico, quali i gruppi colombiani, i cartelli messicani e il Tren de Aragua venezuelano a Trinidad e Tobago, ha un impatto sulle tendenze della violenza nei Caraibi. I Paesi e i territori in cui Acled monitora la violenza delle bande, come Giamaica, Trinidad e Tobago, Haiti e Porto Rico, hanno tutti registrato un aumento dei livelli di violenza negli ultimi anni. Altrove, dove Acled non monitora la violenza delle bande, i tassi di omicidio sono aumentati in diversi Paesi. La loro attività ha ampliato il mercato locale della droga e ha aperto nuove opportunità alle bande caraibiche che si sono posizionate come affiliate a contratto di questi gruppi transnazionali. A sua volta, l’espansione dei mercati criminali locali ha contribuito a un’escalation delle lotte di potere interne tra le bande che competono per il controllo dei corridoi di contrabbando e delle quote di mercato, portando alla frammentazione del panorama delle bande locali. Parallelamente, un aumento dell’afflusso di armi, contrabbandate principalmente dagli Stati Uniti e, più recentemente, dal Venezuela a Trinidad e Tobago, ha ulteriormente esacerbato questi conflitti».
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Dimenticate i Caraibi da cartolina. Oggi le isole tanto amate dai turisti sono un crocevia di droga, armi e tratta di esseri umani. E lì si concentra un terzo degli omicidi mondiali.Il bandito Jimmy «Barbecue» Chérizier controlla di fatto la capitale di Haiti. E si proclama difensore dei poveri.L’esperta Sandra Pellegrini: «La pressione americana sul Messico ha dirottato i flussi in questa regione. La ‘ndrangheta ha un ruolo strategico».Lo speciale contiene tre articoli.Dietro l’immagine da cartolina dei Caraibi si nasconde un processo silenzioso ma implacabile: l’avanzata delle organizzazioni criminali che stanno trasformando le isole in un hub globale di narcotraffico, traffici d’armi e tratta di esseri umani. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga ed il crimine (Unodc), la regione, che rappresenta appena il 9% della popolazione mondiale, concentra circa un terzo degli omicidi registrati a livello planetario. È un dato che da solo misura la portata di una crisi che sta superando i confini locali per assumere dimensioni geopolitiche. La geografia è il primo alleato dei clan. Le centinaia di isole disseminate tra l’Atlantico e il Mar dei Caraibi, i confini marittimi difficili da controllare, le rotte che collegano Sudamerica, Nordamerica ed Europa: tutto concorre a rendere questa fascia un corridoio perfetto per la cocaina colombiana e venezuelana diretta verso gli Stati Uniti. Secondo le stime di Dialogo Américas, oltre il 14% della droga prodotta in Sudamerica transita oggi attraverso i Caraibi, generando profitti miliardari che rafforzano gruppi locali e cartelli esterni. Non si tratta soltanto di narcotraffico. Il commercio di armi è diventato un moltiplicatore di violenza. Molti arsenali provengono dal contrabbando statunitense, altri dalle scorte residue di guerre civili africane o conflitti centroamericani. Il risultato è che le bande caraibiche, spesso composte da poche centinaia di uomini, dispongono di un potere di fuoco superiore a quello delle forze di polizia. L’Onu avverte che in molte aree le autorità statali si dichiarano «sopraffatte» dalla potenza di fuoco delle organizzazioni criminali, dotate di armi automatiche e lanciarazzi. A peggiorare il quadro, sottolinea il rapporto, è la corruzione diffusa tra funzionari pubblici a ogni livello, che indebolisce ulteriormente la capacità di risposta delle istituzioni.La conseguenza diretta è l’aumento esponenziale degli omicidi. A Saint Lucia il tasso di assassinii ha raggiunto quota 42,8 ogni 100.000 abitanti, superiore a quello di Honduras ed El Salvador, Paesi storicamente associati alla violenza delle maras. Nelle Barbados, considerate per decenni un’isola sicura, il numero di reati violenti è triplicato in dieci anni. In Giamaica, secondo i dati ufficiali del 2024, sono stati registrati oltre 1.500 omicidi, quasi la metà dei quali collegati a conflitti tra bande rivali. Il caso più drammatico resta Haiti, epicentro di un collasso statale che ha assunto le proporzioni di una catastrofe. Port-au-Prince è ormai una città divisa tra gruppi armati. La coalizione di differenti gang, conosciuta come Viv Ansanm (vivere insieme), controlla più dell’80% della capitale, imponendo tasse illegali, sequestri e regolando persino l’accesso agli ospedali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, dall’inizio del 2025 sono stati uccisi più di 3.100 civili e 1,3 milioni di persone hanno abbandonato le proprie case. L’incendio che ha distrutto il leggendario Hotel Oloffson, icona della cultura haitiana, è diventato il simbolo della caduta di un Paese nelle mani delle gang.La comunità internazionale osserva con crescente preoccupazione. La Comunità Caraibica, riunitasi a Montego Bay, ha definito la violenza ad Haiti «una minaccia esistenziale» per l’intera regione, chiedendo un’azione coordinata sul modello della lotta al terrorismo. Ma gli sforzi di sicurezza sono ancora frammentati. La missione multinazionale guidata dal Kenya, che avrebbe dovuto schierare oltre 2.500 uomini, a oggi ne ha dispiegati meno della metà. Nel frattempo, il vuoto è stato colmato da attori controversi: Erik Prince, ex fondatore della compagnia militare privata Blackwater, ha annunciato un accordo decennale con il governo haitiano attraverso la sua nuova società Vectus Global per inviare centinaia di contractors. Una scelta che ha sollevato critiche per il rischio di trasformare Haiti in un laboratorio di guerra privatizzata. Gli Stati Uniti hanno reagito con misure drastiche. Il Dipartimento di Stato ha inserito gli affiliati a Viv Ansanm nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere. Un gran giurì federale ha incriminato Jimmy «Barbecue» Chérizier, ex poliziotto divenuto capo gang, accusandolo di massacri di civili. Su di lui pende una taglia di cinque milioni di dollari. Washington accusa Chérizier di aver ordinato almeno tre stragi tra il 2021 e il 2024 e di gestire una rete di riciclaggio che passa attraverso le rimesse della diaspora haitiana negli Stati Uniti e in Canada. Il quadro umanitario è disastroso. L’appello delle Nazioni Unite per raccogliere 900 milioni di dollari destinati a cibo, acqua e assistenza sanitaria è stato finanziato solo al 9%, uno dei livelli più bassi al mondo. Programmi alimentari segnalano che almeno cinque milioni di haitiani soffrono di insicurezza alimentare acuta. La scarsità di fondi ha già costretto diverse Ong a sospendere le attività di distribuzione, lasciando interi quartieri senza sostegno.Ma Haiti è solo il punto più visibile di una crisi più ampia. In tutta l’area caraibica, la criminalità organizzata si intreccia con la politica e con le fragilità istituzionali. In Trinidad e Tobago, il ministro della Sicurezza nazionale Fitzgerald Hinds ha ammesso che «i confini marittimi sono troppo estesi per essere controllati». A Porto Rico, secondo un’inchiesta dell’Fbi, clan locali collaborano direttamente con i cartelli messicani per la gestione delle spedizioni di droga. In Repubblica Dominicana, il presidente Luis Abinader ha dichiarato che «la stabilità della nazione è minacciata dal narcotraffico che penetra ovunque, anche nelle istituzioni pubbliche». Secondo la Banca Mondiale, la criminalità organizzata costa alla regione fino al 3% del Pil annuo, una cifra che equivale a decine di miliardi di dollari sottratti a investimenti in infrastrutture, scuola e sanità. Il dato più preoccupante riguarda però la percezione della popolazione: un sondaggio condotto nel 2024 ha rivelato che oltre il 60% degli abitanti dei Caraibi non crede più che lo Stato sia in grado di proteggerli. È il segno di un’erosione della legittimità che rischia di consolidare il potere dei clan come alternativa alle istituzioni. La crisi dei Caraibi non è dunque un problema periferico, ma un banco di prova globale. La regione è oggi il crocevia dove convergono le rotte della cocaina sudamericana, del traffico d’armi e della tratta di persone dirette verso Stati Uniti ed Europa. Se non verrà affrontata con risorse adeguate, cooperazione internazionale e strategie di sviluppo inclusivo, il rischio è che l’immagine di paradiso tropicale lasci spazio a un futuro dominato dalla violenza organizzata e dal collasso statale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tropico-del-crimine-2673914154.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="da-poliziotto-a-spietato-capo-gang-la-parabola-di-barbecue-cherizier" data-post-id="2673914154" data-published-at="1756110883" data-use-pagination="False"> Da poliziotto a spietato capo gang. La parabola di «Barbecue» Chérizier Il nome di Jimmy «Barbecue» Chérizier è ormai indissolubilmente legato alla crisi haitiana. Ex poliziotto, oggi capo della coalizione criminale Viv Ansanm, Chérizier incarna la trasformazione di un Paese in cui lo Stato ha perso il controllo e la violenza è diventata sistema di governo. La sua parabola, da agente della polizia nazionale a leader delle bande armate di Port-au-Prince, è la storia di un uomo che ha saputo sfruttare il caos per imporsi come arbitro della capitale.Cresciuto nei quartieri poveri della città, ha fatto carriera nella Brigata di intervento speciale, dove si è guadagnato una fama di uomo spietato, tanto che già allora veniva accusato di eccessi e brutalità. Diversi rapporti internazionali lo collegano a massacri in quartieri popolari, spesso a danno di comunità ostili al potere politico. Quando fu allontanato dalla polizia, aveva già costruito una rete che gli permise di passare dalla divisa allo status di capo criminale.Il soprannome «Barbecue», che lui attribuisce alla passione per il cibo alla griglia, evoca invece per molti haitiani le sue azioni violente: corpi carbonizzati, case date alle fiamme, intere comunità ridotte in cenere. Nel 2020 ha fondato la gang G9, alleanza di nove bande che controllano i principali quartieri di Port-au-Prince. Attraverso intimidazione e omicidi mirati, il gruppo ha imposto un dominio territoriale che tocca trasporti, commercio e persino l’accesso agli aiuti umanitari. Oggi è a capo della federazione di gang Viv Ansam, formatasi nel 2023 come coalizione delle due principali fazioni operanti a Port-au-Prince, G-9 e G-Pèp.Nelle sue apparizioni pubbliche, Chérizier indossa mimetiche, circondato da uomini armati, e si proclama rivoluzionario. Dice di voler difendere i poveri dalle élite corrotte, presentandosi come un leader politico più che come un criminale. Ma i fatti parlano chiaro: rapimenti, riscatti, estorsioni e traffici di armi e droga costituiscono l’ossatura del suo potere. Secondo le Nazioni Unite, le bande da lui guidate sono responsabili di migliaia di vittime e decine di migliaia di sfollati interni. La sua ascesa è stata favorita dal vuoto istituzionale seguito all’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021. Il governo provvisorio è apparso impotente, mentre la polizia, mal pagata e sotto organico, ha perso il controllo della capitale. In questo contesto Barbecue si è trasformato in una sorta di autorità parallela, capace di bloccare porti, strade e depositi di carburante per esercitare pressioni sui vertici politici. In più occasioni ha imposto condizioni al governo, mostrando di poter paralizzare il Paese.Sul piano internazionale, Chérizier è stato colpito da sanzioni da parte di Stati Uniti e Canada, che gli hanno congelato beni e vietato viaggi. L’Onu lo accusa di gravi violazioni dei diritti umani e ha chiesto misure per arrestarlo. Tuttavia, nonostante condanne e pressioni diplomatiche, continua a muoversi liberamente, protetto dalla fedeltà dei suoi uomini e dal sostegno di chi, nei quartieri più poveri, lo considera un difensore contro l’abbandono dello Stato. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tropico-del-crimine-2673914154.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="e-un-corridoio-per-la-cocaina-diretta-in-europa" data-post-id="2673914154" data-published-at="1756110883" data-use-pagination="False"> «È un corridoio per la cocaina diretta in Europa» Sandra Pellegrini, analista senior presso Acled, coordina l’analisi dei conflitti in America Latina e nei Caraibi.Quali sono le principali rotte del traffico di cocaina nei Caraibi oggi? «I Caraibi rimangono un hub fondamentale per il traffico di cocaina, con la maggior parte delle spedizioni che provengono dalla Colombia e transitano attraverso il Venezuela prima di raggiungere la regione. Da lì, la droga viene convogliata verso Usa e Europa. Questo corridoio è diventato sempre più importante dal 2010, quando l’intensificarsi della pressione statunitense lungo il Messico e l’America Centrale ha dirottato i flussi verso i Caraibi. I principali porti e aeroporti - Kingston, Caucedo, San Juan, Port of Spain - rimangono nodi centrali, ma i trafficanti si affidano a piccole imbarcazioni per sbarcare i carichi su coste meno sorvegliate. Una volta nei Caraibi, i carichi vengono spesso spostati all’interno dei paesi e da un paese all’altro prima di essere caricati su navi più grandi dirette verso gli Stati Uniti o l’Europa, dove i trafficanti sfruttano sempre più i legami di lunga data tra gli Stati europei e i loro territori d’oltremare. Anche Panama è emersa come punto di transito, con alcune spedizioni che passano attraverso i porti caraibici, come nel caso del sequestro nel 2024 a Santo Domingo di cocaina spedita da Panama e destinata ad Anversa, in Belgio».In quali Paesi la corruzione statale favorisce maggiormente i cartelli? «Sebbene l’Acled non monitori direttamente la corruzione, l’Indice di percezione della corruzione di Transparency International evidenzia punteggi costantemente bassi per Haiti, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago e Giamaica. Haiti è un caso eclatante: decenni di clientelismo politico e finanziamento diretto delle bande hanno alimentato l’acuta crisi di sicurezza che si sta verificando oggi. In tutta la regione, la collusione tra le forze dell’ordine e le bande facilita l’accesso alle armi e la protezione per le operazioni di traffico. La Giamaica e Trinidad e Tobago sono state oggetto di indagini per reati finanziari legati alla droga, mentre giurisdizioni offshore come le Isole Vergini Britanniche e le Isole Cayman sono sfruttate dai gruppi criminali per il riciclaggio di denaro».Qual è il ruolo della ‘ndrangheta e della mafia albanese? «All’Acled registriamo principalmente episodi di violenza, e le grandi organizzazioni internazionali come la ‘ndrangheta o la mafia albanese evitano generalmente la violenza aperta per proteggere le loro operazioni. La loro attività non è direttamente visibile nei nostri dati, ma la loro influenza è significativa. Il loro ruolo può essere inteso sia logistico che strategico. Sul fronte logistico, essi fanno ampio ricorso a bande locali che subappaltano per facilitare i trasferimenti, riducendo al minimo l’esposizione. Allo stesso tempo, la ‘ndrangheta in particolare è fondamentale per il finanziamento di grandi spedizioni, la definizione della domanda transatlantica e l’indirizzamento delle destinazioni finali in Europa. Le richieste rivolte a questi gruppi, e agli attori transnazionali in generale, contribuiscono ai flussi e aggravano la concorrenza tra i gruppi locali. La presenza della ‘ndrangheta è meglio documentata, in particolare nella Repubblica Dominicana, a Curaçao, a Sint Maarten e in Guyana. La mafia albanese, sebbene meno visibile nei Caraibi, è stata segnalata nella Repubblica Dominicana e mantiene una forte presenza in Colombia, dove è prodotta la cocaina».La presenza delle mafie europee influisce solo sui flussi di traffico o anche sulla violenza interna nei Caraibi? «L’attività delle mafie europee, così come quella di altri gruppi transnazionali dediti al traffico, quali i gruppi colombiani, i cartelli messicani e il Tren de Aragua venezuelano a Trinidad e Tobago, ha un impatto sulle tendenze della violenza nei Caraibi. I Paesi e i territori in cui Acled monitora la violenza delle bande, come Giamaica, Trinidad e Tobago, Haiti e Porto Rico, hanno tutti registrato un aumento dei livelli di violenza negli ultimi anni. Altrove, dove Acled non monitora la violenza delle bande, i tassi di omicidio sono aumentati in diversi Paesi. La loro attività ha ampliato il mercato locale della droga e ha aperto nuove opportunità alle bande caraibiche che si sono posizionate come affiliate a contratto di questi gruppi transnazionali. A sua volta, l’espansione dei mercati criminali locali ha contribuito a un’escalation delle lotte di potere interne tra le bande che competono per il controllo dei corridoi di contrabbando e delle quote di mercato, portando alla frammentazione del panorama delle bande locali. Parallelamente, un aumento dell’afflusso di armi, contrabbandate principalmente dagli Stati Uniti e, più recentemente, dal Venezuela a Trinidad e Tobago, ha ulteriormente esacerbato questi conflitti».
Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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Sergio Mattarella (Ansa)
Dite che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona? Forse non avete tutti i torti. Però è esattamente quello che è successo. Alla XVIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori, Mattarella si è lasciato possedere dallo spirito di Kaja Kallas e ha impugnato lo spadone: «Permane l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina», ha detto, «con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa. Infrangere questo principio è un’azione ritenuta irresponsabile e inammissibile già oltre cinquanta anni addietro nella Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e sicurezza nel continente». Quindi anche il bombardamento di Belgrado era già un’azione «ritenuta irresponsabile e inammissibile»...
Ma il particolare non ha turbato l’uomo del Colle, che ha proseguito bellicoso: «Appare, a dir poco, singolare che, mentre si affacciano, in ambito internazionale, esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti dell’Unione europea, alterando la verità e presentandola, anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della libertà». Oplà: sistemati anche i nemici della meravigliosa e infallibile Unione europea «apprezzata dall’intero Occidente». Intero. E pazienza se anche alcuni scudieri del sovrano del Quirinale, segnatamente Enrico Letta e Mario Draghi, si sono recentemente azzardati a criticare anche aspramente l’architettura parasovietica allestita a Bruxelles. Per Mattarella è l’ora delle decisioni irrevocabili: «È evidente che è in atto un’operazione, diretta contro il campo occidentale, che vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori, separando i destini delle diverse nazioni. Non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori».
Ecco, non sono consentiti errori. E allora perché, proprio mentre si tratta a Berlino, il presidente della Repubblica compie un’invasione di campo così clamorosa? Come mai è tanto ansioso di metterci in rotta di collisione con la Russia da superare in oltranzismo i Volenterosi e persino lo stesso Zelensky, ormai pragmaticamente orientato a discutere per evitare la catastrofe finale al suo popolo stremato? Che cosa hanno in testa Mattarella e il suo consigliere Francesco Saverio Garofani, che siede ancora con lui (e con Giorgia Meloni) nel Consiglio supremo di Difesa malgrado le imbarazzanti frasi, rivelate dalla Verità, su «provvidenziali scossoni» per impedire alla stessa leader di Fratelli d’Italia di rivincere le elezioni e, orrore, magari insediare qualcuno non di sinistra sul Colle più alto di Roma?
Il Quirinale, con la docile stampa al seguito, si è affrettato a far calare una cappa di silenzio su quella voce dal sen fuggita che rivelava desideri e trame di chi sussurra all’orecchio di Mattarella. Ma ora è il capo dello Stato in persona a uscire allo scoperto. È lui a dare sulla voce al premier, che pochi giorni fa, accogliendolo a Roma, ha parlato a Zelensky della necessità di fare «dolorose concessioni». È lui a dare una linea alternativa (anche al sé stesso più giovane) in politica estera, esondando dalle sue funzioni. Ennesima dimostrazione che l’opposizione vera a questo governo si fa sul Colle. E che forse Garofani non esprimeva solo considerazioni personali.
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Il titolare del supermercato Conad City, che si trova a ridosso del centro storico della città, dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del suo negozio, ha deciso di dotare le dipendenti, e in particolare le cassiere, di spray al peperoncino da tenere a portata di mano durante il turno di lavoro.
Pochi giorni fa, infatti, a metà mattinata, due ubriachi sono entrati con cattive intenzioni e mentre uno si dirigeva verso il reparto alcolici, l’altro si è avvicinato ai banchi dell’ortofrutta e, afferrato un grappolo d’uva, si è messo a mangiare con gusto, cerando di farsi consegnare denaro dai presenti. Invitati ad allontanarsi, i due, hanno reagito con violenza minacciando il titolare del negozio e spaventando il resto del personale, costretto a rifugiarsi nel box informazioni per la paura di essere assalito. Decisivo l’intervento della figlia del proprietario che, vista la situazione di pericolo, con un impeto di coraggio ha sfoderato lo spray al peperoncino e messo in fuga i due. Da lì l’idea di dotare tutte le cassiere del presidio deterrente: «Le cassiere sono giovani e hanno paura» ha dichiarato il titolare alla tv locale, ricordando altri tre episodi simili avvenuti nel giro di un solo mese, uno dei quali costato la frattura di una mano ad un dipendente che cercava di difendere una collega.
Recentemente Il Sole 24 Ore ha posizionato la Provincia di Treviso al primo posto in Italia per numero di minori coinvolti in rapine e aggressioni perché, in città e nel suo comprensorio, il 9,5% delle persone denunciate o arrestate per atti violenti è risultato essere un under 18 (il dato nazionale si ferma al 5%). E insieme ai dati anche le cronache recenti confermano il trend.
A meno di un chilometro di distanza dal supermercato con le cassiere costrette ad «armarsi», dalla parte opposta del centro cittadino, una settimana fa, in una serata di movida, dieci maranza hanno accerchiato e brutalmente pestato quattro giovani i trevigiani, colpevoli solo di aver risposto per le rime alle offese pronunciate dalla gang, con l’intento di provocare. In risposta allo scambio colorito di epiteti uno degli stranieri ha colpito uno dei rivali e, per tentare di far rientrare la situazione, un amico è corso a difenderlo. A quel punto, però, il gruppo di maranza si è accanito su di lui colpendolo al volto, rompendogli mandibola e orbita, e ferendo gli altri con calci e colpi sferrati con il tirapugni. In risposta all’episodio, il comitato Prima i Trevigiani, in sinergia con Azione Studentesca, si è recato nei luoghi dell’aggressione, affiggendo uno striscione con su scritto «Baby gang e maranza, è finita la tolleranza». «Siamo stanchi di associare la nostra generazione a questi atti di teppismo e criminalità. Treviso ha dato prova di una lunga pazienza, ma ora siamo al limite. Chiediamo fermezza immediata, più controlli e l'applicazione di sanzioni esemplari per ripristinare il diritto alla sicurezza e alla serenità di tutti i trevigiani. La tolleranza verso chi semina il panico è ufficialmente finita», ha dichiarato Federico Piasentin, referente giovani del Comitato. A fargli eco il presidente, Leonardo Capion, che ha spiegato: «La violenza nella nostra città, messa in atto da parte di queste bande, va avanti da tempo, anche se in questo periodo è diventata ancora più frequente e comincia ad essere sotto i riflettori. Come Comitato raccogliamo un numero sempre più alto di segnalazioni e di adesioni dai cittadini stanchi della paura di subire assalti e di non poter vivere liberamente le strade e i luoghi pubblici e proseguiremo con le passeggiate che già da tempo organizziamo per la città come forma di deterrenza».
Per Capion «il problema principale è che la giustizia è troppo lenta nel fare il suo corso e che i violenti sono molto spesso minorenni verso cui le pene sono tutt’altro che severe».
In effetti proprio a distanza di un anno dalla morte di Favaretto, il giovane sgozzato con un vetro il 12 dicembre 2024 durante una rissa, è arrivata, per quattro dei sei ragazzi che lo aggredirono, un maxi sconto di pena. Due ragazzi e due ragazze che presero parte al pestaggio, rinviati a giudizio per omicidio volontario aggravato dall’intenzione di effettuare una rapina e di rapina in concorso, hanno chiesto il rito abbreviato e ottenuto la messa alla prova. Non finiranno in carcere ma se la caveranno dedicandosi ai lavori sociali. E nemmeno lavoreranno gratis: per le loro mansioni saranno retribuiti, in modo da poter - secondo i giudici - risarcire la mamma di Francesco nell’ottica di una «giustizia riparativa».
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Se per i Maya erano oggetto di venerazione quasi religiosa, tanto era il loro riconosciuto valore non solo economico, per gli europei coltivare il cacao era troppo complesso e, in seguito, ci si «accontentò» di mangiarne le fave importate in forma di cioccolata. L’Europa iniziò a conoscere per bene la cioccolata in tazza dopo il 1517. In quell’anno il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés era sbarcato anch’egli sull’attuale Messico e l’imperatore azteco Montezuma II gli aveva fatto conoscere la «chocolatl», il trito di fave di cacao e mais cotto con acqua e miele che l’imperatore beveva come afrodisiaco. Quando Cortés, morto Montezuma II e conquistato l’impero azteco, divenne governatore, esportò stabilmente la cioccolata presso la corte spagnola di Carlo V. Da lì, la squisita bevanda divenne in breve tempo una specie di ambrosia dei nobili poiché consumarla voleva dire acquisire un vero e proprio status symbol: solo il nobile poteva bere l’esotica e buonissima cioccolata quando voleva. Pensate che Carlo V la mandava come regalo di nozze quando un familiare sposava un nobile di altra nazione e, addirittura, questo farne dono fu il primo modo di diffusione della cioccolata nel resto d’Europa. Inoltre, un po’ come un vero chef, Carlo V non dava la sua ricetta e perciò si svilupparono diverse varianti. E perfino diversi luoghi dedicati dove trovarla per berla, quando era diventata accessibile anche ai borghesi. A Londra, nel 1657 nacque la prima Chocolate house, sulla scia delle Coffee house, e poi in tutta la Gran Bretagna si diffusero tante altre chocolate house, oggi in Italia le chiameremmo cioccolaterie, luoghi nei quali bere la cioccolata e intrattenersi. Dai Maya a noi la cioccolata calda ha fatto tanta strada in ogni senso. Un po’ come la pizza o la pasta, la cioccolata calda è diventata un’icona pop che più passa il tempo più espande la sua costellazione di innovazioni che insieme la confermano e la mutano.
La cioccolateria contemporanea ci ha dato innanzitutto la cioccolata calda fatta con cioccolato diverso da quello al latte o fondente: c’è la cioccolata calda bianca fatta con cioccolato bianco, che a sua volta può essere aromatizzata e quindi possiamo trovare anche la cioccolata calda di colore verde e al sapore di pistacchio, per esempio. E c’è la cioccolata calda rosa realizzata col cioccolato ruby, un cioccolato fatto con fave di cacao provenienti da Ecuador, Costa d’Avorio e Brasile che contengono naturalmente pigmenti rosa. La cioccolata si può preparare sia con il cioccolato tritato, in questo casa potrà essere al latte, fondente, bianca oppure ruby, sia con il cacao. Al di là del tipo di materia prima usata, la cioccolata calda si può poi ormai declinare in mille modi, non solo nel laboratorio della propria cucina, dove basta aggiungere una spolverizzata di cacao oppure di cannella in cima, sia che ci sia panna, sia che non ci sia. O di peperoncino oppure, perché no?, di pepe. I cafè nei quali si beve cioccolata calda hanno i propri mix oppure offrono il menu completo dei mix pensati da produttori artigianali o industriali di preparati per cioccolate in busta. Il marchio apripista in questa direzione fu Eraclea, fondato a Milano circa 50 anni fa e passato dal 2010 al gruppo Lavazza. Quel preparato in busta che decenni or sono era pioneristico oggi è diventato un genere di prodotti e molti fanno il proprio, dalla storica pasticceria Marchesi di Milano al pasticcere torinese Guido Gobino passando per Antonino Cannavacciuolo e le sue choco bomb, versione solida e sferica del preparato, e il Ciobar, l’offerta per preparare una squisita cioccolata in tazza a casa seguendo semplicemente le istruzioni sulla confezione degli ingredienti predosati è vastissima e spazia fin dove si può spaziare. Cioccolata con tocco crunchy? Basta aggiungere granella di nocciole, di pistacchi, perfino bacche di Goji. Cioccolata salata (parzialmente)? Nessun problema, c’è la cioccolata con caramello salato. Cioccolata vegana (recentemente anche la gelateria Grom, artefice di una cioccolata in tazza super cremosa, ha modificato la ricetta per renderla vegana)? Ancora nessun impedimento, basta sostituire il latte con bevanda vegetale. La più sorprendente è sicuramente quella che sembra la negazione della cioccolata calda: la cioccolata fredda. In realtà, si tratta di una versione che destagionalizza la cioccolata calda, disponibile in concomitanza con l’arrivo del freddo per tutta la stagione autunnale e invernale, fino alla primavera. La cioccolata fredda si oppone a questa stagionalità e rendendola estiva attua l’estensione della cioccolata calda a tutto l’anno, naturalmente però raffreddandola. Si prepara con gli stessi ingredienti, ma poi si fa freddare in frigo e si gusta quando fa caldo per rinfrescarsi, non quando fa freddo per riscaldarsi. A proposito di riscaldarsi, sapevate che in montagna è prassi bere una cioccolata calda per contrastare il clima chiaramente molto freddo e riprendere energia dopo una giornata di sci alpino? Deriva da questo l’idea che l’ora della cioccolata calda sia le 16:30, in (giocosa) differenziazione rispetto alle 17, l’ora del tè.
La cioccolata calda è considerata un comfort food e insieme un peccato di gola. Conosciamone meglio le caratteristiche e come trarne il massimo beneficio per la nostra salute ed il nostro benessere.
In 100 ml di cioccolata calda preparata con cioccolato, latte intero, zucchero, un po’ di addensante (qualunque farina oppure amido o fecola) troviamo circa 90 calorie, per il 60% derivanti da carboidrati, per il 25% da grassi e per il 15% da proteine. Fate attenzione perché spesso le tazze sono da 200 ml, quindi considerate 180 calorie. Inoltre, più la cioccolata è densa, più è calorica. Per diminuire i carboidrati si può eliminare lo zucchero, per diminuire un po’ di proteine e di grassi si può usare l’acqua al posto del latte, per diminuire tutto, grassi, proteine e carboidrati, si può usare il cacao magro al posto della cioccolata. Un cucchiaio raso di panna montata aggiunge circa 20 calorie. Durante la stagione fredda, caratterizzata anche dalla diminuzione delle ore di luce, la cioccolata calda è sicuramente un momento di piacere gastronomico, ma anche una spinta energetica per il nostro organismo e per il nostro umore. I flavonoidi hanno effetto antiossidante che aiuta anche la salute del sistema cardiocircolatorio. Grazie a triptofano, feniletilamina e teobromina di cacao o cioccolato, che stimolano la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina (il cosiddetto ormone della felicità) e le endorfine (che riducono dolore e stress), una cioccolata in tazza solleva il nostro umore, funge da antistress e ci dona serenità anche nei giorni no. Migliorano anche la memoria e la concentrazione e aumenta un pochino il livello di alcuni sali minerali (potassio, rame, magnesio e ferro). Inoltre, abbiamo sollievo se abbiamo la gola secca e ci scaldiamo: la bevanda, infatti, scalda la bocca, la trachea, lo stomaco e quindi il nucleo centrale del nostro organismo, la parte interna costituita dal busto, che protegge gli organi e che in inverno va protetta dal freddo per mantenere la sua temperatura ottimale di circa 37 gradi centigradi. Inoltre, la cioccolata calda ci dà l’energia che serve al nostro organismo per attuare le sue pratiche anti freddo. Funziona così: il nostro guscio periferico (capo, arti, pelle, muscoli, grasso) cerca di minimizzare la dispersione termica dovuta al fatto che la temperatura esterna è molto bassa tramite la vasocostrizione che diminuisce il flusso sanguigno. Il calore che serve a mantenere il nostro nucleo centrale a 37 gradi (pena malanni o malesseri anche letali se la temperatura scende di troppo) viene prodotto nel nucleo centrale attraverso il metabolismo, che trasforma il cibo in kilocalorie e si trasferisce verso il guscio. Quando fa freddo, il corpo riduce questo trasferimento per conservare il calore centrale, a scapito della temperatura periferica. Tutto questo è un lavoro continuo del nostro organismo, di cui non ci accorgiamo e che richiede molte kilocalorie. Le pratiche che il nostro organismo mette in atto per riscaldarci in inverno ci richiedono e ci fanno consumare molte più calorie di quelle che esso mette in atto per disperdere il calore in estate, perciò mangiamo di più in inverno, perché consumiamo più kilocalorie per mantenere la nostra temperatura interna a circa 37 gradi di quante ne consumiamo in estate per non farla aumentare troppo oltre i 37 gradi. Non bisogna certamente esagerare nel bere cioccolata calda, soprattutto pensando ai grassi (per riscaldarsi va bene anche un tè caldo senza zucchero), ma concedersi una cioccolata di tanto in tanto non può che fare bene. Ultimi consigli. Se avete mal di gola o in generale siete raffreddati, aggiungete in cima alla vostra cioccolata calda polvere di peperoncino, di cannella, di curry, di curcuma. Se avete problemi digestivi, polvere di té verde, di té matcha o di semi di finocchio.
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