2024-04-14
Vecchie armi e buio: dentro le trincee dove vanno a morire i soldati di Kiev
Un furgone trasporta in prima linea un mortaio del 1947. Il pezzo, però, ha una crepa ed è pericoloso usarlo. Il reportage da uno dei cunicoli in cui finiranno altri ucraini dopo l’approvazione della legge sul reclutamento.Solo quando fa buio ci si può muovere per raggiungere le trincee. Si viaggia su un vecchio furgone modificato per il fuoristrada, alla massima velocità e a fari spenti, completamente al buio. Solo l’autista dal nome di battaglia «Stalker» ha il visore notturno e guida come un pilota da rally lungo le piste che portano al fronte, raggiungendo una velocità anche di 120 chilometri orari.A bordo nessuna antenna antidrone, solo l’alta velocità diminuisce le probabilità di essere visti e puntati da un velivolo armato. I ragazzi stanno tutti in silenzio, rannicchiati sul pavimento tra uno zaino e l’altro, aggrappati a ciò che possono. Ognuno è assorto nei propri pensieri, ognuno esorcizza il tempo alla propria maniera. Il viaggio verso le posizioni di combattimento è un momento introspettivo, sei vulnerabile in campo aperto perché il motore caldo della macchina è visibile ai visori termici dei droni da molto lontano, è uno di quei momenti dove ci si affida a Dio o al destino.Siamo sul fronte, quel nuovo fronte frutto delle conquiste russe in questa zona del Donbass con la presa della città di Avdiivka. Qui c’è bisogno di tenere le linee, i russi attaccano senza sosta e il mortaio 120 millimetri fabbricato in Repubblica Ceca nel 1947 che i ragazzi trasportano è fondamentale per la difesa della fanteria nelle linee più avanzate: è anche in posti così che, specie dopo la legge sul reclutamento approvata dal Parlamento di Kiev, andranno a morire altri ucraini.Una volta arrivati si esce fuori dal mezzo. In quattro prendono il pesante pezzo d’artiglieria e lo trasportano verso la piazzola di tiro dove viene posizionato. Inizia quello che il comandante dell’unità chiama il «gioco dell’attesa».Per fare il mortaista devi avere almeno tre doti: un grande senso di appartenenza, responsabilità e la capacità di non annoiarti. Devi saper stare in tre metri quadrati sotto terra con altre tre o quattro persone, per giorni interi in attesa del messaggio con le coordinate, l’obiettivo indicato dall’intelligence. Bisogna raggiungere il mortaio entro pochi secondi, sia che si dorma, si mangi, si scavi, si costruisca una panca o si stia facendo i propri bisogni, bisogna scattare perché la differenza in un mortaista la fa la prontezza, la risposta rapida soprattutto quando si sta sparando per coprire i compagni sotto attacco.La vita dentro questo loculo scavato nella terra è sospesa, il tempo è sospeso, non ci sono orari, la luce è sempre la stessa, quella di una lampadina o di un filo led, luce bianca che ricorda quella degli ospedali. Giorno dopo giorno si inganna il tempo grazie al collegamento a Internet garantito da Starlink, così c’è chi guarda una partita tra Lazio e Milan, chi chatta con la fidanzata, chi prepara un borsch liofilizzato.Intanto, a ogni ordigno che cade vicino, la terra trema, la polvere cade dal soffitto, gli spostamenti d’aria delle esplosioni muovono la coperta appesa all’entrata del rifugio, si cerca di indovinare il tipo di ordigno dal suono e dal tipo di spostamento d’aria: un missile Grad, un S200, bombe a grappolo. Si spera di non dover mai dire la parola drone kamikaze che, anche se si sta dentro al rifugio, vuol dire morte sicura.È tardi, si capisce che questa missione non avrà successo. Non basta il fatto che ci siano pochissime munizioni a complicare la vita dei soldati: durante il montaggio del mortaio uno degli operatori si accorge di una crepa e di un ingranaggio allentato. Provano a ripararlo per due ore, al buio con la luce rossa per non essere visti, martello e smerigliatrice, leve e olio di gomito, ma niente. All’una di notte viene deciso che è troppo alto il rischio che esploda se usato in quello stato e che non si può continuare a usare la smerigliatrice le cui scintille producono luce e rendono individuabile la postazione. Alla radio viene richiamato «Stalker» che dalla base, a circa mezz’ora di distanza, torna a recuperare il gruppo con la sua sfortunata arma.Un chilometro più in là un’altra delle tre unità di mortaisti del battaglione, invece, ha un cannone funzionante e riesce a eseguire gli ordini. Ci sono due soldati, Ivan e Victor, che sono di Donetsk, la città a pochissimi chilometri da qui in mano ai russi dal 2014. Victor deve indossare il passamontagna, i suoi genitori sono ancora nei territori occupati da Mosca e si vedono solo in videochiamata da 10 anni.Non può mostrare il volto perché, se per caso i russi scoprissero che si è arruolato con le truppe di Kiev, la sua famiglia potrebbe subire delle ritorsioni. Ci racconta: «Per non rischiare, ho deciso di non dirgli che sto combattendo e che sono a pochi chilometri. Sono anziani, non capirebbero. A loro cambia poco, non conoscono il mondo che c’è di qua, hanno vissuto nell’Unione sovietica. Le nostre conversazioni sono semplici, veloci si parla del più e del meno, mai della guerra, ma ormai sono abituato così, forse un giorno li rivedrò».Ivrad, il più giovane di questa unità, ha una trentina di anni, parla poco, è malato, la solita influenza da trincea, si sveglia solo per bere e mandare giù uno dei pasticconi che gli ha dato la dottoressa polacca volontaria nel battaglione; «Bison», invece, nome di battaglia giustificato dalla sua stazza, sta seduto su un panchetto e scorre Instagram, poi passa a Facebook, Whatsapp, le notizie, la mappa degli aggiornamenti militari. È un tourbillon.Le ore scorrono, alla radio sentiamo le comunicazioni dalle trincee avanzate, i ragazzi dell’unità di assalto comandata da «Viking» scorgono movimenti con il visore notturno, le comunicazioni si fanno più agitate e poco dopo arriva la chiamata: «Coordinate, coordinate fra un minuto!». Saranno inviate via Whatsapp, che è più sicuro della radio. Scatta la sveglia per chi dorme, sono tutti fuori nel giro di 10 secondi, ognuno ha un compito definito. In due sono al mortaio, l’operatore principale al telemetro con l’assistente che gira le manovelle e poi lascerà scivolare dentro il proiettile. Victor prepara le cariche e i collari esplosivi che determinano la potenza di fuoco.Ivan è rimasto venti metri più in là, vicino al segnale di Starlink, è lui che dà coordinate e comandi urlando come un forsennato. Dopo il primo colpo il messaggio seguente è: «Dieci metri a sinistra, tre in avanti, veloci prima che si muovano». Così è fatto, obbiettivo raggiunto, si copre con le sterpaglie il mortaio e si torna dentro a dormire. Sono passati due minuti e potrebbero arrivare nuovi ordini ora, fra un’ora o domani. Si aspetta in quei pochi metri quadrati che volenti o nolenti ti uniscono fraternamente.Fuori, lungo la pista creata dai cingoli, si sente il motore di un mezzo da trasporto truppe ucraino con la fanteria a bordo. Non lo vediamo perché è buio pesto, ma lo sentiamo bene allontanarsi e dirigersi un paio di chilometri più in là sulla linea zero.Dopo poco si vede il bagliore di uno scoppio in quella direzione e si resta in ascolto della radio per capire se il mezzo passato poco prima sia stato colpito. «Coordinate, coordinate!». Questa volta sono soldati russi a piedi che stanno attaccando una posizione poco più sotto. Si spara subito il fuoco di copertura, il nemico desiste e torna indietro. Scorrono le ore, torna «Stalker» con un’unità che viene in sostituzione.Si fanno turni di 3 giorni in trincea e 3 giorni a riposo, ma sempre a disposizione dei compagni poco più in là, davanti al nemico.Noi siamo salvi, ma mentre scriviamo questo articolo ci arriva la notizia che Victor è morto. Stava andando in soccorso ai ragazzi che avevano finito le armi e avevano davanti a loro la fanteria russa. Ha imbracciato il fucile senza esitare, ma il gesto gli è stato fatale. Era diretto verso la sua città.
Edoardo Raspelli (Getty Images)
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