Trevi, trattative con le banche in corso. In ballo un nuovo giro di ristrutturazione

Trevi tratta con le banche per ristrutturare ancora il debito
Quella ciambella di salvataggio, lanciata dallo Stato via Cdp anni fa alla Trevi sta costando sempre più cara. La società cesenate, specializzata in ingegneria del sottosuolo, continua a navigare in acque perigliose da quando Cdp è entrata nel capitale nel lontano 2014.
Giorni fa la società ha dovuto annunciare il rinvio della pubblicazione del bilancio del 2021. Di solito non è quasi mai una buona notizia. In ballo ci sono le rinegoziazioni con le banche, divenute azioniste con oltre il 30% delle quote dopo le conversioni dei crediti in capitale. È scaduto infatti a inizio dell’anno l’accordo di moratoria e standstill con gli istituti di credito sottoscritto nell’estate del 2021.
E il gruppo ingegneristico, posseduto al 25% da Cdp e al 6,7% da Sace, sta provando a tutt’oggi a negoziare i termini di una nuova manovra finanziaria e di un rafforzamento patrimoniale con le banche. Si tratta di un nuovo giro di ristrutturazione, dopo il primo accordo con i finanziatori che data dal lontano 2019.
A oggi ancora non si sa se si troverà un’intesa che, nella prima versione dello scorso dicembre, prevedeva un aumento di capitale da 20 milioni; un ulteriore conversione di crediti in azioni da parte del pool di banche e un riscadenzamento del debito complessivo. Evidentemente la situazione continua a essere compromessa. Del resto basta vedere i numeri dell’indebitamento finanziario netto che ogni mese Trevi deve comunicare alla Consob, dato che figura nella lista nera delle società sotto stretta sorveglianza dell’Authority.
L’ultima fotografia è di fine marzo del 2022 e vede complessivamente un livello di indebitamento finanziario netto dell’intero Gruppo per 263 milioni di euro. Di cui a breve per ben 193 milioni. Tra l’altro a marzo risultavano scaduti debiti per un totale di 58 milioni, 20 finanziari e 38 commerciali. Subito dopo il primo accordo con le banche, a inizio del 2021 Trevi già non aveva rispettato il covenant sul rapporto tra mol e indebitamento.
Da qui la necessità di nuove rinegoziazioni che si trascinano da tempo. Anche il piano industriale ha dovuto essere rivisto, dimezzando di fatto la crescita annua dei ricavi attesa. E così il rinvio dell’approvazione dei conti la dice lunga sulla criticità della situazione. L’ultimo bilancio è quello lontano della semestrale del 2021 che vedeva una perdita per 29 milioni a fronte di ricavi per 216 milioni con un margine operativo lordo a 20 milioni. Non fa testo il bilancio precedente, chiuso con un utile di 250 milioni, frutto della plusvalenza dalla vendita della divisione Oil & gas, uno dei pilastri dell’accordo di ristrutturazione che ha visto l’azienda dimagrire cedendo asset. Sia i ricavi che il Mol erano in forte calo già a giugno del 2021 e si suppone che la seconda parte dell’anno sia stata ancora debole.
E così il peso di ben 263 milioni di debiti finanziari continua a pesare come un macigno sulla capacità dell’azienda (per anni proprietà della famiglia Trevisani) di andare avanti senza il sostegno di banche e Cassa depositi. Che ha visto il suo investimento complessivo di 140 milioni (101 milioni all’atto dell’ingresso nel 2014 e altri 39 milioni sotto forma di aumento di capitale nel 2020) andare di fatto bruciato. Oggi con il titolo che vale in Borsa solo 93 milioni, il 25% in capo a Cdp è valorizzato meno di 24 milioni. Un passivo per la Cassa di oltre 110 milioni per il salvataggio di Trevi. Un salvataggio non ancora andato in porto.
Chi pensava che i due trust Providence e Providence II con base alle Bahamas fossero gli unici forzieri segreti degli Agnelli si sbagliava. Per nascondere le proprie liquidità la famiglia «reale» torinese, dal 2014, aveva scelto di diversificare, puntando in un altro oceano, questa volta quello Pacifico e precisamente a Auckland, in Nuova Zelanda. Uno stratagemma che ha permesso agli Agnelli di non vedere mai tramontare il sole sul proprio patrimonio. Infatti quando a Torino sono le 22, a Nassau sono le 16 e ad Auckland le 8 del mattino successivo. Per capire di che cosa stiamo parlando bisogna tornare a occuparsi dell’ultimo esplosivo filone dell’inchiesta per frode fiscale (poi derubricata a infedele dichiarazione) e truffa ai danni dello Stato della Procura di Torino, un’indagine che ha costretto il presidente di Stellantis, John Elkann, a scendere a patti con gli inquirenti per ottenere la so di investimento con disponibilità finanziarie per circa 250 milioni di euro e che quello Specialized investment fund (Sif) era gestito, anzi schermato, da un trust neozelandese, il Piz Nair trustee Limited con sede nel centro direzionale Mahuhu Crescent di Auckland, allo stesso indirizzo del Cone Marshall group e della Cone Marshall limited.
Su Internet sono presenti i dati essenziali della società che fungerebbe da schermo del fondo di investimento: il direttore è, dall’1 dicembre 2014, ovvero dalla fondazione, Geoffrey Peter Phillip Cone, classe 1954, avvocato originario di Timaru (Nuova Zelanda). È lui l’uomo dei misteri: avrebbe ben cinque passaporti (di Nuova Zelanda, Argentina, Svizzera, Hong Kong e Sud Africa) e anche un permesso di soggiorno italiano. Avrebbe pure un domicilio vicino a Como. L’attuale residenza ufficiale sarebbe in Argentina, a Buenos Aires, dopo essere stata per anni a Maldonado, in Uruguay. Avrebbe incarichi in oltre 200 società in giro per il mondo. In Italia Cone è intestatario del 100 per cento della Cone Marshall trustees Srl (capitale sociale 2.000 euro), di cui è presidente, mentre in passato aveva l’intero pacchetto societario della Fistoy Italia Srl, di cui resta amministratore unico. Nel nostro Paese è anche legale rappresentante della Cetinale Limited. Dal 2017 è direttore di Piz Nair anche Claire Judith Cooke, quarantacinquenne neozelandese cresciuta in Sud Africa (parla in modo fluente inglese e afrikaans). La signora ha ruoli in 230 società.
Cone è presidente e tesoriere del Cone Marshall group, la Cooke è managing director e partner della Cone Marshall Limited. Insomma il tesoro degli Agnelli è stato affidato alle menti del sistema. Sul sito del gruppo è spiegata la specialità della casa: «La nostra competenza consiste nel fornire consulenza, istituire e gestire strutture per detenere proprietà internazionali per i nostri clienti, per proteggere i loro beni e garantire una stabilità della famiglia, la governance e la successione». Per questo vengono messi a disposizione «avvocati, consulenti patrimoniali e contabili». Il gruppo ha uffici in luoghi strategici: Brasile, Singapore, Hong Kong, Dubai, Usa, Gran Bretagna (Londra), Isole Vergini britanniche, Svizzera (Zurigo, Ginevra e Lugano), Spagna, San Marino e Italia. La sede tricolore (la stessa della Marshall trustees Srl) è nell’esclusiva via della Spiga a Milano. Ma qui del trust di Elkann assicurano di non sapere nulla.
Piz Nair è controllato al 100 per cento da New Zealand trustee Limited a sua volta di proprietà del nostro Mr Cone. Sul sito del Cone Marshall group è possibile leggere una bio autorizzata di Geoffrey Cone: «È un avvocato esperto in trust e pianificazione fiscale a livello internazionale, nonché fondatore e senior principal di Cone Marshall Limited. Cone è un’autorità riconosciuta nel suo settore e, in quanto tale, ha condiviso la sua vasta conoscenza e competenza» in diverse pubblicazioni internazionali. «Cone ha iniziato a occuparsi di contenzioso commerciale e di consulenza fiscale e fiduciaria nel 1980. […] Cone ha messo a frutto la sua vasta esperienza in contenzioso e consulenza, lavorando come avvocato nelle Indie occidentali britanniche per due anni. Nel 1998, tornò in Nuova Zelanda per fondare la sua società, Cone and Co., che sarebbe poi stata trasformata in Cone Marshall Limited nel 2007. La lunga e illustre carriera di Cone lo ha reso una figura di spicco a livello internazionale nel settore della pianificazione fiduciaria e fiscale, motivo per cui alcune delle famiglie più ricche del mondo, le banche più importanti e stimati avvocati e consulenti hanno affidato al suo studio il loro lavoro e i loro beni». Tra questi sembra proprio anche Elkann. Veniamo, adesso, alla biografia non autorizzata di Cone. La sua storia, a un certo punto, si intreccia con i cosiddetti Panama papers, ovvero la clamorosa diffusione di un file composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali creato dalla Mossack Fonseca, uno studio legale panamense, che conteneva informazioni dettagliate su oltre 200.000 società offshore costituite per consentire ai beneficiari di nascondere i patrimoni al Fisco dei rispettivi Paesi di origine. Ma il re dei paradisi fiscali, Mossack Fonseca, uno dei punti di riferimento globale per questo tipo di attività, aveva chi sognava di emularlo.
Scorrendo i documenti di un’inchiesta del 2016 del governo della Nuova Zelanda sui trust esteri si apprende che nel gennaio 2009 lo studio legale Cone Marshall chiede l’accreditamento presso Mossack Fonseca all’avvocato Ken Whitney, di Ross & Whitney. E la referenza finisce nei Panama papers. Viene indirizzata al Dipartimento compliance di Mossack Fonseca. Ecco il testo: «Scriviamo per confermare che Cone Marshall è uno studio legale affidabile che esercita ad Auckland, Nuova Zelanda, e con cui collaboriamo da molti anni», si legge su carta intestata di Ross & Whitney. «Siamo inoltre lieti di fornire una referenza verbale, se necessario», aggiunge Whitney nella lettera. Da allora, come vedremo, la Cone Marshall finisce a ragione o a torto in molti articoli di cronaca riguardanti scandali che hanno coinvolto politici (in Brasile) o grandi società che incassano appalti dai governi (in Slovacchia). Il consorzio di giornalismo investigativo che scoperchiò i Panama papers dedicò un sostanzioso capitolo alla Nuova Zelanda. Per esempio, nel 2016, svelò che «gli studi legali neozelandesi che nel 2014 fecero pressioni sul governo contro la chiusura del settore dei trust esteri in questo Paese avevano ampi legami con Mossack Fonseca». Nella notizia era specificato che «quattro dei cinque studi legali che hanno incontrato e fatto pressioni sull’allora ministro delle Entrate Todd McClay hanno fatto affari in varia misura con il controverso studio legale panamense».
Lo scoop citava anche il professionista che aveva raccomandato Cone allo studio centro-americano: «I Panama papers dimostrano anche che Ken Whitney, l’uomo che a lungo ha gestito le questioni legali personali del Primo ministro John Key, aveva legami con Mossack Fonseca attraverso due società registrate nelle Isole Vergini Britanniche, con Mossack Fonseca come agente. Whitney ha anche agito come arbitro per Karen Marshall di Cone Marshall nel 2009». Quando scoppiò lo scandalo in Slovacchia i cronisti annotarono che «le 11 società elencate come azioniste del colosso delle costruzioni Váhostav-SV sono state registrate in Nuova Zelanda dallo studio legale di Auckland Cone Marshall, di proprietà dei prolifici creatori di trust stranieri Geoffrey Cone e Karen Marshall». In Brasile, invece, Eduardo Cunha, già esponente di spicco del partito Movimento democratico brasiliano, venne accusato di aver nascosto il proprio patrimonio costruito a colpi di tangenti. La società utilizzata per occultarlo avrebbe, a un certo punto, spostato la sede legale presso lo studio Cone Marshall. L’avvocato spiegò ai giornalisti di aver liquidato il trust subito dopo avere sentito puzza di bruciato.
Cercando su Internet si possono trovare molte altre storie di questo tipo. Ma torniamo al Piz Nair, che in lingua romancia significa «Pizzo nero» (la montagna che domina Sankt Moritz). L’obiettivo dei trust è quello di segregare il patrimonio, in questo caso le quote del Sif lussemburghese. Questo istituto giuridico di origine anglosassone consente di nominare gestori delle poste finanziarie e beneficiari, che vengono così schermati. La Nuova Zelanda non è un Paese offshore e non si trova in nessuna black list, ma garantisce elevati standard di riservatezza. Per questo, come abbiamo visto, una decina di anni fa era finita al centro di polemiche.
Di fronte a un quadro tanto intricato viene da chiedersi: ma i soldi che sono finiti in pancia di Piz Nair da dove provengono? E perché dopo la morte di Marella e il trasferimento ereditario dei suoi beni i nipoti non hanno dichiarato quell’asset? Elkann, che ha accettato di pagare la tassa di successione sul fondo lussemburghese e, di fatto, ha ammesso di essere uno dei beneficiari finali dei 250 milioni di euro, perché, ancora nel 2025, teneva quel tesoretto nascosto nel Granducato? Che funzione aveva? E chi della famiglia era a conoscenza della sua esistenza? Viene anche da chiedersi perché Marella che aveva dichiarato la residenza (fittizia) in Svizzera per sfuggire al Fisco italiano abbia deciso di occultare milioni di euro in un’altra giurisdizione. È stata una sua idea? E perché i parenti hanno portato avanti questa scelta?
Purtroppo le risposte a tali quesiti, che potrebbero aprire scenari esplosivi, non potranno arrivare dalla Procura, visto che il pagamento di 183 milioni di imposte, sanzioni e interessi da parte degli Agnelli ha portato alla sospensione del fascicolo d’indagine e alla messa alla prova di John Elkann in una scuola dei Salesiani di Torino.