A 13 anni si può davvero comprendere fino in fondo un percorso che cambia il corpo e l’identità per sempre? Annamaria Bernardini de Pace smonta il racconto rassicurante sulla transizione dei minori: troppa fiducia negli “esperti”, troppa ideologia e pochissima prudenza. Quando le decisioni sono irreversibili l’età non è un dettaglio.
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Una tredicenne ha piena consapevolezza nel dirsi un maschio, ma col Covid agli adolescenti non fu data autonomia decisionale.
Un po’ tutti siamo andati lì con la mente, ad accoppiare la decisione del giudice che a La Spezia ha consentito a una bambina di 13 anni di cambiare sesso e diventare maschio, accogliendo il ricorso dei genitori, e la decisione di due tribunali che hanno invece sospeso la potestà genitoriale alla cosiddetta famiglia nel bosco respingendo l’istanza di mamma e papà.
È un parallelismo fin troppo naturale in questi giorni che ci avvicinano al Natale, la festa più cara ai bambini perché è un bambino al centro della Storia. Per questo la maggioranza delle persone vorrebbe che quei tre bambini fossero riportati nella dimensione dei due genitori, i quali hanno scelto un modello di vita, un modello che - in queste settimane - abbiamo scoperto non essere così insolito e nemmeno così deleterio come invece ci sta facendo credere la «burocrazia». Mi aveva sorpreso per esempio il racconto di Carlo Ratti, direttore della Biennale di architettura di Venezia, la «firma» della torcia olimpica, il quale in una lettera al Corriere della Sera ha raccontato la sua vita nel bosco. Lui, figlio di un professore che, dopo aver conseguito il PhD negli Stati Uniti ed essere diventato uno dei più giovani professori presso il Politecnico di Torino, «decise di abbandonare la carriera accademica per tornare alla terra».
Siccome in questi ultimi giorni la narrazione si sta piegando sulle verbalizzazioni di chi si «sta prendendo cura» dei tre bambini rurali facendo diventare - indirettamente e senza volerlo, sia chiaro - i due genitori alla stregua di due settari fanatici impegnati a dis-educare i figli, mi permetto di insistere sulla testimonianza del direttore della Biennale di Venezia di «figlio nel bosco». «Le condizioni di vita erano ugualmente pre-industriali o, forse, pre-belliche. Niente riscaldamento centralizzato. Cucina prevalentemente a legna. Una vecchia vasca da bagno con un minuscolo boiler. Letto scaldato dalle braci, soprattutto nelle notti d’inverno quando i vetri della camera da letto si ricoprivano di ricami di ghiaccio. E soprattutto, nessuna televisione, ma solo una vecchia radio Grundig che gracchiava in continuazione. […] Sono convinto che quegli anni siano stati formativi. Non perché esenti da difficoltà, anzi…».
La famiglia del bosco di Palmoli è diventata un simbolo e forse proprio per questo va rieducata, va riportata nei ranghi e chissà quando la rieducazione sarà terminata. Ad oggi infatti i giudici non hanno disposto la revoca del provvedimento nonostante le decisioni di mamma Catherine e papà Nathan di rivedere alcune delle scelte radicali in materia di salute (specie sulle vaccinazioni obbligatorie) e di scuola. I giudici, in poche parole, stanno scegliendo le nuove linee guida su come devono crescere i figli, mettendo in fuorigioco le scelte dei genitori. I quali - lo ripeto - sono raffigurati come fanatici cultori di pratiche strane.
È un mood per nulla nuovo perché mi porta alla mente un periodo che abbiamo archiviato con eccessiva fretta nonostante le orribili compressioni di libertà e diritti, compressioni avallate anche in quel caso dai giudici. Mi riferisco al periodo del Covid e alla stagione delle vaccinazioni, soprattutto a carico di minori. Ci sono stati casi di genitori a cui i giudici hanno imposto di vaccinare i figli minorenni. Nei casi invece dove i pareri tra mamma e papà circa le vaccinazioni ai figli minorenni erano discordanti, i giudici sono sempre andati a favore di chi li voleva vaccinare, elidendo così il diritto dell’altro genitore di poter scegliere. In questi casi, poteva accadere che il figlio o la figlia fossero d’accordo nel non volersi vaccinare ma il giudice respingeva il ricorso del genitore contrario al siero (addirittura gli toglieva la potestà genitoriale: conosco diversi casi), negando l’ipotesi che il minore fosse pienamente consapevole del rifiuto. Oggi sappiamo che i timori di quei ragazzi ad alterare il sistema immunitario erano fondate. Ma la loro idea però era considerata una «suggestione» (magari influenzata dal racconto di chi aveva avuto reazioni avverse dopo la punturina oppure aveva letto della morte di Camilla Canepa) e quindi non poteva essere presa seriamente in considerazione: insomma gli adolescenti si dovevano vaccinare per poter andare a scuola o a fare sport o a stare assieme. «Cosa volete che ne sappiamo i ragazzini del loro corpo?», pontificavano medici, esperti e giuristi vari.
Già, e oggi ci ritroviamo con la decisione storica di un giudice che permette a una tredicenne di cambiare sesso: perché lo vuole lei, perché lo vogliono i genitori. E, come ha scritto ieri Maurizio Belpietro, perché lo vogliono le nuove tendenze. I bambini del bosco devono essere rieducati. Gli adolescenti non potevano opporsi al vaccino. Ma la tredicenne che si sente maschio «ha maturato una piena consapevolezza circa l’incongruenza tra il suo corpo e il vissuto d’identità», tanto da poter portare a termine «un progetto volto a ristabilire irreversibilmente uno stato di armonia tra soma e psiche nella percezione della propria appartenenza sessuale».
Attenti, questa sentenza sarà presto un battistrada pericoloso.
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Riduci
Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità (Ansa)
Un ddl presentato dai ministri Roccella e Schillaci stabilirà dei paletti chiari sui bloccanti della pubertà. In assenza di dati precisi e linee guida, rimane lo spazio per verdetti allucinanti come quello di La Spezia.
Secondo il tribunale di La Spezia, una ragazzina tredicenne può cambiare sesso all’anagrafe e avviarsi al cambiamento chirurgico perché ha «maturato una piena consapevolezza circa l’incongruenza tra il suo corpo e il vissuto d’identità come fino ad ora sperimentato», cosa che dovrebbe «consentirle di concludere, altrettanto consapevolmente un progetto volto a ristabilire irreversibilmente uno stato di armonia tra soma e psiche nella percezione della propria appartenenza sessuale».
A testimoniare tale consapevolezza sarebbero «il percorso psicoterapico seguito con costanza, le terapie ormonali praticate con successo e la matura gestione del disagio sociale conseguente al processo di cambiamento». A prima vista tutto appare molto chiaro, molto trasparente, molto informato e molto scientifico. Il fatto, però, è che in Italia riguardo al cambiamento di sesso dei minori la situazione è tutto tranne che chiara e trasparente.
Nel 2024 è stato istituito il Tavolo tecnico interministeriale sui minori con disforia di genere, una struttura di fatto consultiva che ha proprio l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine nell’attuale caos. Tanto per capirsi: a oggi non si sa nemmeno quanti minori abbiano intrapreso percorsi di cambiamento di sesso, a quanti e per quanto tempo vengano somministrati i farmaci cosiddetti bloccanti della pubertà, quanti e con che conseguenze si sottopongano a trattamenti ormonali. Non sono chiare nemmeno le linee guida seguite dalle varie strutture ospedaliere, dato che non esistono indicazioni ministeriali. Questo tavolo si riunirà ancora a gennaio e dovrebbe produrre una relazione che aiuti ad avere qualche informazione in più, ma non sfornerà nulla di risolutivo.
Maggiori passi avanti dovrebbero arrivare grazie al disegno di legge presentato dai ministri Eugenia Roccella e Orazio Schillaci che introduce disposizioni per la appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere, cioè bloccanti della pubertà come la triptorelina e poi ormoni. Si tratterebbe di un giro di vite fondamentale, perché il ddl - benché non possa bloccare la somministrazione dei farmaci come avvenuto in altre nazioni - può stabilire dei paletti chiari. Tanto per cominciare istituirebbe un registro delle somministrazioni: finalmente si saprebbe chi prescrive un farmaco, per quanto tempo e a fronte di quali evidenze. Poi - elemento ancora più rilevante - dovrebbe essere un comitato etico a validare ogni nuova somministrazione.
Attualmente il ddl è in discussione nella commissione affari sociali della Camera, dove si sono svolte negli ultimi mesi varie audizioni, alcune delle quali estremamente rilevanti. Per la prima volta, ad esempio, hanno preso la parola alcune madri di minori con disforia di genere, alcuni dei quali hanno scelto di non proseguire nel percorso di cambiamento di sesso o hanno cambiato idea dopo averlo iniziato.
In particolare sono state audite le rappresentanti di Generazione D, una «associazione culturale apartitica, aconfessionale e priva di scopi di lucro, il cui obiettivo è informare in merito alle problematiche della disforia/incongruenza di genere in bambini, adolescenti e giovani adulti».
La presidente dell’associazione in commissione ha fornito alcuni dettagli sull’associazione. «Oggi tra i nostri figli troviamo bambini dagli 11 anni, adolescenti e giovani adulti con percorsi molto diversi: alcuni sono seguiti da psicologi senza interventi medici, altri hanno iniziato terapie ormonali e altri ancora hanno già subito interventi chirurgici. Registriamo inoltre numerosi casi di desistenza e detransizione, che ci permettono di avere una visione diretta di tutti gli stadi del percorso. Per la quasi totalità, la disforia è insorta improvvisamente in adolescenza, spesso durante o subito dopo il lockdown, periodo nel quale numerosi studi rilevano un aumento generale del disagio giovanile. In tale contesto, la disforia sembra talvolta assumere forme di contagio sociale, alimentate dalla sovraesposizione a social network e influencer. Osserviamo inoltre un aumento di maschi con neurodivergenze o disturbi psichiatrici che manifestano un’identificazione transgender solo in adolescenza, senza segnali precedenti».
Sono elementi, questi, decisamente importanti, che contribuiscono a smontare l’immagine della disforia o incongruenza di genere quale questione monolitica da affrontare in un modo preciso. «I genitori che si rivolgono a noi - circa due a settimana - sono spaventati, disorientati e spesso delusi dalle risposte ricevute nei centri specializzati, dove la disforia viene presentata come una condizione innata e immutabile da assecondare subito per evitare rischi suicidari. In molti casi viene persino rivolto loro, anche davanti ai figli, il quesito: «Preferisce un figlio morto o una figlia trans?» o viceversa, generando una pressione emotiva che ostacola una valutazione serena e realmente informata», dicono ancora gli esponenti dell’associazione. Secondo Generazione D è dunque necessaria «una maggiore cautela nella medicalizzazione dei minori, ricordando che tutti i Paesi pionieri dell’approccio affermativo stanno rivedendo le proprie linee guida. Senza un’adeguata esplorazione psicologica, la disforia di genere rischia di diventare un ombrello diagnostico sotto il quale comorbidità importanti restano invisibili e non trattate». La commissione parlamentare ha ovviamente udito anche voci differenti, tra cui quelle degli attivisti trans. Nota a margine: proprio da profili social legati all’attivismo trans sono arrivati attacchi e insulti online alle madri di Generazione D che hanno scelto di esporsi.
Il dato importante, comunque, è che per la prima volta in Aula siano state raccontate storie vere e diverse dalla consueta narrazione che pone la transizione di genere come unica via per affrontare ogni problema legato all’identità sessuale. Purtroppo, bisogna anche constatare che tale narrazione è ancora molto (troppo diffusa) persino fra le società scientifiche che si occupano del tema. Pochi giorni fa, otto realtà italiane tra cui la Società italiana di endocrinologia (Sie), la Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica (Siedp) e l’Osservatorio nazionale identità di genere (Onig) hanno firmato un appello contro il ddl attualmente in discussione, sostenendo che la legge «rischia di limitare fortemente l’accesso alle cure sanitarie per le persone minorenni transgender». Come spesso accade, a questo appello è stata data grande rilevanza, ma giustamente Generazione D fa notare che «appare doveroso ricondurre il documento alla sua reale portata rappresentativa. In Italia operano centinaia di associazioni e società scientifiche delle professioni sanitarie: secondo gli elenchi pubblicati dal ministero della Salute, il numero supera ampiamente le quattrocento. A fronte di tale pluralità, il comunicato in oggetto è firmato da sole sei società scientifiche, di cui appena due di area pediatrica, affiancate da una federazione e da una associazione culturale che, per definizione, non hanno funzione di produzione di linee guida cliniche». Inoltre, dice ancora Generazione D, «le società firmatarie rivendicano l’esistenza di evidenze scientifiche, ma non producono dati italiani, né su accessi, né su trattamenti, né su esiti clinici. Eppure criticano un decreto che istituisce un registro nazionale dei farmaci, che rappresenterebbe lo strumento minimo indispensabile per iniziare a raccogliere tali informazioni».
Il punto è tutto qui. In Italia sono concesse decisioni allucinanti come quella di La Spezia in totale assenza di dati chiari, di linee guida certe e di consenso scientifico sul tema e alcune realtà che si definiscono tecniche fanno politica e battagliano contro il governo che cerca di mettere ordine.
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Riduci
Il Napoli festeggia la Supercoppa italiana dopo aver battuto il Bologna 2-0 a Riyadh (Ansa)
A Riyadh il Napoli conquista la seconda Supercoppa italiana della sua storia battendo 2-0 il Bologna. La finale si decide tra la fine del primo tempo e l’inizio della ripresa con la doppietta del brasiliano. Conte: «I ragazzi trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia». Italiano: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Questa esperienza ci farà crescere».
Il Napoli è supercampione d’Italia. A Riyadh gli azzurri battono 2-0 il Bologna e conquistano la seconda Supercoppa italiana della loro storia, chiudendo la finale già all’inizio della ripresa con la doppietta di Neres. In una finale mai realmente sfuggita al controllo degli azzurri è stata la squadra di Antonio Conte a confermarsi supercampione d’Italia. Il Bologna è rimasto in gara soltanto nel primo tempo fino al momento in cui il lampo di Neres ha abbagliato prima Ravaglia e poi tutti i 17.869 spettatori del Al-Awwal park, compresi i cosiddetti figuranti che durante la partita non hanno comunque fatto mancare la propria partecipazione da una parte e dall’altra urlando «Napuli, Napuli, Napuli» o «Bulugna, Bulugna, Bulugna»; ma che arrivato il triplice fischio di Colombo hanno pensato bene di abbandonare in fretta e furia lo stadio senza godersi nemmeno lo spettacolo della premiazione.
Fermo restando che il bilancio degli spettatori presenti alla finalissima ha comunque superato di circa un migliaio quello della semifinale di venerdì tra Bologna e Inter, va al tempo stesso sottolineato per dovere di cronaca che per evitare un colpo d’occhio non da finale le due curve del secondo anello sono state coperte con teloni raffiguranti il logo della Supercoppa e quelli dei club. Ma lo spettacolo è stato soprattutto quello confezionato dalla Lega Serie A prima del calcio d’inizio, con la passerella sul prato per alcune leggende del calcio italiano, da Roberto Baggio e Alessandro Del Piero a Fabio Capello, Christian Vieri e Marco Materazzi, Leonardo Bonucci, Ciro Ferrara, Vincent Candela e Christian Panucci. A completare lo show prepartita un mix di giochi di luci laser, getti di fuoco a bordo campo e fuochi d’artificio a illuminare il cielo di Riyadh. Finito lo spettacolo, finalmente il campo.
Conte non ha toccato nulla rispetto alla semifinale vinta contro il Milan e ha confermato l’undici titolare con Neres e McTominay ad agire alle spalle di Hojlund. Vincenzo Italiano, privo di Bernardeschi, ha inserito Cambiaghi e rilanciato Ferguson in mediana al posto di Moro. Per gran parte del primo tempo il Bologna ha provato a reggere l’urto generato dalle fiammate napoletane con attenzione difensiva, con la coppia dei centrali Heggem-Lucumi praticamente perfetta e un Ravaglia ancora una volta protagonista assoluto come contro l’Inter. La prima vera occasione è arrivata al 10’, quando Elmas è entrato in area da sinistra e ha calciato fuori a tu per tu con Ravaglia. È il segnale di un dominio territoriale che si è consolidato col passare dei minuti. Il Bologna ha tenuto, ma ha faticato a ripartire e si è affidato soprattutto alle iniziative di Orsolini. Al 31’ McTominay è andato vicino al vantaggio, poi al 37’ Spinazzola ha provato lo scavetto, trovando ancora la risposta del portiere rossoblù. Il muro, però, è crollato al 39’: Neres ha ricevuto su una rimessa laterale apparentemente innocua, si è spostato il pallone sul mancino e ha disegnato una traiettoria imparabile sotto l’incrocio. È l’1-0 che ha indirizzato la finale in maniera decisiva.
Nella ripresa il Napoli è infatti ripartito forte. Ravaglia ha salvato su Hojlund e Rrahmani, ma il Bologna può recriminare per non aver sfruttato la più grande occasione per rimettersi in carreggiata: al 55’ Orsolini ha sfondato a destra e servito Ferguson, che di testa non è riuscito però ad angolare, facilitando la presa di Milinkovic-Savic. È l’episodio che avrebbe potuto riaprire la gara. Un minuto dopo, invece, è arrivato il colpo del ko. Il raddoppio è un mix di pressione e errore: Heggem ha appoggiato corto, Ravaglia ha giocato male su Lucumi e Neres si è avventato sul pallone, anticipando tutti e superando il portiere con un tocco sotto per la doppietta personale. La finale è finita lì. Conte ha gestito, Italiano ha provato a cambiare uomini ma non l’inerzia. Il Napoli ha sfiorato anche il 3-0 nel finale, mentre il Bologna si è spento progressivamente, con qualche tentativo velleitario di Rowe.
Al fischio finale è festa azzurra sotto le luci dell’Al-Awwal Park, con il trofeo sollevato al cielo di Riyadh da Di Lorenzo sulle note di ’O surdato ’nnammurato. Secondo trofeo per Conte alla guida del Napoli, conferma di una squadra che ha saputo trasformare la Supercoppa in una naturale estensione della stagione precedente.
Nelle parole dei protagonisti c’è la fotografia della serata. Conte ha celebrato la voglia di vincere dei suoi e ha reso onore al Bologna: «Siam venuti qui per difendere lo Scudetto sulla maglia e difendere il motivo perchè abbiamo lo Scudetto sulla maglia. Abbiamo fatto un’ottima semifinale contro il Milan che è una grandissima squadra. Oggi abbiamo battuto il Bologna, non parlerei di rivincita ma faccio i complimenti ai ragazzi perché trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia. Complimenti a loro quindi. Però nella vittoria vorrei sottolineare ciò che sta facendo il Bologna: complimenti a loro, sono cresciuti tantissimo, una certezza è diventata, come l’Atalanta. Ha eliminato l’Inter, in campionato ci ha battuto e grande merito a Vincenzo Italiano e onore non solo ai vincitori ma anche a chi non ha vinto. Non mi piace dire sconfitti. Vanno i miei più grandi complimenti». Italiano, invece, ha fatto i complimenti ai suoi ragazzi e rivendicato il percorso: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Merito al Napoli. Noi ci dobbiamo portare dentro questa bellissima esperienza e secondo me cresceremo ancora perché dobbiamo affrontare altre tre competizioni importanti e questa esperienza ci insegnerà tanto. Mi dispiace per la nostra gente, ma noi abbiamo dato il massimo, ma ripeto merito al nostro avversario che è una squadra fortissima che oggi secondo me ha over performato e ha fatto una partita straordinaria. Noi abbiamo dato e di questo nessuno può dire nulla. Cercheremo di fare meglio in futuro».
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