Tutta colpa del manuale. Maledetto libretto di istruzioni: è quello che è mancato al presidente del Consiglio durante l'epidemia di coronavirus. Lo ha confessato lui stesso ai giornalisti l'altra sera, nella sua chiacchierata a ruota libera fuori da Palazzo Chigi, prima di prendersi gli insulti della folla radunata tra via del Corso e piazza Colonna. «Non c'era un manuale da seguire nella gestione della crisi, ma decisioni da prendere giorno per giorno», ha riportato tra virgolette Repubblica. Oggi i pm di Bergamo in trasferta a Roma gli chiederanno conto di quelle decisioni giorno per giorno, che però agli inizi di marzo, quando il virus non era ancora completamente dilagato nella Bergamasca e dunque si poteva contenere evitando molte morti, non furono prese. Giuseppe Conte sarà sentito in qualità di testimone, ma qualcuno ipotizza che a seguito dell'interrogatorio possa essere addirittura indagato. «Il premier difende le scelte, ma teme l'avviso di garanzia», titolava ieri il quotidiano diretto da Maurizio Molinari. Lui, il capo del governo, dice di essere tranquillo e ufficialmente liquida l'incontro con i magistrati con un «ben vengano tutte le indagini». Tuttavia, sui giornali trapela l'irritazione per una convocazione che arriva a ridosso degli Stati generali, la passerella che Conte aveva immaginato per celebrare il suo successo e la fine del «lockdown». L'iniziativa della Procura rischia infatti di segnare l'intera gestione dell'emergenza con un'accusa infamante: epidemia colposa. Tradotto, l'esecutivo non ha fatto quello che doveva per garantire la salute degli italiani e la conseguenza sono state centinaia, se non migliaia, di vittime.
Conte, da avvocato qual è, prepara la sua difesa dicendo che le decisioni le potevano prendere anche le Regioni, in questo caso la Lombardia. Un modo, se non di scaricare su altri le proprie responsabilità, quanto meno di dividerle e attenuarle: se fosse stato così evidente che si dovevano chiudere Alzano e Nembro, i due paesi alle porte della Val Seriana ma a due passi dal capoluogo orobico, dichiarandoli zona rossa, perché non lo ha fatto Attilio Fontana, che pure avrebbe potuto? L'azzeccagarbugli che è in Conte ha già imparato a memoria l'articolo 32 della legge del 23 dicembre 1978, numero 833, richiamato dal decreto legge 6/2020, e lo reciterà davanti ai pm per sostenere la tesi di non aver commesso alcun errore, tantomeno omissioni. Nessun ritardo, nessun tentennamento, lui era a Palazzo Chigi, ma dormiva perché toccava ad altri vigilare. Che la Costituzione assegni allo Stato centrale, e dunque al governo pro tempore, l'intervento in caso di pericolo grave per l'incolumità e stabilisca che la compressione dei diritti dei cittadini (come per esempio dichiarare lo stato di emergenza e impedire agli italiani di uscire di casa) può essere decisa solo dai vertici della Repubblica e per motivi straordinari è ovviamente un dettaglio ininfluente per il docente di diritto che regna a Palazzo Chigi.
Ma a prescindere dalle questioni costituzionali su cui il presidente del Consiglio si impegnerà - come spesso gli capita - a negare l'evidenza, c'è un altro elemento che depone a suo sfavore ed è ciò che ha firmato il direttore dell'Istituto superiore di sanità. Il professor Silvio Brusaferro il 3 marzo siglò un verbale del comitato tecnico scientifico in cui sta scritto che l'assessore al Welfare della Lombardia e il suo direttore generale per la sanità chiedevano di chiudere la zona di Alzano e Nembro. Se Giulio Gallera chiedeva al governo di disporre le zone rosse nella sua regione è evidente che si dava per scontato che la decisione dovesse prenderla Conte. Peraltro, lo stesso Brusaferro il 5 marzo, cioè due giorni dopo, sollecita l'esecutivo, chiedendo la chiusura dei due Comuni bergamaschi. Ma Conte non decide, perché preferisce pensarci un po' su, chiedendo una riflessione supplementare, con il risultato che fino al 9 non si fa nulla e in sei giorni il virus è libero di circolare e contagiare altre persone.
Oltre alla sequenza dei verbali e delle lettere, c'è poi un altro elemento a sfavore della tesi di Conte e sono le forze dell'ordine. Per dichiarare una zona rossa non basta un'ordinanza regionale, servono polizia, carabinieri e militari, in quanto se si vogliono chiudere le strade e impedire alle persone di uscire sono necessari i posti di blocco. Le Regioni, come è noto, non dispongono dell'esercito e neppure di personale addetto all'ordine pubblico, che dipendono rispettivamente dal ministero della Difesa e dal Viminale. È per questo che i pm vogliono sentire anche il ministro Luciana Lamorgese. Visto che a Bergamo erano arrivati in forze agenti e militari, chi diede l'ordine di fare dietrofront e non bloccare l'area? Sì, insomma, ci siamo capiti. Il governo sale sul banco dei testimoni, ma rischia di trovarsi su quello degli imputati. Altro che passerella a Villa Pamphili.
I giornali hanno improvvisamente scoperto che c'è troppo sonnifero nella tisana alla camomilla che viene quotidianamente offerta nelle conferenze stampa di Palazzo Chigi. Sì, con sorpresa, negli ultimi giorni le cronache dei più importanti quotidiani filo governativi manifestano qualche dubbio sulla strategia di Giuseppe Conte, raccontando le molte cose che non funzionano del piano di rilancio messo a punto dalla maggioranza.
Ieri, per esempio, La Repubblica, dopo decine di articoli della Verità che segnalavano la situazione, si è accorta che la cassa integrazione non arriva nelle tasche degli italiani. «Gli 800.000 dimenticati» titolava con stupore il quotidiano che un tempo era di proprietà di Carlo De Benedetti e ora è finito ad abbellire l'impero della famiglia Agnelli. «Uno su dieci non ha ricevuto un euro della cassa integrazione. Dai Comuni ai sindacati l'allarme per i pochi fondi della scuola», spiegava la testata romana. Ma se il foglio diretto da Maurizio Molinari manifestava chiaramente lo sconcerto per le molte lacune governative in un periodo di emergenza economica che richiederebbe un'azione tempestiva ed energica, qualche alzata di sopracciglio si registrava pure dalle parti del Fatto quotidiano, organo ufficiale del governo Conte-Casalino. «Bonus bici: i 120 milioni stanziati sono pochi. Adesso si rischia il click day (e la fregatura)». Eh, sì, dopo mesi di melassa filocontiana, qualche dubbio affiora anche a casa di Marco Travaglio. Forse non tutte le iniziative messe in campo da Palazzo Chigi vanno a meraviglia come fino a ieri sembrava. Non si parla di Immuni, l'applicazione che doveva tracciare i malati di Covid e al massimo traccia il percorso dei ministri intorno a piazza Colonna, sede del governo. Né ci sono approfondimenti sulla poderosa iniezione di liquidità che avrebbe dovuto consentire alle aziende di fronteggiare la crisi. Però si capisce che l'idillio è finito, perché se perfino la guardia pretoriana del Fatto quotidiano sente odore di «fregatura», significa proprio che l'avventura politica di Giuseppe Conte è arrivata agli sgoccioli.
Del resto, finora l'avvocato di Volturara Appula è stato abile nel nascondere la polvere sotto il tappeto, rinviando ogni decisione che potesse metterlo in difficoltà. Da buon azzeccagarbugli, il premier ha incartato i problemi in un involucro di parole a tenuta stagna. Il suo obiettivo non era risolvere una situazione critica, ma seppellirla in attesa di tempi migliori. L'abilità del presidente del Consiglio, in due anni è consistita nel prendere tempo. Procrastinare è la sintesi del suo operato. Bisogna decidere sull'alta velocità? Meglio non assumere decisioni nette, ma rinviare. Così è stato per il caso Autostrade. A due anni dal crollo del Ponte Morandi, nessuno ancora ha capito che cosa intenda fare il governo. Stessa musica sul fondo Salvastati: Giuseppe Conte ha giurato e spergiurato che non intende farvi ricorso, anche perché la metà dei 5 stelle non lo vuole, ma in realtà il suo No è già diventato Ni e presto potrebbe essere un Sì, a seconda della convenienza.
Che l'uomo conosca l'arte del palleggio e del cazzeggio è ormai certo. E le crisi aziendali ne sono la prova. Ricordate il caso Ilva? Quando lo scorso anno Arcelor Mittal annunciò che avrebbe restituito le chiavi dell'acciaieria perché il governo non aveva garantito lo scudo penale agli amministratori, Conte minacciò fuoco e fiamme, dicendosi pronto a chiedere i danni. Sono passati più di sei mesi e al momento non esiste soluzione, se non quella di una costosa nazionalizzazione dell'acciaieria.
Come abbiamo spiegato ieri, non meglio va con la scuola: l'anno si è chiuso nel caos e se non interverranno fattori nuovi è destinato a riaprirsi nel caos. Situazioni non diverse da quelle che si registrano in Alitalia o in Air Italy, per non parlare di Jabil, la multinazionale americana che ha licenziato tutti, o della situazione venutasi a creare a Trieste, con la destituzione del presidente del porto. Scuola, trasporti, grandi industrie: tutti sono sul piede di guerra. E le conferenze stampa di Conte non bastano più a placare gli animi. Eh già, le tisane alla camomilla hanno funzionato fino a che la gente aveva paura del Covid. Ma ora alla paura sta subentrando la rabbia e il sonnifero non funziona più. Quanto potrà durare un governo che non governa, ma fa solo finta di farlo?
Non so chi abbia avuto l'infelice idea di chiamarlo piano «Rinascita». Se è stato Giuseppe Conte, viene da dire che l'uomo con la pochette avrà anche fatto progressi, cercando di piacere a tutti. Ma non sa niente della storia italiana, perché il piano «Rinascita» fu messo a punto da Licio Gelli contro i comunisti: un programma che per anni è stato agitato sui giornali come l'anticamera del golpe piduista.
Dunque, se non ci fossero giornali adoranti che descrivono il capo del governo come «una forza tranquilla e riformista» (sì, mi è capitato di vedere anche questo lecca lecca ieri), dopo la conferenza stampa di mercoledì il presidente del Consiglio sarebbe stato sbranato a mezzo stampa, per l'inconcludenza delle sue chiacchiere. Conte ha infatti parlato per una buona mezz'ora senza dire nulla, se non promesse sprovviste della data di scadenza. Vedrò, rafforzerò, valuterò. L'uomo del farò domani dice di avere fretta, ma si dà il caso che non si capisca per fare che cosa. Al momento l'unica decisione presa dal suo esecutivo è una sanatoria per 600.000 immigrati, talmente urgente che da quando è stata varata solo poche centinaia di persone ne avrebbero usufruito. Per il resto, il governo procede tranquillo su un binario morto. La revoca della concessione alla società Autostrade? Il premier che annunciò, a cadaveri ancora caldi, la caducazione dei Benetton dalla gestione delle rete viaria, a due anni di distanza assicura che «ci sono gli estremi per la revoca» e poi, per strizzare l'occhio ai 5 stelle che ormai lo sopportano a malapena - ma solo in quanto, via lui, andrebbero a casa pure loro - parla di «fiscalità di vantaggio per il Sud»: un'idea nuova, che infatti patrocinò vent'anni fa Paolo Cirino Pomicino. Poi, come tutti quelli che si rendono conto di aver fallito, Conte ha annunciato un «nuovo inizio», ma vedendo i sondaggi in tanti avrebbero voluto sentire l'annuncio della fine. Del suo governo, ovvio.
Ciò detto, il presidente del Consiglio l'altro ieri ha continuato a rimanere appeso al Recovery fund, la coperta di Linus di Giuseppi, senza rendersi conto che la promessa di decine di miliardi in arrivo da Bruxelles nei prossimi anni è scavalcata dai fatti. Già, perché mentre Conte si affanna a cercare una via d'uscita per trovare soldi che non ci sono, ieri sono giunte due notizie, entrambe positive per il Paese e a loro modo negative per l'uomo che continua ad atteggiarsi a salvatore della patria pur di non sloggiare. La prima riguarda gli investitori che si sono messi in fila per comprare titoli di Stato. A differenza di quanto si vuole far credere, c'è la ressa per comprare i Btp italiani, al punto che, a fronte di un'emissione di 14 miliardi, le richieste per sottoscrivere le obbligazioni di Stato sono arrivate a quota 110 miliardi. Già poche settimane fa le prenotazioni erano arrivate a 32 miliardi a fronte di una disponibilità di otto. Certo, a spingere i fondi e le banche a comprare i titoli del debito italiano sono i buoni rendimenti, superiori a quelli di altri Paesi. Ma se fossimo ritenuti sull'orlo del crac nessuno metterebbe mano al portafogli: se invece sono pronti a mettere sul piatto miliardi è perché ritengono che l'Italia possa farcela, e non sia alla canna del gas come molti la descrivono. Tra chi crede nelle nostra ripresa, sicuramente ci sono i grandi investitori internazionali, ma anche molti italiani, che comprano le obbligazioni del nostro Paese per impiegare la forte liquidità accumulata in questi anni, convinti anch'essi che il momento difficile verrà superato.
E qui veniamo alla seconda buona notizia. Nonostante l'altolà della Corte costituzionale tedesca, la Banca centrale europea ha deciso di aumentare di 600 miliardi l'acquisto dei titoli di Stato dei Paesi Ue, dunque di sostenere anche quelli italiani. L'effetto si è visto subito, perché è bastato l'annuncio a sgonfiare lo spread: segno evidente che per contrastare le tendenze speculative serve un'autorità monetaria che, come accade in tutto il mondo, sostenga l'economia nazionale. Qualcuno osserverà: ma se non ci sono problemi a emettere titoli di Stato, anche perché i maledetti parametri europei che ci hanno perseguitato per anni sono saltati, e la Bce fa finalmente il suo mestiere di Banca centrale, perché Giuseppi insiste a parlare di Mes e di Recovery fund come se da essi dipendessero le sorti della nostra economia? Già, perché? Forse non ha capito? No, credete a me. Ha capito benissimo, ma sa che più mantiene alta la guardia e l'allarme sulla situazione del Paese giustificando la propria presenza a Palazzo Chigi e più sarà difficile buttarlo giù. Gli uomini della provvidenza, come lui ritiene di essere, servono nelle emergenze. Ma se le emergenze non ci sono, anche della provvidenza e dei suoi servitori non c'è più bisogno. Dunque, addio piano di «Rinascita»: si fa la valigia.







